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Informazione Corretta Rassegna Stampa
07.05.2008 Tesi a confronto
sui 60 anni di Israele e sulla Fiera del libro di Torino

Testata: Informazione Corretta
Data: 07 maggio 2008
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Tesi a confronto»

Dal sito carmillaonline.com  un articolo di propaganda antisraeliana e antisionista di Valerio Evangelisti, dal titolo "Il Salone di Torino contestato".
Tra le altre falsità vi si sostiene che
gli scrittori Israeliani invitati a Parigi si sarebbero dovuti impegnare con il loro governo a non criticare Israele.
Affermazione non provata e smentita dagli interessati.

Ecco il testo:

Il 10 maggio ci sarà, a Torino, una manifestazione nazionale contro il Salone del Libro di Torino. Credo che sia la prima volta che viene indetto un corteo contro una fiera letteraria. Eppure, prima di chiedersi se ciò abbia un senso, ci si dovrebbe domandare quanto di effettivamente letterario ci sia nel Salone del Libro, e quanto invece vi sia di politico. La scelta della Salone del Libro di Torino di celebrare la nascita dello Stato di Israele, alla base della protesta, ha origini sospette e contenuti ambigui.

Non è normale che a proporre (imporre?) l’evento alla Fiera del Libro di Torino e al Salone del Libro di Parigi sia stato lo stesso governo israeliano. Di solito, eventi del genere sono proposti dal Ministero della Cultura di un paese, dall’associazione degli editori o da organi simili. Non è normale che gli autori invitati, per partecipare al Salone di Parigi, abbiano dovuto sottoscrivere una dichiarazione con la quale si impegnavano a non criticare il loro governo (vedi qui). Non è normale fingere di ignorare che la data del 1948 celebra sia la nascita di Israele che la cacciata di centinaia di migliaia di palestinesi, con il terrore, dai luoghi in cui vivevano da secoli. Ciò è stato ampiamente documentato, tra gli altri, dallo storico Benny Morris (per inciso, israeliano e nazionalista) nel suo libro The Birth of the Palestinian Refugee Problem, Cambridge University Press, 2004, sulla base di una massa di documenti (si veda anche E.L. Rogan, A. Shlahim ed., The War for Palestine. Rewriting the History of 1948, Cambridge University Press, 2001). Celebrare un evento significa celebrare anche l’altro, concomitante. Non è normale che la celebrazione della nascita di uno Stato - cosa abbastanza incongrua in una manifestazione letteraria - avvenga proprio mentre quello Stato, reduce dai bombardamenti sul Libano che nessuno ha dimenticato, attua su Gaza la più feroce delle sue azioni di strangolamento, tagliando l’elettricità, i rifornimenti alimentari, i medicinali e impedendo persino il transito delle ambulanze (già 130 palestinesi di ogni età, ammalati gravi, sono morti per questo). Si dirà che a Gaza predomina Hamas. E’ vero, ma proprio Israele ha incoraggiato la crescita di Hamas, quando le serviva per logorare le altre forze palestinesi. Si veda J. Dray, D. Sieffert, La guerre israélienne de l’information. Désinformation et fausses symétries dans le conflit israélo-palestinien, La Découverte, Paris, 2002, pp. 53 ss. La stessa azione ha svolto l’assieme dell’Occidente. Lo ha documentato, tra molti altri, Alain Gresh, in una serie di articoli su Le Monde Diplomatique - per esempio questo. Gresh, sia detto per inciso, è di origine ebraica. Non è normale, anche se rientra nel novero della mera goffaggine, tirare uno schiaffo all’Egitto, ritirando all’ultimo momento l’invito che gli era stato rivolto, sia pure informalmente.

La storia dei governi di Israele successiva al 1948 non è tanto più gloriosa, malgrado l’epica che le è stata costruita sopra. Da ragazzino fui ingannato anch’io, e credetti che la "guerra dei sei giorni" fosse stata combattuta dal Davide Israele contro un Golia rappresentato dai paesi arabi aggressori. Persino questa realtà un tempo certa appare dubbia, dopo il libro di Benny Morris Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001. Ed. Rizzoli, 2001. Ciò che seguì è noto e non sto a riassumerlo. Una serie ininterrotta di espansioni territoriali giustificate con l’invocazione di un perenne “diritto all’autodifesa”. Mi preme solo sottolineare, perché poco nota, l’azione internazionale svolta dallo Stato di Israele in quadranti del mondo estranei ai conflitti in cui era coinvolto. Israele ha sempre sostenuto i Duvalier di Haiti, padre e figlio. Ha inviato armi e consulenti in Guatemala, in Honduras e tra i contras che attaccavano il Nicaragua sandinista. Ha tuttora forze consistenti impiegate nella sanguinosa antiguerriglia del presidente colombiano Uribe. Per non parlare del costante sostegno israeliano al Sudafrica pre-Mandela e ad altri regimi reazionari africani. Del resto il regime interno israeliano, malgrado le apparenti forme democratiche, somiglia tantissimo all’apartheid del vecchio Sudafrica. Nessun arabo palestinese inglobato fin dal 1948, pur avendo cittadinanza israeliana da decenni, è ammesso nell’esercito, per dirne una. Il resto lo lascio alla testimonianza di un israeliano coraggioso, Yoram Binur, che si finse palestinese e in un libro, Il mio nemico, ed. Leonardo, 1981, narrò la sua esperienza terrificante. Binur non è affatto un filo-palestinese, tutt’altro. Si limitò a raccontare la verità. Una verità che non ha fatto che peggiorare. E’ sotto gli occhi di tutti lo scandalo degli insediamenti di coloni ebraici in Gaza e Cisgiordania. Quanto più Israele si impegnava ufficialmente ad abbatterne, tanto più se ne costruivano. Ciò in nome del sempiterno richiamo al "diritto di Israele alla sopravvivenza", alibi per commettere crimini d’ogni tipo chiamati “autodifesa”. E’ vero che frazioni di palestinesi, nella loro storia, si sono macchiate e si macchiano di eccessi sanguinosi, però non è superflua la domanda: chi ha cominciato? La Seconda Intifada iniziò con ragazzini che tiravano sassi. Solo dopo che quasi cento palestinesi erano morti, inclusi molti bambini, cadde il primo israeliano. Analogamente, il "terrorismo palestinese" su larga scala nacque verso il 1968, venti anni dopo il terrorismo israeliano sui palestinesi e lo svuotamento della Palestina dalla sua popolazione originaria. Attualmente, oltre a strangolare Gaza e Cisgiordania, il governo di Israele ha cominciato a infierire anche sui palestinesi che hanno la sua cittadinanza. Creato il nemico, spintolo all’integralismo islamico, riaffiorano i propositi di cancellarlo per sempre, proprio come etnia. Persino alcuni ministri israeliani ne parlano senza riserve. E questo lo Stato cui il Salone del Libro di Torino intende rendere onore, celebrandone la nascita: una specie di apologia del colonialismo moderno.

E ora veniamo al tema degli scrittori. La protesta contro il Salone del Libro di Torino equivale a una condanna al rogo di autori e opere? Già una selezione di scrittori imposta dal governo Olmert, dalle sue ambasciate e dai suoi uffici di propaganda, dietro sottoscrizione (almeno a Parigi) di un impegno a non criticare le proprie autorità nazionali, risulta sospetta. Si obietterà che gli scrittori israeliani popolari in Europa sono notoriamente “dissidenti”. Grande abbaglio. I nomi più illustri circondati da tale fama, Grossman, Oz, Yehoshua, si sono pronunciati a favore dei bombardamenti sul Libano (Grossman con tardivi ripensamenti) e, nel caso di Yehoshua, a favore del "muro della vergogna". Quest’ultimo ha anzi dichiarato a un quotidiano italiano che non vorrebbe mai avere un arabo per vicino di casa. La loro indipendenza dal potere è una leggenda che circola solo dalle nostre parti. Non è un caso se altri importanti scrittori israeliani, come Benny Ziffer, responsabile del supplemento culturale del quotidiano Haaretz, non solo hanno denunciato l’atteggiamento di Grossman e compari, ma, per primi, hanno incitato a boicottare i Saloni di Parigi e Torino (vedi qui). Lo scrittore Jamil Hilal, di cui Ernesto Ferrero aveva preannunciato la presenza a Torino, ha replicato molto seccamente: “Non parteciperei in alcun modo a un evento che legittima l’occupazione coloniale di Israele e lo strangolamento dei palestinesi della Striscia di Gaza, e in un’occasione che segna la sottrazione della terra e la pulizia etnica del popolo palestinese.”

La cultura ebraica in tutto ciò non c’entra nulla. L’ebraismo non è una razza, bensì una religione con la serie di tradizioni che l’accompagnano. Se vogliamo “un popolo”, però alla luce di quelle tradizioni, non di connotazioni etniche. Gli ebrei, nel mondo, hanno posizioni molto diverse. Tanti israeliani spesso non hanno religione alcuna, e sono classificati come tali per via delle credenze dei genitori. Tel Aviv è una delle città più laiche al mondo. Qui non si parla di ebraismo, bensì di geopolitica. Certo, contro chi critichi la politica del governo israeliano scatta regolarmente l’accusa di antisemitismo. Accusa che ha smontato con molta efficacia l’ebreo americano Norman G. Finkelstein in uno studio molto accurato: Beyond Chutzpah. On the Misuse of Anti-Semitism and the Abuse of History, University of California Press, 2005. Al di là delle singole personalità partecipanti, la protesta che investe il Salone del Libro di Torino non è contro autori e opere, né tantomeno contro "gli ebrei", ma contro un’operazione propagandistica concordata tra governi.

Aggiungo alcuni elementi. Di recente, lo storico e scrittore israeliano Ilan Pappé (di lui si veda, tra l’altro, A History of Modern Palestine, Cambridge University Press, 2004) è stato costretto, per le minacce che riceveva in Israele, a lasciare la cattedra che occupava presso l’università di Haifa e a trasferirsi in Inghilterra. Propugnava la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Potremmo dirlo fortunato. Se non altro si è salvato la vita. I vari governi israeliani hanno assassinato moltissimi scrittori, poeti, intellettuali palestinesi, da Ghassan Kanafani, a Wael Zwaiter, traduttore in italiano de Le mille e una notte (Alberto Moravia, che gli era amico, dedicò alla sua scomparsa uno dei suoi articoli migliori), a Naïm Khader, che era solo un uomo di pace. Più decine di altri, uniti dal torto di dare alla causa palestinese un’intelligenza. Domanda: è giusto glorificare in un Salone del Libro uno Stato (non una "cultura", ma una successione di governi ispirati alle stesse linee) che esilia scrittori propri ed elimina, tramite sicari, scrittori appartenenti a una diversa etnia che si intende cancellare? Io lo trovo disgustoso.

PS. Tutti gli autori citati nel mio pezzo, nessuno escluso, sono israeliani oppure ebrei, a volte di nascita e a volte di religione.

Da AVVENIRE DEI LAVORATORI, un articolo di Vera Pegna, intitolato "Sionismo o pace: la scelta è vostra"

«Col vostro appassionato contributo possiamo combattere con successo ogni indizio di razzismo, di violenza e di sopraffazione contro i diversi, e innanzitutto ogni rigurgito di antisemitismo. Anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele». Queste parole pronunciate dal presidente della Repubblica il 25 gennaio 2007 in occasione della celebrazione del “Giorno della memoria” fanno venire in mente chi come Martin Buber, Albert Einstein, o Judah Magnes, criticò invece con forza il progetto sionista e chi se ne dissociò e lo combattè tenacemente come Moshe Menuhin (padre del grande violinista).

In Italia “Il Vessillo israelitico”, portavoce dell’ebraismo emancipato, prendeva posizione contro il sionismo e il Rabbino Eude Lolli dichiarava sul Corriere israelitico: «Ogni idea di nazionalità politica deve essere da noi abbandonata perché non risponde né al sentimento né al bisogno nostro e solo minaccia di farci perdere la giusta via». Sia Menuhin che gli altri ebrei contrari al sionismo erano persone profondamente religiose per le quali il sionismo significava il ritorno a Sion (la collina dove si erge Gerusalemme) per mantenervi vivi i valori essenziali del giudaismo.

Contro il progetto sionista di “Eretz Israel”, il Grande Israele, si espressero altresì degli esponenti politici di comunità ebraiche europee (ricordo che il sionismo politico nasce in Europa in risposta alle persecuzioni che avevano colpito gli ebrei nei secoli) con dichiarazioni di una lungimiranza impressionante. E' il caso di David Alexander, presidente del Consiglio dei parlamentari ebrei britannici e di Claude Montefiore, presidente dell’Associazione anglo-ebraica, i quali, a proposito della dichiarazione del ministro degli esteri Lord Balfour che dava il pieno appoggio del Regno Unito al progetto sionista della creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina, affermano a nome del loro Comitato Congiunto: “Dagli albori della loro emancipazione in Europa, il reinsediamento della comunità ebraica in Terra Santa ha rappresentato per gli ebrei una delle loro preoccupazioni maggiori e hanno sempre coltivato la speranza che il loro impegno potesse rigenerare sulla terra di Palestina una comunità ebraica degna delle loro grandi memorie e fonte di ispirazione spirituale per tutti gli ebrei».

Ciò premesso, però, Alexander e Montefiore spiegano il duplice motivo della loro opposizione: «Il primo riguarda la rivendicazione che sia riconosciuto un carattere nazionale in senso politico agli insediamenti ebraici in Palestina. Se si fosse trattato di una questione prettamente locale, la si sarebbe potuta regolare nel quadro delle esigenze politiche generali legate alla riorganizzazione del paese da parte di un nuovo potere sovrano... Ma la rivendicazione attuale ... fa parte integrante di una teoria sionista più ampia la quale considera che tutte le comunità ebraiche del mondo costituiscono un’unica nazionalità priva di una patria (homeless), incapace di identificarsi completamente sul piano sociale e politico con le nazioni in cui vivono, e viene sostenuto che questa nazione senza patria abbia bisogno di disporre sempre di un centro politico e di una patria in Palestina. Con forza e con impegno (protestiamo) contro questa teoria. Gli ebrei emancipati di questo paese si considerano innanzi tutto una comunità religiosa e hanno sempre fondato la loro richiesta di uguaglianza politica con i concittadini di altri credi su tale assunto e sul suo corollario - ovvero che non hanno altre aspirazioni nazionali in senso politico. Considerano il giudaismo un sistema religioso che non ha niente a che fare con il loro status politico e affermano che, in quanto cittadini dello stato nel quale vivono, si identificano pienamente e sinceramente con lo spirito e gli interessi nazionali dei loro paesi. Ne consegue che lo stabilimento in Palestina di una nazionalità ebraica fondata su tale teoria di assenza di una patria ebraica conduce immancabilmente a marchiare gli ebrei come stranieri nei loro paesi natii e a compromettere la loro posizione faticosamente raggiunta di cittadini e sudditi di quei paesi. Inoltre, una nazionalità politica ebraica portata alla sua conclusione logica non è altro, nelle attuali circostanze mondiali, che un anacronismo. Essendo la religione ebraica la sola prova certa di ebraicità, la nazionalità ebraica si dovrà fondare sulla religione ed essere da questa circoscritta. E' inconcepibile supporre per un solo istante che qualsiasi gruppo di ebrei possa volere un commonwealth governato da prove religiose e limitativo della libertà di coscienza; ma può una nazionalità religiosa esprimersi in qualsivoglia altro modo? La sola alternativa sarebbe una nazionalità ebraica secolare, reclutata in base a qualche vago e oscuro principio di razza o di particolarità etnografica; ma ciò non sarebbe ebraico in nessun senso spirituale e il suo insediamento in Palestina sarebbe la negazione di tutti gli ideali e di tutte le speranze grazie ai quali la rinascita di una vita ebraica in quel paese alimenta la coscienza ebraica e la simpatia verso gli ebrei... Il secondo punto del programma sionista che ha suscitato le apprensioni del Comitato congiunto riguarda la proposta di attribuire ai coloni ebrei in Palestina determinati diritti speciali in aggiunta a quelli di cui gode il resto della popolazione; ...non è certo auspicabile che degli ebrei richiedano o accettino tale concessione basata su privilegi politici e preferenze economiche. Questa situazione si tradurrebbe in una vera e propria calamità per tutti gli ebrei. Nei paesi nei quali vivono per essi è vitale il principio di uguali diritti per tutte le comunità religiose. Qualora in Palestina dessero l’esempio di trascurare questo principio si dimostrerebbero colpevoli di averci fatto ricorso per ragioni puramente egoistiche. Nei paesi dove essi lottano ancora per l’uguaglianza si troverebbero irrimediabilmente compromessi, mentre in altri paesi dove questi diritti sono loro garantiti avrebbero grandi difficoltà a difenderli. La proposta è tanto più inammissibile perché gli ebrei sono e probabilmente per molto tempo rimarranno una minoranza della popolazione palestinese e perché verrebbero così coinvolti nelle dispute più aspre con i loro vicini di altre razze e religioni il che ritarderebbe il loro progresso e avrebbe echi deplorevoli in tutto l’Oriente. Né tale schema è necessario per gli stessi sionisti. Se gli ebrei prevarranno in una competizione basata su diritti e possibilità perfettamente uguali, essi stabiliranno la loro preponderanza nel paese nel corso del tempo e lo faranno su una base molto più solida che non su quella resa possibile da privilegi e monopoli».

Eravamo nel 1917. Da allora la storia europea e mediorientale è stata segnata da grandi e orribili eventi: la seconda guerra mondiale, il nazismo che massacrò milioni di polacchi, di russi, di ungheresi, di francesi, di italiani perché di religione o di origine ebraica, ma anche zingari, oppositori politici (comunisti e non), omosessuali, disabili; la cacciata dei palestinesi dalla loro terra ad opera delle formazioni sioniste fra le quali l’Irgun capeggiato da Livni, padre dell’attuale ministro degli esteri israeliano.
Nel 1948 fu proclamata unilateralmente la fondazione dello stato d’Israele che per legge riconosceva a tutti gli ebrei del mondo il “diritto al ritorno” ma rifiutava lo stesso diritto ai palestinesi che vi erano vissuti da sempre, fino a pochi giorni o pochi mesi prima. Dunque il carattere sionista del nuovo stato veniva chiaramente definito dall’inizio. Israele nasceva come stato ebraico e non come lo stato dei cittadini che vi vivevano. E nasceva altresì come stato di tutti gli ebrei del mondo i quali avevano il diritto di stabilirvisi e di ottenerne la cittadinanza. La definizione di chi era ebreo fu delegata ai rabbini i quali sentenziarono che ebreo è chi nasce da madre ebraica, condizione tutt’ora valida per ottenere la cittadinanza israeliana. Le apprensioni dei due esponenti britannici sopra citati venivano così avverate.

Nel 1962 nasce in Israele un partito antisionista, il Matzpen la cui storia e raccontata nel dvd “Zionism or Peace: it’s your choice” e lo si può richiedere all’indirizzo: (aki_orr@netvision.net.il). Uno dei suoi fondatori, Akiva Orr, vive tutt’ora a Tel Aviv e continua la sua battaglia nonostante gli anni e una salute cagionevole. Ma forse l’esponente più autorevole e tenace dell’antisionismo israeliano è stato Israel Shahak, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, professore universitario e presidente della lega israeliana per i diritti dell’uomo. Shahak denunciò le discriminazioni cui erano sottoposti per legge i cittadini palestinesi di Israele spiegando come ciò fosse la conseguenza inevitabile della natura stessa dell’ideologia sionista ispirata al mito biblico del “popolo eletto” e della “terra promessa”. Shahak distingueva nettamente le critiche al sionismo provenienti dall’occidente dall’antisionismo che talvolta copriva un antisemitismo sempre vivo in paesi come la Russia e la Polonia. In quanto all’antisionismo degli arabi e a quello dei palestinesi in particolare, asseriva che altro non era se non la reazione naturale di quelle popolazioni alla fondazione dello stato di Israele nonché al terrorismo sionista che l’aveva preceduta. Non era il solo a pensarla a questo modo.
Lo stesso Moshe Dayan aveva affermato: «Non è vero che gli arabi odiano gli ebrei per motivi personali, religiosi o razziali. Ci considerano, con ragione dal loro punto di vista, degli occidentali, degli estranei, degli invasori che si sono impossessati di un paese arabo per trasformarlo in uno stato ebraico».

Due anni fa durante la guerra del Libano il quotidiano israeliano Yediot Aharonot scriveva: «Vincere o morire. Israele deve affrontare una dichiarazione di guerra lanciata da due organizzazioni terroristiche: Hamas, sunnita, a sud, ed Hezbollah, sciita, a nord. Entrambe non riconoscono ad Israele il diritto di esistere; entrambe sono radicate in territori da cui le truppe israeliane si sono ritirate unilateralmente; entrambe sollevano le folle e mettono a dura prova l’esercito e la popolazione israeliani. Se dovessero uscire a testa alta da questa guerra e sventolare il vessillo della vittoria, significherebbe la fine del progetto sionista». Ed è vero poiché tranne il piccolo partito comunista nessun partito o uomo politico israeliano si è mai dissociato dal progetto sionista del Grande Israele, né ha mai dichiarato quali dovessero essere i confini definitivi di questo stato. Anzi va rilevato che parole tanto chiarificatrici quanto pericolose a questo proposito sono state pronunciate da Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri di Israele. Riferendosi a suo padre ha dichiarato: «Sulla lapide della sua tomba si legge: “Qui giace il capo delle operazioni dell'Irgun” e sulla lapide compare anche una mappa del Grande Israele, di cui fanno parte entrambe le sponde della Valle del Giordano. Molti mi chiedono se il compromesso dei Territori non sia contrario all'ideologia di mio padre, e io rispondo che egli mi ha insegnato a credere in un Israele democratico, patria del popolo ebraico, dove tutti possono godere di pari diritti. Sono però giunta alla conclusione che si deve effettuare una scelta e io ho deciso di creare una patria per il popolo ebraico, ma soltanto in una parte della terra di Israele... Israele è nato come patria per il popolo ebraico. Questo dovrebbe essere l'autentico significato anche del futuro Stato palestinese. Dovrebbe essere la risposta per tutti i palestinesi, ovunque essi siano, quelli che vivono nei Territori e quelli che sono trattati come pedine politiche nei campi profughi. In altre parole, quindi, la nascita dello Stato palestinese dovrebbe risolvere quello che i palestinesi chiamano “il diritto al ritorno”».

Dunque il progetto sionista rimane in piedi, leggermente ridimensionato dal punto di vista territoriale ma intatto in suo esclusivismo che preferisco non qualificare. (Come vogliamo chiamare la condizione "ebraica" da soddisfare per diventare cittadini dello “stato ebraico”?) Inoltre il diritto dei profughi al ritorno nelle loro case, sancito dal diritto internazionale, non verrà riconosciuto ai palestinesi che sono stati «messi in condizione di fuggire» come diceva Begin.

In questo scritto ho evitato ogni considerazione riguardante la situazione mediorientale odierna per concentrarmi su ciò che ha significato il sionismo in passato e sull’ostacolo alla composizione del conflitto che continua a costituire oggi anche se, nei 60 anni trascorsi dalla fondazione dello stato d’Israele, sono andati emergendo innumerevoli altri problemi che hanno complicato la realtà. Il principale fra questi è la capacità di resistenza del popolo palestinese che ha preso i sionisti in contropiede; d’altronde il disprezzo dell’occupato da parte dell’occupante che lo considera incapace di anelare alla libertà è una costante della storia. Ho ricordato le voci ebraiche critiche del sionismo, pochissimo note grazie al lavoro paziente e talvolta spietato svolto da ciò che Menuhim chiamava «la macchina sionista che diffama, denigra, infanga chiunque osi criticare ciò che fa il sionismo in Israele e fuori», la quale non esita ad accusare di antisemitismo chiunque (in particolare se di ascendenza ebraica) osi criticare il progetto sionista; accusa talmente infamante da chiudere la bocca ai più. Ed è anche per dimostrare la strumentalità di tale accuse che ho riferito unicamente voci ebraiche critiche del sionismo.

Tuttavia il sionismo non riguarda solamente gli ebrei. Riguarda chiunque abbia a cuore i diritti umani, la legalità internazionale e la pace, ma anche la sicurezza dello stato di Israele, sicurezza che può essere garantita solo ponendo fine alle sofferenze inflitte al popolo palestinese dal sionismo crudele e da chi lo appoggia e ne copre gli intenti. Il titolo del dvd del Matzpen: “Sionismo o pace, la scelta è vostra” e tutt’ora valido.

La risposta di Claudio Vercelli dell'Istituto Salvemini di Torino, sempre da L'Avvenire dei lavoratori.
Il titolo è 
 LO STATO D'ISRAELE HA SESSANT'ANNI :


Si può spiegare la nascita di uno Stato e, ancor di più, le ragioni per le quali continua ad esistere? C’è un presupposto che renda legittima, una volta per sempre, la sua presenza sulla terra, nel consesso internazionale? Perché tali quesiti vertono sempre sull’azione e l’esistenza medesima di alcuni Stati – uno in particolare - e mai sugli altri? Sono queste, tra le altre, le domande che ci si pone leggendo l’articolo di Vera Pegna dedicato a Sionismo o pace: la scelta è vostra.

Già il titolo, stabilendo un legame avversativo e una reciprocità inversa tra ciò che viene definito «sionismo» (un complesso di fatti storici ma, soprattutto, un insieme di condotte ripetute nel tempo, corroborate da convincimenti ideologici basati sulla volontà di sopraffare) e una ipotetica pace (che si darebbe in alternativa al sionismo medesimo), induce a riflettere su quale sia l’indirizzo che l’autrice intende affermare fin da subito con le sue parole. Che sono una cortese raccolta di luoghi comuni su Israele, irritante come lo sanno essere quei giochi di carte, fatti da abili prestigiatori, che nel prometterci la possibilità di una qualche vittoria ci defraudano anticipatamente di ogni reale possibilità in tal senso.

Ancora una volta, se mai occorresse, ci troviamo dinanzi alla manifestazione di quello che è un assunto di principio, un assioma tolemaico tenacemente diffuso (Israele è un Stato abusivo), non molto diversamente da come, fino al XVI secolo, per i più la terra era piatta. Se allora c’era una falsa evidenza, derivante dalla percezione empirica, quella di poggiare i piedi su una striscia piana e continua, oggi per certuni c’è l’inossidabile certezza che Israele sia solo ed unicamente un’«entità sionista». La si desume, nella lettura dell’articolo, dalla misura in cui il dato storico della nascita e della crescita di una paese è ridotto alla concreta manifestazione di un «progetto» (una intenzione preordinata non solo cronologicamente ma anche e soprattutto logicamente), quello per l’appunto sionista, fondato sull’evidente intendimento di disconoscere i diritti di chi ebreo non è. In tale volontà, sostanzialmente razzista (come definirla, altrimenti?) si sostanzierebbe l’intera parabola d’Israele, la sua intima ragione d’essere, il suo vizio d’origine che si trasforma in torto d’esistere.

Dalla confusione tra i due piani Vera Pegna, invece, fa discendere immediatamente un viatico per la delegittimazione tout court di una società che viene descritta come il prodotto artificiale di una volontà eterodiretta, il «sionismo», per l’appunto, che governerebbe arcanum imperii la logica dei fatti e la dinamica delle scelte. Dimenticando, inoltre, la cogenza dei fattori regionali, a partire dalla conclamata ostilità dei paesi circostanti.

Liquidare poi la nascita d’Israele, nel 1948, come l’esito di una «proclamazione unilaterale» è una affermazione priva di senso, che si smentisce da sé. Intanto va detto che, in linea di principio, la nascita di una nazione è storicamente sempre il risultato di una spinta di una parte, di contro alle resistenze altrui. Non esiste nessun paese che si sia formato senza attriti verso e contro coloro che, a vario titolo, si opponevano alla sua costituzione. Basti pensare al processo di formazione degli Stati Uniti, sia con gli effetti devastanti nei confronti delle comunità autoctone amerindie, sia con la dissanguante Guerra di secessione che spaccò la popolazione in fronti contrapposti. Oppure, in scala più modesta ma non meno tumultuosa, le cosiddette «insorgenze» delle popolazioni del sud d’Italia contro l’unificazione sabauda. Ma non è neanche questo il vero punto. Più volte si è detto che la risoluzione 181 delle Nazioni Unite stabiliva la divisione in due delle terre contese. Era questa l’unica, ragionevole soluzione praticabile. Va però aggiunto che alla nascita dello Stato d’Israele, per parte ebraica, corrispose la deliberata volontà, da parte araba, di non far nascere uno Stato palestinese. I calcoli era chiari e inequivocabili: non solo l’«entità sionista» si sarebbe disgregata sotto i colpi di maglio degli eserciti arabi ma nessuna istanza nazionalista palestinese avrebbe dovuto avere un qualche riconoscimento. Si dimentica quest’ultimo aspetto, che sta alla base delle asimmetrie successive.

Da ultimo, ci sia concessa una digressione sul destino dei profughi. L’apolidia, come segnalava Hannah Arendt, è la condizione peggiore nella quale un essere umano abbia potuto trovarsi nel secolo, il Novecento, degli Stati nazionali. Ma il vero problema, per molti (tra i questi i palestinesi) non è quello di avere perso uno Stato, che non hanno mai avuto, bensì quello di non averlo mai trovato. Ciò che rende l’individuo un profugo è non solo l’abbandono dei luoghi natii bensì la mancata accoglienza in quelli di approdo. Su questo capitolo, ad onore del vero, meriterebbe che si aprisse una riflessione sulla politica degli stati arabi che scelsero allora di usare i palestinesi come merce da baratto (e lo stesso continuano a fare oggi). Così come sarebbe bene ricordare che all’abbandono delle proprie terre da parte delle popolazioni arabe, a partire dal 1948, corrispose l’espulsione in massa delle comunità ebraiche dai paesi arabi. Se una disgrazia non lava l’altra, va comunque da sé che il destino dei secondi (l’integrazione, pur tra mille difficoltà, in Israele) di contro alla dispersione dei primi è il nocciolo vero del conflitto israelo-palestinese. Laddove alla volontà integrazionista di Gerusalemme ha fatto sempre da risconto la calcolata indifferenza delle capitali arabe.

Le dichiarazioni di Souad Sbai sul boicottaggio antisraeliano della Fiera del libro di Torino:

 

 

Non si deve permettere a nessuno di bloccare le occasioni di dialogo, perche’ bloccando il dialogo si blocca la pace". Cosi’, Souad Sbai, presidentessa dell’Associazione della comunita’ marocchina delle donne e neo eletta alla Camera con il Pdl, ha commentato con l’ADNKRONOS le polemiche sulla Fiera del Libro di Torino, dedicata quest’anno ai 60 anni dello Stato di Israele.

"Guai a chi si ferma davanti al boicottaggio che viene da certi cosiddetti intellettuali", ha osservato Sbai che ha espresso la propria solidarieta’ al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo le parole dello scrittore arabo Tariq Ramadan, "che dovrebbe scusarsi subito con Napolitano. E le scuse andrebbero fatte anche al presidente della Camera Gianfranco Fini, le cui parole, a favore del dialogo, sono state travisate. Per me, assistere a certe polemiche e’ stato uno shock: e’ assurdo perdere occasioni di dialogo, ma questo accade anche perche’ l’Europa vive la pressione di un certo estremismo che non fa certo bene al confronto, che invece ci deve essere, fra le diverse culture". "Nel mio Paese, in Marocco, si cerca con impegno il dialogo interculturale e tra le diverse religioni. Ed e’ giusto che sia cosi’. Se qualche cosiddetto intellettuale, o filosofo, non capisce l’importanza del dialogo, allora vuol dire che non ha capito nulla. Ecco perche’, alla fine -conclude Sbai- si arriva a certe forme di boicottaggio assurde e stupide".

Una lettera ai boicottatori, di Michael Sfaradi, pubblicata da LIBERAL


Cari Amici,

 

 

Prendo spunto dalla contestazione che state organizzando, contro la presenza di Israele come ospite d’onore alla fiera del libro di Torino, per esternare alcuni pensieri sulla situazione mediorientale, considerazioni che spero possano servirvi come materia di riflessione. Sinceramente non sono ancora riuscito a capire se siete amici dei Palestinesi perché odiate noi, o se odiate noi perché siete amici dei Palestinesi. Se si tratta del primo caso alzo le mani e mi arrendo, perché se ci odiate “a prescindere” non c’è davvero nulla che si possa fare per arrivare ad un punto d’incontro. Se si tratta del secondo, possiamo per una volta lasciare da parte i nostri sentimenti e provare a ragionare. Molti di voi si dicono pacifisti, quindi sono sicuro che nessuno pensa ad uno Stato Palestinese che debba nascere al posto di Israele; perché così facendo scambieremmo una guerra con un’altra e ci sarebbe un altro popolo senza terra da accasare. Sono tante le cose riportate dai mezzi d’informazione in maniera incompleta o volutamente stravolta e proprio perché noi israeliani veniamo dipinti spesso in malafede, che peggio non si potrebbe, mi sembra giusto fare un po’ d’ordine. Siamo stati chiamati i nuovi nazisti e questa è un’offesa all’intelligenza degli esseri umani. Il governo dello stato d’Israele non ha mai costruito campi di sterminio e credetemi non ha mai pensato di farlo. Non ha mai perseguitato nessuno per credo politico, religioso o per qualsiasi altro motivo. In Israele si registra la presenza di diverse comunità religiose, oltre all’ebraica ed alla musulmana vivono liberamente comunità arabo-cristiane, buddiste, induiste, testimoni di Ge-ova ed altre ancora fino ad arrivare ad alcune centinaia di seguaci di Ari Krishne. Oltre alla maggioranza ebraica Sefardita ed Aschenazita e agli arabi israeliani, vivono liberamente in Israele: Beduini, Drusi, Armeni e Samaritani. Tutte queste religioni ed etnie hanno la piena libertà di svolgere le loro funzioni ed insegnamenti; non sarebbe un peccato spazzare via questo tesoro? Si è più volte affermato che Israele non vuole la pace, altra menzogna detta da chi mente sapendo di mentire. Tutti i governi israeliani, dalla fondazione dello stato 60 anni fa ad oggi, hanno sempre cercato il dialogo e le paci raggiunte con l’Egitto dopo la guerra del 1973 e più recentemente con la Giordania sono la prova di quanto la pace è importante per ogni israeliano. Gli stessi accordi di Oslo, che poi sono finiti che peggio non si poteva, hanno comunque dimostrato il desiderio da parte di Israele di arrivare ad una soluzione che potesse permettere ad ognuno dei due popoli di vivere secondo le sue tradizioni. Non fatevi ingannare, cari amici, da chi dice che gli Israeliani non hanno diritto di stare dove stanno e che dovrebbero tornare nei loro paesi di origine, costoro commettono uno sbaglio enorme perché probabilmente non conoscono la storia. Gli israeliani di oggi sono i figli, i nipoti e i pronipoti di quelli che bonificarono le paludi e irrigarono i deserti che stavano lì dove oggi c’è Israele. Molti di quei pionieri subirono pogrom e persecuzioni nelle nazioni d’origine e se i loro discendenti dovessero tornare nei posti che un tempo furono abitati dai loro avi, diventerebbero rapidamente minoranza minacciata. Questa francamente non mi sembra una buona soluzione. Dovreste sapere che i primi a fregiarsi del nome “Combattenti Palestinesi” sono stati proprio gli ebrei residenti nel mandato britannico, che si arruolarono volontari, durante la seconda guerra mondiale, come brigata autonoma nell’esercito inglese. Combatterono contro i tedeschi nazisti e gli italiani fascisti, contribuendo alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Se oggi si vive in libertà, un po’ del merito è anche di quei giovani che sacrificarono la loro vita sotto la bandiera che sarebbe poi diventata quella del loro stato. Quando il 25 Aprile vedete sfilare gli striscioni con la bandiera di Israele, smettetela di fischiare e insultare perché quella bandiera sta lì di diritto. Se davvero amate la pace, non fatevi ingannare da chi vi dice che Israele dovrebbe accettare al suo interno tutti i profughi palestinesi o presunti tali, perché le due popolazioni hanno dei bisogni che non sono conciliabili. Gli israeliani da una parte hanno bisogno di Israele così com’è, cioè una nazione dove la democrazia e la laicità sono e saranno per sempre le fondamenta di uno stato moderno e occidentale, ma dall’altra vogliono una nazione che deve anche racchiudere in sé un’anima di tradizione e religiosità ebraica che la renda unica al mondo. Visto che l’antisemitismo è ancora molto duro a morire, Israele deve continuare ad essere un porto d’approdo e una ciambella di salvataggio per tutti gli ebrei ancora sparsi nel mondo. Un’immigrazione palestinese sconvolgerebbe questo status creando attriti insanabili e tensioni che sfocerebbero in violenze. In brevissimo tempo il mondo si ritroverebbe davanti ad una guerra civile devastante. I palestinesi poi non hanno bisogno di vivere in uno stato che abbia una cornice ebraica, per loro è incompatibile come è incompatibile un regime politico di democrazia. Non nascondiamoci dietro un dito, il mondo arabo non ha ancora adottato la democrazia come metodo di vita… anzi la combatte. Io credo che l’unica soluzione che possa portare un po’ di calma stabile nella regione è la creazione di due stati che imparino a vivere uno accanto all’altro. Due stati che sappiano collaborare e che crescano insieme portando tranquillità in una terra che tranquilla non è mai stata.

 

Cari amici che ci odiate perché siete amici dei palestinesi,

 

fate un favore a noi e a loro, fategli capire che se continuano a pensare ad una Palestina senza Israele riusciranno solo ad ottenere Israele senza Palestina.

 

Cercate di convincerli che le utopie farneticanti dei manipolatori che li spingono a distruggere prima di costruire, hanno sempre portato e continueranno a portare lutti e disgrazie a tutti. Se vogliamo la pace, cari amici, dobbiamo bloccare questi portatori d’odio ed imparare il rispetto per gli altri. Bisogna smettere di bruciare bandiere, di boicottare i libri e le idee che essi rappresentano e trovare degli accordi che consentano a tutti di vivere dignitosamente. Un caro saluto Michael Sfaradi

Dal blog di Davide Romano:

http://liberopensiero.blogosfere.it/2008/05/israele-alla-fiera-del-libro-dai-libri-bruciati-a-quelli-boicottati.html

Israele alla Fiera del Libro: dai libri bruciati a quelli boicottati

Domani inizia la Fiera del libro di Torino, dedicata quest'anno ad Israele. La coalizione degli estremisti rosso-verdi (fanatici comunisti e islamici) ha deciso di contestare e boicottare l'evento perchè secondo loro Israele non va celebrato. Quasi come fosse uno stato totalitario. Anzi, peggio. Non risulta infatti da nessuna parte che i rosso-verdi abbiano mai protestato in maniera così veemente contro alcun altro paese al mondo. Neanche contro le dittature: da Cuba alla Corea del Nord, passando per la Cina e l'Arabia Saudita.

Secondo loro dunque, Israele è peggio di qualsiasi dittatura. Non importa se Israele è una democrazia in cui il 20% dei cittadini sono arabi e godono di più diritti rispetto a qualsiasi altro paese arabo. L'odio resta. Il motivo? perchè non è un odio di cervello, ma di pancia. E' un odio pre-politico e pre-culturale. Non a caso se la prendono addirittura con i libri. I nazisti li bruciavano, questi altri li boicottano. C'è differenza? certo che sì, ma la pancia, il riflesso è molto, troppo simile. E deve inquietare. Perchè da queste masse educate all'odio può venir fuori il cretino che passa dalle teorie ai fatti. Un discorso che ovviamente vale sia per i fanatici rossi che per quelli verdi, anche in questo assai simili.

E purtroppo è difficile credere nel dialogo con chi non vuole dialogare. Prendiamo Tariq Ramadan, il predicatore e intellettuale musulmano tanto amato da certa sinistra. Ancora l'altro giorno ha accusato Napolitano di tacciare di antisemitismo chi critica Israele. Un'accusa ridicola, ma soprattutto frutto della necessità di Ramadan e degli estremisti di inventare menzogne per legittimarsi. Nessuno, ripeto nessuno, ha mai detto che chi critica Israele è antisemita. La sola frase è in sè ridicola. Israele deve essere criticata, e se c'è un paese al mondo che viene criticato (a partire dagli israeliani stessi) è proprio questo. Altra cosa è dire che chi delegittima solo Israele - dei 180 e passa paesi esistenti al mondo - ha pregiudizi antiebraici. Questo è invece ovvio. Però i fanatici alla Ramadan hanno bisogno di dire che "chi critica Israele viene accusato di antisemitismo". Sanno benissimo, perchè glielo hanno detto migliaia di volte, che non è vero. Ma continuano a dirlo perchè se no gli saltano i loro schemi mentali.

Ma diciamola tutta, caro Tariq Ramadan. Non ci sarebbe nemmeno bisogno che tu ti aggiunga alla fila lunghissima di chi critica Israele. Ci pensano già in tanti. Domandati piuttosto come mai nessuno - a cominciare da te - critica mai l'assenza di voto e di stampa libera in Siria, Egitto, Libia, Iran, ecc. Come mai nessuna manifestazione o boicottaggio viene organizzata per evitare che gli arabi dissenzienti vengano torturati o impiccati nei loro stessi paesi. O forse anche tu, caro Tariq, odi più gli ebrei di quanto ami gli arabi?

http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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