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Zohar. Il libro dello splendore
a cura di Giulio Busi
traduzione dall’aramaico e dall’ebraico di Anna Linda Callow
Einaudi Euro 80,00
L’ebraismo – in quanto fede, spiritualità, spazio culturale – ha una logica tutta sua. Per chi vi si accosta armato degli strumenti mentali che l’Occidente ha ereditato dalla classicità greco-romano, questa logica risulta a tratti enigmatica, per non dire bislacca. Il principio di contraddizione, ad esempio, è fatto nella tradizione d’Israele di una pasta molto diversa da quella che usa Aristotele, come insegna la storiella di quel rabbino che, nei panni di giudice, dà di buon grado ragione a entrambe le controparti. Rimproverato per questa dalla solita moglie ficcanaso, egli conclude benevolmente che anche quest’ultima ha ragione…La divergenza d’opinione è in fondo il sale di tutta la tradizione talmudica, che si fa nell’accostamento di pensieri diversi, che mai esclude una nuova combinazione, un inedito punto di vista.
C’è però una distinzione di base su cui questa civiltà è nitida, anzi categorica: per l’ebraismo il mondo si divide tutto fra ciò che è conoscibile e ciò che non lo è. La scienza, l’arte, il pensiero, e prima ancora l’ermeneutica come approccio al creato – sia esso il dettato divino o la natura che ci circonda – occupano lo spazio del conoscibile. In questo contesto si situa anche la morale come derivazione della legge divina contenuta nella Bibbia. E tutta la tradizione rabbinica di commento al testo sacro è lo spaziare della parola nel campo delle conoscenze cui le facoltà umane hanno successo. Fuori da questo terreno del conoscibile, c’è il mistero: tanto nel passato, quanto nel futuro e persino nelle infinite lontananze del presente. L’ebraismo ha ben coscienza dei limiti che Dio ha imposto all’uomo: questi è una creatura piena di virtù e potenzialità, l’unica a disporre di quello straordinario strumento che è il linguaggio. Ma ci sono cose che non sa, e che non potrà mai conoscere.
La tradizione spirituale d’Israele si situa dunque entro quei confini. Con tale rigore che Dio non è raffigurato e neppure nominato, proprio nella coscienza che questi caratteri sono irraggiungibili per la mente umana.
Tutta la tradizione spirituale fa i conti con le limitazioni dell’uomo. Tutta tranne in un caso. L’ebraismo distingue infatti quattro livelli di interpretazione del testo sacro (e per estensione, di “lettura” del mondo stesso). Si passa dal letterale all’allusivo all’omiletico, fino ad arrivare al livello più ardito, che in ebraico è detto sod, cioè “segreto”. Ebbene, la qabbalah (che in ebraico significa, molto semplicemente “tradizione”), e in senso più lato tutta la mistica ebraica, è un affondo in questo quarto livello interpretativo. Un’esplorazione, quasi una fuga dal regno del conoscibile, verso quello del mistero. Là dove l’uomo non è in grado di percepire, ma soltanto immaginare. E di conseguenza raccontare, ben sapendo di non offrire delle verità, ma delle congetture.
Il Sefer ha-Zohar, cioè “libro dello splendore” è il nucleo centrale di tutta la mistica ebraica. Tanto tradizionale nella forma (apparentemente si presenta come un commentario biblico), quanto originale nella sua inesauribile capacità di divagazione, nella vocazione ad “andare oltre” – il testo, la conoscenza, l’immaginazione. Scritto in un aramaico impervio che dovrebbe dargli una patente di antichità archetipica, fu invece composto nel produttivo ambiente intellettuale e cabbalistico della Spagna del XIII secolo.
Il lettore italiano può oggi far conto su una antologia di passi dello Zohar curata da Giulio Busi e tradotti da Anna Linda Callow: “Il mio occhio ha visto ciò che non avevo visto mai e mi sono levato come non avrei mai creduto. Bello è morire nel fuoco dorato, buono e ardente, nel luogo da cui le scintille sprizzano in tutti i lati” (p.96). Questo “andare al di là della conoscenza” è, nella mistica ebraica, tutt’altro che un cammino a tentoni nel buio. Il segreto è luce nelle sue inesauribili rifrazioni di colore. E’ soprattutto, un intrepido atto spirituale che, prima di tuffarsi nell’inconoscibile, richiede un bagaglio di nozioni e tecniche ermeneutiche preparatorie.
E’ questa una delle ragioni che ha fatto della qabbalah uno strano oggetto del desiderio attraverso secoli e continenti. A partire dagli umanisti enciclopedici come Pico della Mirandola, che avviò l’impresa di raccogliere e tradurre i testi della mistica ebraica, per arrivare alle popstar infatuate di questa disciplina. Essa attanaglia per la sua originalità ma soprattutto per il suo coraggio intellettuale di andare oltre il conoscibile, pur nella consapevolezza dei limiti imposti all’uomo. Quarto stadio dell’ermeneutica, la mistica, cioè l’esplorazione del senso segreto annidato nelle cose, ha essenzialmente due oggetti d’indagine. Il principio della creazione, Bereshit – quell’attimo irraggiungibile in cui Dio si accinge all’opera – e il segreto del carro celeste – detto in ebraico Merkavah -, cioè la geografia del mondo superiore in cui dimora il Creatore.
Queste due inafferrabili regioni spazio-temporali sono il luogo dove la mistica scatena la propria tentazione di conoscere: con fertile immaginazione, rigore intellettuale, struggente poesia.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa
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