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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Guida alla letteratura israeliana, prima parte 07/05/2008

Israele è un paese che ama leggere.

Con una popolazione di quasi sette milioni di persone vengono venduti ogni anno 35 milioni di libri e la produzione letteraria rappresenta un giro d’affari di 360 milioni di euro.

Attraverso i libri il pensiero trasmette la conoscenza e il sapere, le idee e la cultura. E’ attraverso il Libro che l’identità israeliana è riuscita a sopravvivere a secolari discriminazioni e pogrom.

Israele è un antico nuovo paese, di piccole dimensioni ma con un paesaggio vario ed una popolazione eterogenea e culturalmente attiva. E’ un luogo dove l’Oriente e l’Occidente si incontrano, dove il passato e il presente si toccano e dove le ideologie forgiano i modi di vita. Con quattro millenni di tradizione ebraica alle spalle, cento anni di sionismo e ormai sei decenni di stato moderno, la cultura israeliana ha una propria identità, pur mantenendo al contempo l’unicità delle 70 comunità che la compongono.

E’ una cultura che nasce dall’incontro fra individuo e società mescolando tradizione e innovazione.

Trattandosi di una società composta prevalentemente da immigranti e figli di immigranti, l’espressione creativa di Israele ha assorbito molte differenti influenze culturali e sociali, dato che le tradizioni di ognuno dei gruppi si trovano in competizione  con la storia e la vita recenti nel contesto mediorientale.

 Israele è senz’altro una fonte di ispirazione per gli scrittori e i poeti del paese. Nel labirinto di complesse relazioni sociali, vive una nazione in sviluppo costruita su tradizioni antiche.

I cambiamenti sono avvenuti in modo repentino: ne sono testimoni il periodo del pionierismo, la lotta per l’indipendenza, la costruzione del paese, le guerre e le immigrazioni di massa da molte parti del mondo. Ogni nuovo periodo, ogni cambiamento sociale, ha recato con sé nuove sfide, creando una dinamica di costante inquietudine.

E’ ovvio che ciascuno di questi avvenimenti da solo ma a maggior ragione in combinazione con altri, offre materiale per una scrittura creativa.

Tanto la prosa quanto la poesia traggono motivi, immagini e ricchezza espressiva dalla Bibbia, da altre fonti ebraiche come il Talmud e la Cabbalà, così come dalle tradizioni creative del popolo ebraico nella Diaspora e dal linguaggio e cadenze di uso quotidiano.

 Gli scrittori sono oggi i nuovi profeti d’Israele secondo l’accezione autentica del termine: messaggeri, araldi e anche portavoce dell’ebraico della diaspora che costituiva un legame interculturale, un ponte tra il mondo mussulmano e quello cristiano. Questa lingua è tornata oggi a diffondere ampiamente il suo messaggio. La letteratura e l’arte sono strumenti di dialogo e di pace. (Grossman)
Negli ultimi anni stiamo osservando un crescente interesse da parte del pubblico italiano nei confronti della letteratura israeliana.

Un entusiasmo che spinge molti lettori ad accostarsi a scrittori finora poco conosciuti in Italia e, in un panorama letterario così variegato, spicca in particolar modo la presenza di molte voci femminili.

 Si tratta di una letteratura che, nata in un paese di grandi conflitti, narra vicende umane il cui afflato si trasmette da una generazione all’altra giungendo fino a noi.

Attraverso alcuni romanzi importanti è possibile cogliere un nesso, una saldatura fra passato e presente.

Nelle generazioni nate dopo la fondazione dello Stato di Israele questa saldatura fra passato e presente porta ad interrogarsi su quel periodo di silenzio della generazione dei padri e delle madri sopravissuti all’Olocausto.

Da qui emerge un primo elemento molto importante nella letteratura israeliana, quello della MEMORIA, tema trattato da molti scrittori tradotti in Italia come Aharon Appelfeld, Nava Semel, Savyon Liebrecht, Amos Oz, David Grossman.

La letteratura è forse una delle chiavi migliori per capire la realtà complessa e ancora tragica di Israele e di ciò che la circonda.

 Ma, potremmo chiederci, da cosa ha origine la ricchezza della letteratura israeliana?

Certamente è riconducile a vari fattori.

Prima di tutto ha a che fare con una lingua antica: l’EBRAICO, che ha una lunga storia alle sue spalle. Questa lingua che ha continuato ad essere usata dagli ebrei nel corso dei secoli sotto forma di “lingua sacra”nella liturgia, nella filosofia e nella letteratura, riaffiorò alla fine del XIX secolo grazie ad Eliezer Ben-Yehuda come veicolo culturale moderno, divenendo un fattore vitale nel movimento di rinascita nazionale che ebbe il suo culmine nel sionismo politico.

Oggi siamo di fronte ad una lingua ricca vibrante e viva. Pensate che dai circa 8.000 vocaboli noti della lingua del periodo biblico, il lessico dell’ebraico si è ampliato fino a superare i 120.000 lemmi.. Ed è l’Accademia della Lingua ebraica fondata nel 1953 a guidarne la sua evoluzione.

E’ una lingua che si arricchisce, si plasma, si inventa di giorno in giorno. Non c’è autore israeliano giovane o vecchio, religioso o laico, che non abbia coscienza di innovare la lingua e di arricchirla, usandola.

 Affrontando il tema della memoria vorrei introdurvi due scrittori straordinari seppur poco conosciuti in Italia.

Ed è ancora la cifra autobiografica che si delinea in maniera inequivocabile nel libro di AHARON APPELFELD, Storia di una vita  pubblicato dalla casa editrice Giuntina nel quale emergono anche gli orrori della guerra e del campo di concentramento.

Nato nel 1932 in Bucovina all’età di otto anni è rinchiuso con la famiglia prima in un ghetto poi in un campo di concentramento dal quale riesce a fuggire e a rifugiarsi nella foresta dove vivrà fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Nel 1946 grazie a un movimento di emigrazione giovanile, che cercava di recuperare gli orfani e portarli nella Terra promessa, giunge finalmente in Palestina.

Appelfeld sfida il dolore e disseppellisce quei ricordi che aveva celato nelle zone buie e cieche della propria memoria per poter continuare a vivere perché, come lui stesso ha affermato, non si può fuggire dal proprio passato.

L’ultimo romanzo di Appelfeld è uscito recentemente per la casa editrice Guanda e si intitola Badenheim 1939.

Il luogo e la data sono due coordinate ben precise.

La vicenda si sviluppa in una località di villeggiatura dell’Austria nazista all’inizio della guerra. A Badenheim, come ogni anno, arrivano tanti ebrei austriaci in vacanza nella quiete di una cittadina che offre concerti, letture e spettacoli. Ma la gelida macchina nazista è già in movimento e un fantomatico Dipartimento sanitario pretende che gli ebrei si registrino e attendano. A poco a poco la città si trasforma in una prigione da cui è impossibile fuggire.

  Memoria e autobiografia si fondono nel capolavoro letterario di RACHEL BERNHEIM FRIEDMAN intitolato Orecchini in cantina.
L’autrice che oggi vive nel kibbutz Yakum ricostruisce la sua vita con un tocco davvero magistrale. Dall’infanzia serena a Mukacevo, circondata dall’amore dei genitori, ad una adolescenza che la vede impegnata nel movimento sionista Hashomer Hazair, cui si ricongiungerà di ritorno dalla terribile esperienza della deportazione ad Auschwitz, della perdita della madre e della sorellina Adeleh e della marcia della morte, per realizzare infine il suo desiderio di emigrare in Israele.Nella nuova patria, a fianco dell’amato Zeev, Rachel partecipa alla fondazione del kibbutz Yakum, si sposa e diventa madre di tre figli.

Eppure a questa donna così coraggiosa non verrà risparmiato il dolore più lancinante per una madre: la perdita del suo unico figlio maschio morto a 24 anni nella guerra del Kippur.

  Analizzando la letteratura israeliana osserviamo come in essa alberghino elementi opposti fra di loro e una grande varietà di estremi, sia nello spazio che nel tempo.

 Ad esempio fra città e campagna.

 Gli autori israeliani hanno saputo ben presto cogliere la natura cangiante del loro paesaggio, facendo ciascuno delle scelte ben precise.

Senza dubbio il più urbano, il più metropolitano è YAAKOV SHABTAI, autore di vari romanzi fra i quali In fine, Inventario entrambi editi da Feltrinelli, le cui storie sono ambientate prevalentemente nelle città ove appaiono cieli grigi e cupi; qualche volta c’è un’escursione all’esterno ma il cuore pulsante delle sue vicende rimane la città dove si vive e si muore.

 Analogamente YEHOSHUA KENAZ del quale la Casa Editrice Giuntina nella sua collana l’Israeliana ha pubblicato due romanzi: Voci di muto amore e La grande donna dei sogni, fa muovere i suoi personaggi, stupendamente tratteggiati, in un Condominio alla periferia di Tel Aviv oppure all’interno di un ospizio, una sorta di casa di cura per gli anziani, piccoli microcosmi dove le esistenze di uomini e donne si intersecano al ritmo del vivere quotidiano.

 MEIR SHALEV, autore fra l’altro di libri per ragazzi e di romanzi come Per amore di una donna, Il pane di Sara, e il cui ultimo romanzo anch’esso edito da Frassinelli si intitola La casa delle grandi donne, ha privilegiato nelle sue opere la campagna. E’ un Israele rurale quello che si presenta agli occhi del lettore che si immerge in storie di coltivazioni e di contadini con le loro vicende umane e personali. Questo romanzo è costruito sulle storie esilaranti di quattro generazioni di donne straordinarie sullo sfondo di un accecante deserto e le pagine che ritraggono il Negev si animano di oasi segrete, che sono schegge d’arte poetica. Duro è invece il ritratto che fa di Gerusalemme “città di orfani, ciechi e pazzi” e forse proprio per sfuggire a questa città, che lui stesso definisce deprimente e piena di fanatismo, ha comprato una piccola casa nel deserto.

Nel suo ultimo bellissimo libro  Il ragazzo e la colomba edito da Frassinelli

sullo sfondo tormentato della storia di Israele, si narra la storia dell’amore che nasce fra due quattordicenni, separati dalla guerra e uniti dal volo di una colomba. Protagonisti del romanzo sono le case, le migliori amiche degli uomini e le colombe come quella che apre il romanzo volando sopra il frastuono di una battaglia sanguinosa durante la Guerra d’Indipendenza del 1948.

 Un altro contrasto che emerge è fra scrittori laici e religiosi
Lacci d’amore il romanzo dello scrittore HAIM BE’ER
pubblicato da Giuntina, è ambientato a Batei-Ungarin il quartiere ortodosso di Gerusalemme che fa da sfondo al viaggio interiore dell’autore – cresciuto in una famiglia ortodossa – e che lo conduce ad analizzare i complessi rapporti con i genitori.

Oltre a HAIM BE’ER vorrei ricordare JUDITH ROTEM, una scrittrice nata in una famiglia ortodossa di Budapest che si trasferisce in Israele negli anni cinquanta andando a vivere nel quartiere Bnei Brak a Tel Aviv, residenza quasi esclusiva della comunità haredim ultraortodossa

E il suo romanzo pubblicato in Italia da Feltrinelli, Lo strappo, narra proprio la vicenda di una bambina, Fifi, che sradicata dall’amato ambiente della sua infanzia si trova a vivere in un quartiere ebraico ultraortodosso. Fifi si trasforma in una giovane partigiana della libertà di pensiero che ingaggia una lotta estenuante con il padre e il rabbino della comunità per scegliere la sua nuova scuola, una lotta che alla fine la vedrà vincitrice.

 Fra gli scrittori cosiddetti “più laici” vorrei citare ETGAR KERET nato nel 1967 a Tel Aviv  da genitori scampati alla Shoah. Le sue opere hanno uno stile immediato, rapido; i suoi racconti sono brevi, a volte crudeli a volte più umoristici.

Utilizza una lingua simile a quella parlata per raccontare una vita quotidiana che si avvicina maggiormente a quella vissuta dai giovani.

In Italia sono stati pubblicati “Mi manca Kissinger” edito da Teoria e Pizzeria Kamikaze per le edizioni e/o recentemente è apparso

Gaza Blues una raccolta di racconti scritta con il palestinese Samir El-Youssef che esplora la complessa situazione del conflitto arabo-israeliano mostrandoci gli effetti che il clima di violenza produce nella vita quotidiana dei protagonisti delle loro storie

Keret ha creato uno stile, un modo di concepire la letteratura estraneo ad ogni tipo di ideologia e retorica; cattura nella vita più banale e ordinaria una sorta di felicità, con una particolare attenzione alla psicologia dei personaggi.

  Un altro grande contrasto che esiste in Israele è fra askenaziti, gli ebrei giunti dall’Europa nord orientale o comunque dall’Europa occidentale e sefarditi, cioè gli ebrei provenienti dalla Spagna dopo la loro espulsione, ma in realtà con il termine sefarditi si intende anche gli ebrei orientali giunti in Israele dall’Iraq, dall’Iran e dall’Etiopia.

La letteratura rispecchia questa pluralità e a fronte di una storia letteraria nata e cresciuta con i modelli dei grandi narratori russi e francesi, cui si rifanno in gran parte gli autori israeliani, si incomincia ora ad esplorare nuovi orizzonti, i luoghi da cui provengono gli scrittori israeliani.

 Troviamo quindi una letteratura di ambientazione sefardita con SAMI MICHAEL, conosciuto in Italia per il suo romanzo edito dalla Casa editrice Giuntina, Una tromba nello uadi.

Sami Michael è uno fra i più importanti scrittori israeliani, insignito di prestigiosi premi in Israele. Nato a Bagdad nel 1926, la sua partecipazione ad un gruppo clandestino che si oppone al regime iracheno, lo costringe a fuggire in Iran nel 1948; dopo un anno, emigra  in Israele.

Come arriva Sami Michael in Israele? E’ lui stesso a dircelo:  con la lingua del nemico, la cultura del nemico e persino il colore del nemico.

Per questo motivo il suo primo rifugio in Israele è all’interno della comunità araba e sarà proprio il quartiere arabo di Haifa, dove ha vissuto per cinque anni a costituire lo sfondo di Una tromba nello uadi: un romanzo stupendo scritto in prima persona da una donna e costellato di personaggi indimenticabili: Huda la voce narrante, il nonno egiziano Elias, la sorella Mary, bella e trasgressiva, Alex un giovane ebreo giunto in Israele dalla Russia che si innamorerà di Huda.

La difficile convivenza fra arabi ed ebrei costituisce lo sfondo di questo romanzo che è prima di tutto un inno alla pace, un richiamo alla convivenza, oltre che un racconto appassionante e drammatico.

Recentemente la casa editrice Giuntina ha pubblicato un altro stupendo romanzo di Sami Michael: Victoria: un’ affascinante saga familiare ambientata in una Bagdad ebraica dei primi del Novecento che vede emergere la figura indimenticabile di una giovane donna, Victoria, generosa e sensibile, sottomessa ai soprusi e alle umiliazioni degli uomini, dimostrerà infine un indomito coraggio nell’affrontare le avversità della vita.

 Una giovane scrittrice di origine persiana che ha pubblicato due romanzi: Spose persiane edito da Neri Pozza e Le figlie del pescatore edito da Piemme, DORIT RABINYAN, merita un’attenzione particolare.

Nei suoi romanzi che raccontano saghe e memorie familiari, la dimensione folkloristica si affina in una narrativa più profonda e di ricerca.

La sua è una scrittura immaginifica, densa di metafore e le sue storie al femminile raccontano di violenze, di sopraffazioni. Grazie alla sua straordinaria capacità narrativa riusciamo a sentire la fragranza e il profumo delle donne che si ungono, si massaggiano la pelle e gli odori che provengono dalla cucina.

I villaggi di fango, l’altopiano che si accende di suoni e colori, i grandi deserti sono la geografia esotica che costella i suoi romanzi.

 Il panorama letterario israeliano si è andato arricchendo in questi ultimi anni di voci femminili di notevole importanza per la varietà dei registri linguistici, per l’attenzione alla realtà femminile e per la straordinaria capacità di affrontare temi complessi come la Shoah, il conflitto israelo-palestinese e il terrorismo.

 Quello della Shoah è uno dei temi più ricorrenti nell’opera di SAVYON LIEBRECHT che in Italia ha pubblicato per le edizioni e/o Mele dal deserto, una raccolta di racconti, il romanzo Prove d’amore, dove la protagonista è una donna anziana ricoverata in ospedale, la quale nonostante abbia perso la memoria a causa dell’Alzeimer, comincia a ricordare l’Olocausto.

Giunta al termine della sua vita l’orrore di quei giorni dei quali non ha mai voluto parlare, emerge in maniera più forte della rimozione che ha esercitato su sé stessa.

Ed è ancora il tema della Shoah che ritroviamo nell’ultimo libro della Liebrecht, Un buon posto per la notte (edizioni e/o) una raccolta di racconti ognuno dei quali prende il nome da un luogo: America, Gerusalemme, Monaco. Oltre alla Shoah è anche la realtà politica israeliana al tempo della seconda Intifada a fare capolino in quest’ultimo libro.

Sono racconti che narrano di uno spaesamento. In questa scrittrice appare spesso un’ombra di ignoto che può essere data sia dal vuoto lasciato dalla Shoah, sia da una quotidianità israeliana che fa emergere la solitudine delle protagoniste.

 Va osservato che, se per lungo tempo la letteratura israeliana ha raccontato la nascita dello Stato ebraico, ha vibrato di sionismo, ci ha fatto intravedere l’ombra dello sterminio, ha dipinto esistenze eroiche quotidiane, individui in bilico fra memoria, esilio, nuova identità, è solo recentemente che la tragedia del terrorismo si è affacciata nella vita e nell’opera degli scrittori israeliani.

 In alcuni romanzi, ad esempio Il Responsabile delle risorse umane di Yehoshua oppure Parti umane di ORLY CASTEL-BLOOM il riferimento agli attentati suicidi si presenta più come un’eco, un rimbombo funesto ma lontano.

In questo romanzo di Orly Castel Bloom, nata a Tel Aviv nel 1960 e considerata una delle personalità più significative e innovatrici della scena letteraria contemporanea israeliana, viene descritta la vita israeliana in un imprecisato anno 2000 dove all’aumento vertiginoso degli attentati terroristici e allo stallo della diplomazia nei colloqui israelo-palestinesi, si aggiunge una strana perturbazione atmosferica e una forma influenzale, chiamata “saudita”, che porta alla morte.

La società israeliana vi appare priva di solidarietà sociale e di valori, completamente disillusa. Per Castel-Bloom, come del resto per altri scrittori della sua generazione, il sionismo è finito e il futuro è portatore solo di catastrofe.

  Se per alcuni scrittori il terrorismo costituisce lo sfondo dei loro romanzi SHIFRA HORN  non si accontenta delle morti anonime e nebbiose, degli echi lontani, quasi indistinti di un risuonare lugubre.

Questa straordinaria scrittrice nata a Tel Aviv da una madre sefardita e da un padre russo sopravissuto alla Shoah è nota in Italia per romanzi appartenenti al realismo magico (Quattro madri, La più bella tra le donne entrambi pubblicati da Fazi).

Il mondo matriarcale è una tematica ricorrente in entrambi i romanzi, e da esso emergono personaggi e volti femminili di straordinaria intensità.

 Tuttavia è con il suo ultimo romanzo Inno alla gioia edito da Fazi che la scrittrice ci fa entrare prepotentemente nella tragedia della realtà israeliana.

Shifra ha scelto di scrivere Inno alla gioia dopo che uno shahid ha fatto saltare un autobus nel quartiere gerusalemitano, Gilo, un attentato in cui sono morte persone che conosceva.

Yael, la protagonista del romanzo, guida la sua vettura e gioca a fare cucù con un bimbo che la guarda dal fondo dell’autobus. All’improvviso un frastuono squarcia il cielo e la terra: Yael sopravvive miracolosamente ma attorno vede solo morte, strazio e distruzione.

Il trauma è così grave che si prende ogni centimetro disponibile del suo cervello e sarà solo grazie alla generosità di un’amica psicologa che Yael lentamente, dolorosamente ritornerà a vivere.

L’importante, questo è il messaggio di Shifra Horn, è non farsi intimorire, continuare ad andare al supermercato, al cinema e non rinunciare nonostante tutto alla propria libertà.

Alla domanda “E’ ottimista per Israele?” la sua risposta ricorda le parole di Grossman: “Devo essere ottimista, altrimenti non potrei vivere qui”.

Molto diverso è il suo ultimo libro, una prova narrativa davvero insolita. Gatti Una storia d’amore è una raccolta di spassosissimi racconti nei quali Shifra Horn con uno stile brillante e una prosa che regala esplosioni di comicità esilarante ci racconta del suo amore per i gatti, ricambiato dai suoi amici felini con mugolii di piacere e strusciamenti affettuosi.. Zizi, Sherora, Sheeshee sono i veri protagonisti del libro che con le loro imprevedibili avventure ci regalano momenti di puro divertimento.

 SHULAMIT HAREVEN della quale la casa Editrice Giuntina ha recentemente pubblicato Una città dai molti giorni è stata fra i fondatori del movimento Peace Now e ha fatto parte della Haganà.

Arrivata in Israele nel 1940 dalla Polonia dove era nata nel 1931, si è sempre battuta per favorire il dialogo e per avvicinare arabi ed ebrei.

Qualità dominante della sua prosa è il realismo cui fa ricorso per narrare le situazioni estreme dell’individuo emarginato e vulnerabile con particolare attenzione alla realtà femminile.

Una città dai molti giorni  non è solo un canto di amore, di dolore e di nostalgia per Gerusalemme che da città dell’impero ottomano si va trasformando in città israeliana ma è anche un romanzo avvincente e capace di suscitare riflessioni sia sulla storia di quegli anni, sia sulla storia attuale.

 Dalla Bibbia, che suo padre le leggeva prima di addormentarsi, ZERUYA SHALEV, trae un’importante fonte di ispirazione perché, come lei stessa afferma, “la Bibbia e il Talmud contengono storie dalle quali è possibile attingere molto più che dalla realtà esterna”.

La sua attenzione è rivolta principalmente all’animo umano e ciò che più la interessa sono i rapporti che intercorrono fra uomo e donna, fra bambini e genitori.

In Italia di Zeruya Shalev sono apparsi due romanzi editi da Frassinelli Una relazione intima e Una storia coniugale e l’ultimo pubblicato alcuni mesi fa Dopo l’abbandono, un romanzo di raffinata sensibilità psicologica che esplora gli aspetti più reconditi del matrimonio, della sessualità e del rapporto genitori/figli. e vede per protagonisti un uomo Oded psichiatra e una donna Ella, che dopo la separazione dai rispettivi coniugi tentano con fatica di riformare una famiglia: le asperità dei loro caratteri, il complicato rapporto con i figli metteranno a dura prova i loro sentimenti e la loro determinazione.

 Vorrei ora dedicare due parole a BATYA GUR, scomparsa nel maggio del 2005. Ha insegnato letteratura, è stata giornalista e si è occupata di critica letteraria nel quotidiano Ha’aretz.

Batya Gur ha scritto gialli nel senso classico e tradizionale del termine; i suoi romanzi sono veri e propri misteries ma nel contempo anche gialli psicologici.

Sono studi d’ambiente con una ricerca e un’attenzione particolare rivolta ai personaggi.

E così vediamo nel romanzo Omicidio nel kibbutz edito in Italia da Piemme, emergere la figura di Michael Ohayon, l’ispettore di polizia al quale viene affidata l’indagine e che si rivelerà capace di leggere nel cuore delle persone e di scavare a fondo nella vita del kibbutz, facendo emergere alla fine aspetti inquietanti e molti inimmaginabili segreti.

E nell’ultimo racconto poliziesco ambientato nella città santa, Un delitto letterario, il commissario Ohayon ha l’incarico di scoprire gli intrighi che si nascondono dietro la morte di due membri del dipartimento di Letteratura dell’Università di Gerusalemme: Shaul Tirosh, il carismatico poeta che ne è anche il direttore, e Iddo Dudai, un promettente dottorando. Il commissario, appassionato di poesia, si addentra fra le tensioni che lacerano il dipartimento, così che l’indagine poliziesca e quella letteraria finiscono per confluire nella sconvolgente verità dei delitti.

 ALONA KIMHI nasce in Ucraina nel 1966 e si trasferisce in Israele con la sua famiglia nel 1972.

Conosciuta in Italia per il divertente e insolito romanzo Susanna in un mare di lacrime (edito da Rizzoli), ha recentemente pubblicato per la casa editrice Guanda Lily la tigre.

Nel romanzo l’irresistibile protagonista è Lily una donna che pesa più di cento chili e che vive a Tel Aviv dove conduce un’esistenza simile a quella

di una giovane soprappeso in qualsiasi città del mondo, fra fantasie di una vita diversa e frustrazioni quotidiane.

Costellato di personaggi indimenticabili, come le sue amiche magre Ninush e Mikhaela o l’ex amante giapponese, Lily la tigre è un originalissimo romanzo di emancipazione e di solidarietà femminile ambientato nella inquieta e turbolenta realtà sociale dell’Israele odierno.

 Un’altra voce intensa e suggestiva del panorama letterario israeliano è quella di AVIRAMA GOLAN, nata nel 1950 a Givataim scrive per il quotidiano Ha’aretz ed è autrice di numerosi libri per bambini.

I corvi, il suo primo romanzo tradotto in italiano,

La storia di Genia, che come molti immigrati non riesce ad ambientarsi nella nuova società, percorre il romanzo e si intreccia a quella di Didi, una giovane donna in carriera nata in un kibbutz dal quale ben presto fugge per costruirsi una vita indipendente. I corvi è anche uno spaccato della moderna società israeliana dove la difficoltà del vivere quotidiano, la complessità dei rapporti familiari e personali si intrecciano ai momenti più dolorosi della storia di Israele. Ne scaturisce l’affresco di una società piena di contraddizioni ma pervasa da un’inesauribile voglia di vivere.

  L‘ultimo libro che la Casa editrice Giuntina ha dato alle stampe nella collana l’ Israeliana è Perché non sei venuta prima della guerra? della scrittrice LIZZIE DORON.

Nata a Tel Aviv nel 1953, dopo aver vissuto in un kibbutz sulle alture del Goman è tornata a vivere a Tel Aviv, sua città natale. I suoi libri hanno riscosso un notevole successo di critica e pubblico e hanno vinto vari premi fra i quali il premio Bucham di Yad Vashem nel 2003.

Perché non sei venuta prima della guerra? è un libro assolutamente nuovo sulla Shoah, una tragedia della quale non si parla mai apertamente ma che affiora oscura e devastante attraverso le ferite e i fantasmi che ossessionano Helena.. Una bellissima figura di donna, determinata e indomita che riesce a trasformare l’esperienza del dolore in una visione del mondo libera da ogni condizionamento.

 A maggio uscirà nella collana l’israeliana della casa editrice Giuntina il primo libro tradotto in italiano della scrittrice SARA SHILO con il titolo La pazienza della pietra, un romanzo per il quale ha ricevuto il Sapir Prize della letteratura e il premio Sharett.

Nata a Gerusalemme ha vissuto per molti anni presso la città di Ma’alot per poi trasferirsi con la famiglia a Kfar Vradim.

La pazienza della pietra racconta la vita della famiglia Dadon, che vive in una cittadina nel nord d’Israele. Gli abitanti della città vivono sotto la costante minaccia degli attacchi con i missili Katyusha. I membri della famiglia, la madre in particolare, Simona Dadon, trovano difficile confrontarsi con la morte del padre, che era il locale “Re del Falafel” . La storia è narrata da quattro protagonisti. Il loro ebraico è spesso volutamente scorretto e zoppicante, per meglio rispecchiare la vita di una cittadina sperduta e arretrata sia socialmente che economicamente, l’altro aspetto della società israeliana

Il libro che ha avuto un enorme successo alla sua pubblicazione è stato definito dal critico letterario Dror Burstein, anch’egli candidato al Sapir Prize, “un capolavoro della letteratura israeliana”.

 Con il suo primo libro ha venduto 100.000 copie in Israele e ha scalato le classifiche dei libri più venduti in Italia. RINA FRANK, nata nel 1951 a Wadi Salib un quartiere di Haifa, è diventata un caso letterario con “Ogni casa ha bisogno di un balcone” un libro in bilico fra romanzo di formazione, saga familiare e affresco storico narra le vicende di una famiglia di ebrei romeni trasferitisi a Haifa negli anni 50 in un monolocale, vicende filtrate dagli occhi infantili e ingenui della protagonista. La scrittura è immediata, l’umorismo e la sottile ironia una nota costante che pervade il romanzo anche nei momenti più dolorosi del racconto, ne risulta un romanzo di forte impatto emotivo che non vedi l’ora di finire per poterlo raccontare, consigliare a qualche amico che sappia commuoversi e divertirsi.

 Il suo ultimo romanzo Ti seguirò ad occhi chiusi non possiede il ritmo serrato del precedente ma offre uno spaccato doloroso della vita dell’autrice: lo strazio che il tempo non ha attenuato per la perdita dell’amata sorella Sefi, la malattia della figlia Noa, e la scoperta sconvolgente di avere un tumore fra il cuore e il polmone con l’unica possibilità di sopravvivenza rappresentata da un intervento invasivo e ad altissimo rischio. Ma a Rina il coraggio non manca per affrontare l’ennesima sfida che sa di non poter perdere.

 In un unico volume edito da Stampa Alternativa intitolato Israeliane sono raccolte tredici diverse prospettive ben piantate su quella base comune che è la femminilità. Da Orly Castel-Bloom a Mira Magen, da Savyon Liebretch ad Alona Kimchi, passando per Gafi Amir, Edna Masya, Nava Semel e molte altre queste autrici offrono un catalogo femminile vario ma conforme a quella società di cui è, involontariamente, un fedele ritratto: in questi racconti ci sono donne infagottate nei anni religiosi e altre post-moderne; ci sono ragazzine ingenue e nonne piene di storie da raccontare, mamme svogliate e altre ossessionate. Questo catalogo è non solo il ritratto di una varietà di umori e presenze ma è anche lo specchio di una scrittura femminile che in Israele è stata negli ultimi anni più vivace che mai.

Infine, un altro autore straordinario è ESHKOL NEVO.

Nasce a Gerusalemme nel 1971. Completa gli studi a Tel Aviv e si dedica alla carriera di pubblicitario, abbandonata in seguito per dedicarsi alla scrittura. Attualmente insegna scrittura creativa.

E’ conosciuto in Italia per il romanzo Nostalgia edito dalla casa editrice Mondatori.

Questo intenso e delicato romanzo si dipana sullo sfondo di un villaggio, Castel, un ex enclave araba, abbandonata nel 1948 e da allora diventata dimora di una comunità ebraica proveniente dal Kurdistan.

In questo villaggio si muovono i protagonisti, Amir e Noa, la famiglia Zakian tratteggiati con grande maestria, il palestinese Saddiq che tenterà di entrare nella casa di Amir e Noa dove aveva vissuto nell’infanzia.

Ma una terribile tragedia collettiva è in agguato: l’assassinio di Rabin e, di lì a poco, l’ennesimo terribile attentato che scuoterà ancora una volta Gerusalemme.

  Un altro libro che vorrei invitarvi a leggere, uscito pochi mesi fa, è Tredici soldati dell’israeliano RON LESHEM edito da Rizzoli.

Nato a Ramat Gan nel 1976, inviato del quotidiano Yediot Acharonot, e ora dirigente in un importante canale televisivo non è mai stato militare sul campo ma molto attento ai racconti di chi c’è stato.

Giunge nella Striscia per documentare la morte di David Biri, un infermiere combattente della Brigata Ghivati, colpito da un ordigno esplosivo. Incontra Rotem Yair, un giovane ufficiale che gli parla della Terra dei Cedri e di quanto è accaduto a Beaufort, una fortezza crociata sulle alture del Libano meridionale conquistata da Tsahal nel 1982 ed abbandonata nel 2000. Da quell’incontro nasce il romanzo “Tredici soldati E’ un libro importante perché affronta di petto e con infinita passione la materia più scottante della realtà d’Israele, la guerra.

E il regista Joseph Cedar ne ha tratto il film Beaufort che ha vinto l’Orso d’argento al festival di Berlino del 2007. Purtroppo in Italia non è stato acquistato da nessun distributore ed anche il libro è rimasto un po’ in disparte come se toccasse dei tasti troppo sensibili dell’esplosiva realtà israeliana per i palati spesso prevenuti di molti italiani.

Ed è a Beaufort, la fortezza crociata avamposto degli israeliani in Libano, che si svolge il romanzo, proprio nelle settimane che precedono il ritiro del 2000.

E’ la storia di un gruppo di ventenni che vogliono combattere per difendere Israele, ma a Beaufort si trovano in trincea a fronteggiare i colpi di mortaio sparati da un nemico feroce quanto invisibile. E nei confronti di quei giovani Leshem non nasconde la propria ammirazione: il rimpianto di non aver combattuto non è per la mancanza di emozioni forti ma per quell’amicizia salda e forte che nasce quando “la tua vita dipende dall’altro”. Cosa è Beaufort? Ce lo racconta Liraz Liberti, Erez, un ufficiale che ha subito richiami disciplinari, una testa calda, responsabile di tredici soldati che hanno il compito di ispezionare le vie d’accesso all’avamposto alla ricerca di mine. I personaggi che ruotano attorno a Erez sono tipi duri, dolci, nostalgici, religiosi o laici ma tutti consapevoli di compiere una missione: la difesa del proprio paese. Momenti durissimi che tolgono il respiro sono quelli che raccontano la perdita dei compagni colpiti da quel nemico invisibile Hezbollah che ama la morte ancor più della vita. Scritto con un linguaggio crudo e duro che non lascia spazio a metafore, il romanzo infarcito di slang militari e di espressioni spontanee, grazie ad uno stile immediato consente di cogliere le minime sfumature dell’ambiente militare e dell’atmosfera che pervade i giovani soldati in procinto di abbandonare l’ultimo avamposto in Libano. Con questo romanzo Leshem ha saputo raccontare la forza, il coraggio, l’angoscia e i dubbi di una generazione che pur seppellendo i suoi amici è riuscita a conservare intatto l’amore per il suo Paese e la volontà di continuare a proteggerlo. Vorrei ora citare alcuni autori che, benché famosi in Israele, solo recentemente sono stati tradotti in Italia.

E il merito di averli fatti conoscere al pubblico italiano spetta alla Casa Editrice Giuntina che alcuni anni fa ha dato vita ad una nuova collana l’Israeliana, diretta da Shulim Vogelman, lui stesso bravissimo scrittore, oltre che traduttore dall’ebraico.

Vi si trovano romanzi estremamente interessanti sia sotto il profilo letterario sia per la varietà delle tematiche affrontate.

  E così RON BARKAI professore di storia medioevale all’Università di Tel Aviv e uno dei massimi esperti nelle relazioni fra ebrei, musulmani e cristiani ci regala nel suo romanzo Come in un film egiziano un personaggio indimenticabile, Josef Alfandari, esaltato sionista e amante della musica araba, nemico feroce di arabi e comunisti.

 Mentre DAN BENAYA SERI con il romanzo I biscotti salati di nonna Sultana ci conduce, utilizzando uno stile poetico e immaginifico, nelle atmosfere popolari del quartiere bucariota di Gerusalemme attraverso gli occhi malati ma ancora vigili di nonna Sultana. E’ un quadro di grande suggestione quello che dipinge Dan Benaya Seri in questo romanzo per il quale ha ricevuto in Israele il premio Newman.

 La conoscenza della musica è insita nell’animo di NATHAN SHAHAM nato a Tel Aviv nel 1925 e membro del kibbutz Bet Alfa dove suona la viola nel quartetto d’archi.

Vincitore del prestigioso premio Bialik, in Italia è conosciuto per Il quartetto Rosendorf: ambientato a Tel Aviv nel 1930, il romanzo narrato a cinque voci, procede in un intreccio di emozioni e riflessioni attraverso la storia di Israele e dell’Europa e vuol anche essere un tributo all’innegabile potere terapeutico della musica.

 Sfondo del romanzo di RUVIK ROSENTHAL, opinionista del quotidiano Maariv, esperto di linguaggio e di media e vincitore nel 2004 del prestigioso premio giornalistico Sokolov, è ancora una volta la Seconda Guerra Mondiale. Il protagonista del romanzo Blumenstrasse 22, Erich Freyer, abbandona Berlino dopo che i nazisti gli hanno devastato la Casa Editrice e arriva in Israele lasciando la moglie cristiana e la figlia in Germania. Nel romanzo emerge non solo la storia difficile di vite distrutte dagli eventi, ma anche la profonda delusione provata dagli israeliani di sinistra dinanzi al rifiuto che i governi comunisti hanno opposto all’esperienza sionista.

  Il mio primo Sony è l’unico libro di BENNY BARBASH finora tradotto in Italia. Barbash è considerato un autore della nuova generazione, ma questo suo romanzo potrebbe essere posto accanto al più famoso “Inventario” di Ya’acob Shabtay . Eppure Il mio primo Sony è il contrario dell’epopea distruttiva di Tel Aviv narrata in Inventario, dove il passato segnato da dolori e perdite si scioglie in un presente svuotato di ogni senso e valore. In questo libro il punto di osservazione è quello di un ragazzino, Yotam e il suo è un personaggio decisamente positivo. Egli è ossessionato dal bisogno di registrare le conversazioni e i rumori della vita intorno a lui. E attraverso lui e il suo registratore parlano tutti gli altri, ciascuno con la propria voce: la madre di origine argentina, impegnata nel movimento di sinistra Shalom akhshav, il padre scrittore di teatro, il nonno entusiasta di Jabotinsky e delle sue idee politiche, una nonna che è riuscita ad uscire da Auschwitz ma che non si è mai lasciata sfuggire alcun ricordo.

E’ difficile offrire una trama esatta del libro dove tutto è raccontato per associazioni e passaggi avanti e indietro nel tempo. Barbash riesce tuttavia costruire un romanzo fluido e armonico dove emerge il ritratto di una famiglia israeliana sospesa tra shoah e impegno politico, narrato con sentimento e umorismo.

 La letteratura israeliana tradotta in Italia non esclude comunque il mondo dell’ INFANZIA. I bambini italiani hanno a disposizione molti libri di autori israeliani. Alcuni di questi scrittori sono molto conosciuti anche nel mondo degli adulti come Amos Oz, David Grossman e Meir Shalev, altri come URI ORLEV si dedicano prevalentemente alla letteratura per l’infanzia e per i ragazzi.

Ed è su quest’ultimo autore che vorrei soffermarmi brevemente.

Uri Orlev è nato a Varsavia nel 1931.  Assieme al fratello minore è stato nel ghetto di Varsavia durante l’occupazione nazista, dove ha perso la madre, poi nel ghetto di Bergen Belsen ed infine è giunto nella Palestina del Mandato Britannico.

Come è possibile ra

ai bambini quanto è accaduto agli ebrei in Europa durante la 2^ Guerra Mondiale?

Uri Orlev ci riesce dando vita a storie che trasmettono amore per la vita e rispetto per lo straordinario mondo interiore che i bambini riescono a costruirsi e che li aiuta a sopportare il peso della realtà.

I libri di Orlev come L’aggiustaossi (Feltrinelli), Gioco di sabbia (Salani), L’isola in via degli uccelli (Salani) non sono tristi o dolorosi.

Al contrario le sue storie infondono ottimismo, mostrano che anche quando tutto pare crollare esiste una fiducia che si trasforma in forza e che permette di superare tutte le difficoltà.

  Un’altra giovane scrittrice israeliana che scrive anche libri per ragazzi è NAVA SEMEL, autrice di Lezioni di volo (Mondatori) e L’esclusa (Mondatori).

Ne Il cappello di vetro pubblicato dalla Casa editrice Guida di Napoli ritornano le tematiche che nei libri per ragazzi appaiono sullo sfondo: la difficoltà dei sopravissuti allo sterminio nazista di inserirsi in una società che vuole che si continui a vivere, anche a costo di rimuovere il passato e i problemi della seconda generazione dei figli della Shoah.

Si tratta quindi di racconti che hanno una certa analogia con quelli di Savyon Liebrecht contenuti nella raccolta Mele dal deserto.

In una frase di Nava Semel è racchiusa l’importanza della trasmissione della memoria:

“ Lo scrittore è come un pescatore, seduto sulle rive di un lago oscuro, ma invece di pesci pesca ricordi; questo è il suo compito e la sua responsabilità, riscattare dall’oblio le memorie che altrimenti andrebbero perdute e trasmetterle alla generazione successiva. Già troppo è andato perduto, uomini, cose, non possiamo permetterci di perdere anche il loro ricordo, se non lo trasmettiamo la loro voce non sarà più udita”

 

 

 


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