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Panorama Rassegna Stampa
05.05.2008 60 anni di Israele
un dossier con l'intervista a Shimon Peres e la testimonianza di Luciano Segre, italiano che combattè nel 48

Testata: Panorama
Data: 05 maggio 2008
Pagina: 88
Autore: Pino Buongiorno - Luciano Segre
Titolo: «Israele I primi 60 anni (dopo 2 mila di diaspora) - Mamma, vado in guerra»

PANORAMA del 2 maggio 2008 pubblica uno speciale dedicato ai 60 anni di Israele.
Co un'intervista di Pino Buongiorno a Shimon Peres, presidente dello Stato ebraico:


In un modesto ufficio di Beit Hanassi, a Gerusalemme, residenza ufficiale dei presidenti d’Israele, sono racchiusi tutti i 60 anni dello stato ebraico. L’attuale inquilino, il nono, Shimon Peres, 85 anni il prossimo 21 agosto, ne è fedele custode: è il veterano della politica israeliana, già premier, ministro in 12 gabinetti e capo del partito laburista. Polacco d’origine, sposato con Sonya da cui ha avuto tre figli, Peres è arrivato a soli 11 anni in Palestina, all’epoca sotto mandato britannico. A scoprirne le doti fu David Ben Gurion, il fondatore dello stato ebraico, la cui immagine spicca ovunque. Ma Peres è stato anche grande amico degli altri personaggi fotografati nel suo ufficio e in quello adiacente: innanzitutto Moshe Dayan. Come pure Yitzhak Rabin, con il quale ha condiviso, assieme a Yasser Arafat, il Nobel per la pace nel 1994.

Eletto presidente della repubblica il 13 giugno 2007 con 86 voti a favore contro soli 23, oggi gode di notevole popolarità nonostante un periodo di sconfitte politiche e di controversie interne. «La popolarità è come un profumo» si schermisce in questa intervista esclusiva a Panorama. «Delizioso da odorare, pericoloso da bere».

È il pomeriggio di domenica 27 aprile. I dirigenti israeliani mettono a punto i preparativi per le grandi cerimonie del 60° anniversario della nascita dello stato. Fra il 13 e il 14 maggio è previsto l’arrivo di decine di capi di stato e di governo, ma soprattutto è attesa la partecipazione ai festeggiamenti dei 7 milioni e mezzo di israeliani: erano solo 650 mila nel 1948.

Qual è oggi la situazione della repubblica d’Israele?

Lo stato della nostra repubblica deve essere visto all’interno dello stato del mondo e in particolare di quello del Medio Oriente. Ci sono tre confronti in corso. Uno è fra gli arabi e gli iraniani, con questi ultimi che vogliono dominare e imporre la loro religione. Il secondo scontro è fra generazioni. C’è un’importante parte della popolazione di queste parti, inclusa la galassia terroristica, che ha paura della modernità perché essa può porre fine alle tradizioni. E, terzo, c’è un conflitto in corso fra noi e alcuni paesi vicini. Tutti questi confronti sono correlati.

Come andrà a finire per Israele?

Nel lungo periodo gli iraniani non riusciranno a sottomettere gli stati arabi. Ma questo ha i suoi effetti e i suoi costi: crea terrore e minacce. Sulla seconda questione, quella della modernità, non penso che una singola persona e nemmeno 1 miliardo di persone possano fermare il corso della storia: dall’agricoltura alle scienze. Per quanto riguarda infine il conflitto con i palestinesi e i paesi limitrofi, devo constatare che in 60 anni siamo stati attaccati sette volte. Abbiamo subito due intifade. Tutto ciò è stato costoso. Ma siamo stati anche capaci di concludere due accordi di pace con l’Egitto e con la Giordania. Ora stiamo negoziando con i palestinesi: c’è un’ampia base per un’intesa. E anche con il Libano non abbiamo alcun confronto formale.

Un risultato, tutto sommato, positivo?

Sì, perché Israele è sempre emerso a dispetto di tutto, dei kamikaze e della cultura della morte. In maniera impressionante si è imposto soprattutto in economia e siamo tra i paesi più avanzati nell’high tech e nelle nanotecnologie. Noi siamo forti in tre campi: nell’agricoltura, nella medicina e nella sicurezza interna. L’agricoltura israeliana è conosciuta in Egitto, in India, in Cina, nell’America Latina. Il 40 per cento di tutta l’apparecchiatura medicale nel mondo è fabbricata in Israele. Per non parlare delle tattiche e degli strumenti per la sicurezza interna. E questi sono i tre maggiori problemi del nostro tempo: il cibo significa agricoltura, la salute è la medicina e la sicurezza interna è la guerra al terrorismo.

Chi fra i personaggi che lei ha conosciuto ha più contribuito allo sviluppo di Israele?

Sicuramente il più importante è stato Ben Gurion, un uomo di fede e di forti valori morali, oltre che un eccellente leader. Era un genio. Ho avuto l’onore di lavorare con lui per 20 anni. Non solo è stato il fondatore dello stato, ma ha affrontato anche situazioni impossibili. E ha sempre trovato le soluzioni giuste.

Quanti dei valori di Ben Gurion rimangono ancora nella società israeliana?

Oggi siamo 7 milioni e mezzo di abitanti. Ci sono state tante immigrazioni che fanno d’Israele il paese più eterogeneo al mondo, con centinaia di lingue parlate e centinaia di culture. Si sono imposti nuovi valori. Questo non significa che qui siamo tutti angeli. Ma d’altra parte si è costituita una forma di vita che è unica.

Com’è cambiato l’esercito israeliano in questi sei decenni?

È diventato più sofisticato, più tecnologico. Le guerre del passato erano più territoriali, ora sono balistiche, nel senso che tutto il paese è un fronte: un cambiamento enorme.

C’è ancora attaccamento alla divisa da parte dei giovani?

Ancora più che nel passato.

Come giudica le nuove generazioni?

I giovani non sono così entusiasti della nostra storia e pensano che abbiamo fatto un sacco di errori. Sono proiettati nel futuro con priorità diverse. Non vedo nulla di sbagliato in questo.

In ordine di pericolosità, quali sono i maggiori nemici d’Israele?

Non parlerei in termini di pericolo, ma di speranza. La principale è di fare la pace con i nostri vicini. Anche con la Siria.

Se ne discute tanto in questi giorni grazie alla mediazione della Turchia...

Importante è che si cominci.

Qual è la linea rossa che l’Iran non deve superare?

La linea rossa non vale solo per Israele, ma per il mondo intero. La comunità internazionale non può permettere che un paese come l’Iran combini l’ambizione coloniale, le bombe atomiche, la diffusione del terrorismo e la leadership fanatica.

Israele reagirà unilateralmente contro l’Iran nucleare?

L’Iran è un pericolo per il pianeta e il mondo unito è la risposta.

Come giudica i rapporti fra Israele e l’Italia in questi 60 anni?

Il vostro paese dimostra sempre buona volontà piuttosto che ambizioni. E anche quando le posizioni ufficiali del governo non sono state amichevoli, gli italiani sono rimasti amici. L’Italia, poi, gioca un ruolo positivo in Libano con la missione Unifil 2.

Per il processo di pace con i palestinesi bisognerà aspettare il prossimo presidente degli Stati Uniti?

Aspettare è una perdita di tempo. Dobbiamo continuare a dialogare.

Come immagina i prossimi 60 anni?

Il nostro è un piccolo paese sia per territorio sia per popolazione. Ma Israele è benedetto dai talenti: noi possiamo e dobbiamo diventare un laboratorio di cervelli. Questo è il nostro valore aggiunto, assieme alla nostra etica.

E con una testimonianza di Luciano Segre, italiano che combattè nella guerra d'indipendenza del 48:

Cugino affezionato di Primo Levi, Luciano Segre ha avuto parte della famiglia sterminata ad Auschwitz. Storico dell’economia, insegna all’Università di Milano. Nel 1948 fu uno dei sette italiani che andò in Israele a combattere contro gli eserciti arabi che volevano «buttare a mare gli ebrei». Ecco la sua testimonianza.

Era l’aprile del 1948 e avevo 18 anni. Stavo partendo per quella che al tempo si chiamava Palestina. Di passaggio a Milano, ero andato a salutare mia zia Sara. Avevo le calze bucate e le chiesi di aggiustarmele. «Un combattente deve sapersi rammendare le calze da solo» fu la sua predica. Nei mesi successivi imparai a lavorare di ago e filo. Anzi, introdussi un brevetto, poi adottato da tanti altri soldati. Quando il tallone di una calza si sdruciva, lo rammendavo alla meno peggio e poi lo indossavo al contrario, mettendolo sul collo del piede.

Non erano solo le calze a essere primitive nell’esercito israeliano del 1948. I fucili sparavano un colpo sì e tre no. La nostra divisa: una camicia kaki e pantaloni lunghi o corti, come capitava. Fino a tre anni prima ero stato sulle montagne piemontesi con i partigiani di Giustizia e libertà. Poi avevo finito il liceo e m’ero iscritto a filosofia all’Università di Torino, lavorando nel contempo in un’agenzia di pubblicità. Riuscii a non interrompere gli studi perché un’amica mi prendeva le firme dei professori sul libretto facendosi passare per me.

In Israele c’era il mio fratello minore, Bruno, che era partito nel 1946 all’età di 14 anni. «In questa Europa che ha sterminato milioni di ebrei non voglio più stare» aveva detto a nostra madre Jole. E lei lo aveva lasciato andare. Gli inglesi lo intercettarono su una barchetta e lo chiusero in un campo di concentramento a Cipro. Bruno era sionista e riteneva che il futuro degli ebrei stesse in un paese creato da loro. Io non ero sionista, ma trovavo intollerabile l’idea che chi si era salvato dai nazisti potesse essere sacrificato in un nuovo massacro.

Al mio arrivo a Haifa la guerra era già scoppiata. Chiesi di essere inquadrato come soldato ultrasemplice nel Palmach, il battaglione d’assalto formato da gente che veniva dai kibbutz, in buona parte già nati in Palestina. Erano così sicuri di sé e rotti a tutto, pensavo, che insieme a loro c’era qualche chance di non perdere. Con noi c’erano bellissime ragazze di origine ungherese che ci facevano girare la testa. Facevamo tutto assieme, compresa la doccia. Un giorno dal perbenista comando generale arrivò un ordine: «Docce separate». Il comandante scrisse su due porte che portavano alla medesima doccia: «Bachurim» e «Bachurot», ragazzi e ragazze.

Alla prima licenza andai a cercare mio fratello che non era più prigioniero. Andai in un kibbutz in cui sapevo che era passato, Ghivat Brenner. Lì trovai una signora di origine italiana che per prima cosa mi chiese: «E tu hai già mangiato?». «Veramente no». «Allora siediti là», in sala da pranzo. Poco dopo arrivò con un enorme secchio di latta, 7-8 litri, pieno di minestra. Al che io dissi: «Mi pare un po’ tanta». «Tu sei il fratello di Bruno. Quando lui arrivò se ne mangiò due. Tu almeno uno te lo farai fuori».

Attraverso la signora rintracciai mio fratello. Era in un altro kibbutz, Ramat a-Chovesh, vicino al confine giordano. Arrivai in autostop. Verso sera Bruno mi portò in cantina a dormire. «Tu sta’ qui, perché di notte c’è un po’ di rumore. Io ho da fare». Poco dopo sentii grandi sparatorie: colpi di fucile, di mortaio, di cannone…

Il mattino dopo Bruno mi spiegò che era sulla torre dell’acqua, una cisterna dove era montato un faro, che serviva a illuminare i soldati nemici che attaccavano il kibbutz. Mio fratello, che lo manovrava a mano, era il bersaglio principe. E i tre o quattro che lo avevano preceduto sulla torre erano tutti morti. Bruno aveva 16 anni.

Lo feci arruolare nel mio reparto con la scusa che nel kibbutz si annoiava. Rimanemmo assieme vari mesi. Anche a Sdom (la Sodoma biblica), nel deserto del Negev, circondati per tre mesi da egiziani e giordani. Faceva un caldo torrido. E lì inventai un altro brevetto adottato da mezzo esercito: la doccia in divisa.

Alla fine della guerra rientrai in Italia. Mentre mio fratello, da autentico sionista, mise su casa a Haifa. Adesso che ho 78 anni inizio a credere che i sionisti come lui non avevano del tutto torto, quando pensavano che gli ebrei dovevano difendersi da sé. Perché tutti sono disposti a compiangerli, ma pochi a difenderli.

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