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Il Sole 24 Ore - La Stampa Rassegna Stampa
06.05.2008 La ricchezza della letteratura israeliana
due articoli per guardare alla Fiera del libro al di là delle polemiche politiche

Testata:Il Sole 24 Ore - La Stampa
Autore: Giulio Busi - Elena Loewenthal
Titolo: «Cantori del bene pubblico - A Tel Aviv c’è Nietzsche sull’aquilone»

Riportiamo due interessanti articoli, pubblicati in occasione dell’imminente apertura del Salone del Libro di Torino (8 maggio), il primo a firma Giulio Busi intitolato "Cantori del bene pubblico" sul Sole 24 Ore, il secondo di Elena Loewenthal intitolato " A Tel Aviv c’è Nietzsche sull’aquilone" su Tuttolibri – de La Stampa, nei quali emerge non solo la straordinaria ricchezza espressiva di un piccolo Stato ben rappresentato da scrittori come A.B. Yehohua, Sami Michael, Orly Castel Bloom, Meir Shalev, Etgar Keret e molti altri ma anche l’interesse che gli israeliani provano nei confronti della lettura alla quale si approcciano per curiosità, per studio, per "tradizione, per passione, quasi per necessità sociale".

Dal SOLE 24 ORE
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"Non fa ridere. Magari sarà divertente in Svizzera, ma qui ci sparano addosso e abbiamo le nostre priorità. Riprova quando ci sarà la pace in Medio Oriente". Così si è sentito rispondere Etgar Keret, quando ha proposto una storia satirica sul proprio cane.

In un Paese perennemente sotto stress, nemmeno la letteratura si sottrae alla legge dell’emergenza, per così dire, terapeutica. Bisogna che funzioni, comunichi, magari innervosisca ancora di più, ma di parole-placebo in Israele non sembra accontentarsi nessuno. Servono, invece, pillole per fronteggiare l’ansia, chiamandola col proprio nome.

Non che Keret, autore simbolo del postmoderno israeliano, abbia cambiato il proprio modo di scrivere, eppure anche lui pare in qualche modo accettare la critica, e insiste nel chiamare gli altri a testimoni del senso, o del non-senso, di un universo da ricomporre.

L’uso, e forse abuso collettivo di pagine stampate è uno dei segreti del successo mondiale della letteratura israeliana. Da un bacino linguistico di pochi milioni di persone è sgorgata, finora, una quantità sorprendente di proposte espressive. Non c’è da stupirsi che l’Europa annoiata e un po’ fifona di oggi guardi con malcelata invidia, se non alle infinite grane che travagliano lo Stato ebraico, di certo alla creatività degli autori israeliani. La verità è che lo scrittore qui riveste ancora, in qualche modo, i panni dell’aedo. Ha insomma una funzione pubblica, come se intrecciare frasi e coniugare verbi potesse davvero aiutare l’utopia mezza vera, mezza sognata e mezza in frantumi del Paese.

Certo, dai padri fondatori, che celebravano l’ideale sionista, ai ragazzi cresciuti troppo in fretta delle ultime generazioni, disincantati e chiusi nel bozzolo del loro slang, di differenza ce ne passa. La scelta della Fiera del Libro di Torino di presentare per età anagrafica anche la storia recente della letteratura israeliana aiuta a capire. Tra il mondo dei grandi testimoni come Aharon Appelfeld, che fu sradicato dall’Europa, e quello di Abraham Yehoshua, di poco più giovane, ma nato a Gerusalemme, si coglie già un primo profondo mutare delle metafore, dei fuochi espressivi e delle cadenze psicologiche. Appelfeld – che aprirà la rassegna di Torino – esprime essenzialmente il dramma della Shoah, Yehoshua, invece, è cantore di un Israele indipendente e consapevole.

Al salone non saranno presenti Amos Oz e David Grossman che, assieme a Yehoshua, costituiscono una triade letteraria di "maggiori", diventata, per la verità, negli ultimi tempi un po’ statica e stereotipa. Ci sarà invece Sami Michael, nato nel 1926 a Bagdad, ma giunto al romanzo solo nel 1974, dopo un lungo processo di appropriazione dell’identità israeliana.

In anni recenti, risultati persuasivi sono venuti soprattutto dal lirismo introverso di Meir Shalev, classe 1948, ma anche da scrittrici come Savyon Liebrecht (1948), Zeruya Shalev (1959), e Lizze Doron (1953), questa molto amata nei paesi di lingua tedesca. Stilisticamente più aggressivi sono Etgar Keret (1967), con il suo minimalismo "post-adolescenziale", e Orly Castel-Bloom (1960), con la sua scrittura "post-femminile".

Un discorso a parte merita Ron Leshem, di appena trentadue anni, che, nell’epopea negativa sul castello crociato di Beaufort occupato dai militari israeliani, ha tentato un canto di guerra amaramente disilluso. Per lui, la critica ha addirittura invocato, un po’ a sproposito, i precedenti di Remarque ed Hemingway.

E proprio le ultime prove, in cui tutto è emozione e disagio, e ben poco resta della vecchia prosa carica di nostalgie e allusioni colte, spingono a chiedersi in che direzione si svilupperà il fenomeno letterario israeliano. Avrà un futuro irriverente? Si allontanerà, con uno scarto imprevedibile, dalle proprie radici? A ogni modo, Keret e gli altri possono stare tranquilli. La Svizzera è ancora molto lontana.

Da La STAMPA

Khaled Hosseini, Haruki Muratami, Umberto Eco e la sua misteriosa fiamma: non si tratta di un improbabile simposio letterario, bensì di tre fra i tanti nomi di autori stranieri che campeggiano in queste ultime settimane sui banchi delle librerie israeliane. Non solo narrativa, più o meno alta o di consumo, ma anche saggistica: la biografia di Spinoza di Steven Nadler, di recente tradotta in ebraico, figura addirittura fra i best seller. Del resto non sfigura nemmeno "Umano, troppo umano" di Nietzsche.

Se gli ebrei sono da millenni il popolo del Libro, l’equazione chiama il plurale per quella nuova/vecchia realtà (come la chiama Theodor Herzl, fondatore del sionismo moderno) che è lo Stato d’Israele. A dire il vero, anche i figli d’Israele in Diaspora hanno sempre frequentato ben più di un solo libro, quello sacro, e in questo senso c’è perfetta continuità dentro un paese popolato da circa sei milioni di persone ma con tirature editoriali non dissimili da quelle che coprono il fabbisogno nazionale del nostro stivale. In Israele si pubblicano all’incirca 8000 titoli all’anno, di cui una gran maggioranza in lingua originale, cioè non tradotti (nel 2004 era l’80%). Più o meno 1300 editori sono attivi nel paese, ma ben 450 rientrano nel settore dell’editoria religiosa ortodossa, ad uso "interno". Una trentina di editori pubblica in arabo.

Gli israeliani leggono molto più di noi italiani. Perché? Per passione, per tradizione, quasi per necessità sociale: vi sono libri che non si può fare a meno di conoscere. A una cena fra amici, in ufficio, alla fermata dell’autobus, capita di fare esegesi spicciola, di elogiare quando non indignarsi con uno scrittore, senza prendere in considerazione l’eventualità che il proprio interlocutore non abbia presente ciò di cui si sta parlando.

Quando esce un nuovo romanzo di Amos Oz, A.B. Yehoshua, David Grossman, Aharon Appelfeld o Meir Shalev, la maggioranza degli israeliani non si pone il dubbio de leggerlo o meno. Fino a non molti anni fa vigeva il sistema dell’abbonamento rateale: ad esempio i titoli di "Am Oved" (significa "popolo che lavora", e tradisce l’antica matrice socialista) arrivavano a casa automaticamente, come gli irrinunciabili fascicoli di un’enciclopedia. Poi anche in Israele è arrivata la grande distribuzione, e con essa il diritto e il dovere di scegliere che cosa comprare.

Israele compie sessant’anni in questi giorni, è un Paese giovane, ma a modo suo – con il peso e il supporto di una storia millenaria. In questo periodo anche i gusti e le abitudini dei lettori sono cambiati sensibilmente. Da un regime di relativa autarchia letteraria – vuoi perché non sono mai mancati scrittori di vaglio, vuoi perché nei primi decenni di vita della nazione non era così facile formare una "classe" di traduttori professionisti – si è passati gradualmente a un panorama globale. Gli israeliani leggono ancora in lingua originale molto più di altri paesi – compreso il nostro -, ma hanno a poco a poco scoperto tante altre letterature nazionali.

Cresciuti a dosi abbondanti di grande romanzo russo, nel quale ancora oggi molti scrittori del Paese si specchiano, hanno poi conosciuto la letteratura nordamericana, quella francese e, non ultima, l’italiana: da Natalia Ginzburg a Elsa Morante, da De Amicis a Erri de Luca, e tanti altri.

Naturalmente le librerie del Paese non sfuggono al circuito dei best seller internazionali che passano dagli Aquiloni e dai Soli di Khaled Hosseini e arrivano al Codice da Vinci. Anche la cucina è spesso un tema "caldo", così come i manuali di comportamento e la psicologia da banco; ma può capitare che persino un nuovo dizionario ebraico di slang scali le classifiche, perché gli israeliani hanno un rapporto niente affatto scontato e uniforme con la loro lingua, parlata nel Paese in mille modi diversi.

Nel complesso, non si può negare che i nuovi orizzonti mediatici abbiano segnato il panorama culturale: come ovunque, Internet e la televisione rappresentano una sfida quotidiana alla pagina scritta. Ma in Israele non si è ancora presentata la necessità di allestire campagne promozionali per la lettura, né di abbinare capolavori d’ogni tempo al giornale del mattino.

Malgrado le difficoltà, insomma, il libro tiene. Ed è anche in virtù di questa tenuta da parte del pubblico, se la letteratura nazionale si mostra vivace, multiforme. Perché a parte i grandi classici contemporanei che ormai anche noi abbiamo imparato a conoscere, a parte molte traduzioni e saggistica varia, le librerie israeliane offrono un ricco panorama "interno".

Una scrittura femminile grottesca (Orly Castel Bloom) o realistica (Avirama Golan), delicata (Savyon Liebrecht) o impietosa (Zeruya Shalev), che attraversa più generazioni e conosce molte voci, alcune delle quali non ancora accessibili al lettore italiano. Così come la letteratura giovanile, ricca di esperienze: si va dai sobborghi popolari di Tel Aviv agli ambienti ortodossi, dal taglio autobiografico al surrealismo più spinto. Non manca nemmeno il Ken Kollet della situazione, Ram Oren, con storie ad alta tensione e tirature puntualmente portentose.

Il lettore israeliano percorre con disinvoltura, senza troppi snobismi, questi generi così diversi fra loro. Apre un libro dove gli capita: in salotto e sull’autobus, seduto al caffè o allungato sulla spiaggia. E’ uomo e donna, vecchio e bambino, nella comune convinzione che leggere è una buona abitudine.

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