Martin Buber e lo stato binazionale arabo-ebraico un'utopia sepolta dalla storia: riproporla oggi significa solo negare il diritto all'esistenza di Israele
Testata: Avvenire Data: 04 maggio 2008 Pagina: 4 Autore: Martin Buber - Paola Ricci Sindoni Titolo: «Buber Il mio sogno per Israele - Quella pace possibile perché necessaria»
AVVENIRE del 4 maggio 2008 pubblica a pagina 4 del supplemento culturale Agorà un testo di Martin Buber, ripreso dal libro "Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba" edito da Giuntina.
L'iniziativa sarebbe del tutto meritrvole, se fosse accompagnata da un'avvertenza storica: l'ipotesi, avanzata da Buber dello stato binazionale, è stata completamente spazzata via dai pogrom antiebraici compiuti dagli arabi negli anni 30, dal rifiuto arabo dell'immigrazione ebraica durante la seconda guerra mondiale e la Shoah, dalle guerre arabe di aggressione che, dal 1948 in poi, hanno cercato ci cancellare Israele dalla faccia della terra.
Invece, AVVENIRE affianca al testo di Buber un commento, di Paola Ricci Sindoni, che oppone alla visione del grande pensatore ebreo l'opzione per la "guerra a oltranza" falsamente attribuita ai sionisti.
Questa scelta conferisce alla pubblicazione del testo di Buber un senso ambiguo e inquietante. Quello di attribuire, contro la storia, a Israele la reponsabilità del conflitto mediorentale e di mettere in dubbio il suo diritto all'esistenza come stato nazionale degli ebrei.
Ecco il testo di Buber:
Si racconta che Max Nordau una volta si rese davvero conto che in Palestina c’erano gli arabi e, inorridito, andò da Herzl e gli disse: «Io questo non lo sapevo! Commettiamo un’ingiustizia!». Ora, credo di poter dire: certo, commettiamo ingiustizia. Allo stesso modo in cui l’uomo, in quanto vive, commette ingiustizia. Vivere significa commettere ingiustizia. Respirare, nutrirsi, crescere, tutte le funzioni organiche della vita includono ingiustizia. L’intero senso della vita umana consiste nell’essere posto, momento dopo momento, di fronte alla responsabilità: io non voglio compiere più ingiustizia di quanto devo, per vivere. Dunque, commettiamo ingiustizia. Immaginiamoci di essere noi in Palestina e che altri venissero da noi, allora capirete che cosa significhi. Ma non vogliamo commettere ingiustizia maggiore di quella che dobbiamo commettere per vivere, poiché noi non viviamo affatto per vivere ma per realizzare il nostro compito. Dobbiamo dunque assumerci la responsabilità di tanta ingiustizia quanta è strettamente necessaria. Ciò è molto più difficile del voler essere senza colpa. È più difficile del tenersi lontano dall’ingiustizia. È anche molto più difficile dell’essere irretiti nell’ingiustizia. Il nostro rapporto con gli arabi dovrebbe essere costruito in modo positivo in tutti gli ambiti. Economicamente dobbiamo costruire una solidarietà di interessi: non, come sempre è accaduto, dare assicurazioni di una data solidarietà di interessi, ma in tutti quei momenti in cui bisogna prendere decisioni economiche, avere riguardo per gli interessi del popolo arabo. Questo non è avvenuto abbastanza. Chi conosce la situazione, sa che da questo punto di vista molto si è trascurato. Per quanto concerne la politica interna: si trattava di collegare la necessaria autonomia con la possibile comunità, ovvero ciò che si chiama Stato binazionale. La questione della rappresentanza popolare forma in questo contesto la prima tappa. È una decisione terribilmente difficile, che ci attende da anni, ma noi l’abbiamo evitata. Domanderete se siamo maturi per prendere questa decisione. Credo di sì. Se abbiamo assicurato al popolo arabo di volere insieme a loro una forma di rappresentanza popolare, allora deve esserci data una garanzia per il nostro diritto di esistenza; ciò significa: un parlamento potrà essere fondato soltanto con la volontà dei due popoli sulla base di una Magna Carta, cioè una costituzione garantita dalle istituzioni mondiali a ciò preposte, la quale assicurerà a noi, come agli arabi, il diritto all’esistenza, dunque prima di tutto il diritto all’immigrazione. Vi saranno probabilmente molti che su ciò pensano diversamente. Per me è ovvio che non vi è alcuna altra base di accordo sulla questione del parlamento se non il fatto che noi non possiamo essere assolutamente dominati dalla maggioranza di voti in questioni vitali [...]. Sulla questione della religione: l’islam è una realtà molto più grande di quanto abbiamo solitamente voluto percepire. Riguardo a tale realtà vi è il dovere della conoscenza. Devo confessarvi che mi risulta meno chiara la realtà religiosa dell’ebraismo. APIntendo dire che la popolazione araba mi sembra molto più segnata dalla religione islamica di quanto non lo sia in generale quella ebraica. La sfera religiosa è una questione di cultura. Abbiamo trascurato di conoscere l’islam e di stringere rapporti con le autorità di questa religione. Ho spesso notato in Palestina che le persone che conoscono l’islam vengono amate e onorate dagli arabi. Ma esse sono poche. Per un contatto personale è necessaria prima di tutto la conoscenza della lingua araba. Una comprensione è possibile solo in lingua araba. Per quel che riguarda i contatti sociali, certo, vi sono scambi tra villaggi arabi e villaggi ebraici, anche in forme orientali molto belle. Ma vi sono molto meno veri rapporti tra le due popolazioni nelle città. Meglio nei circoli proletari, ma una reale socialità tra arabi ed ebrei è pur sempre un’eccezione. ciò si collega la questione culturale. Di sicuro non vi è alcuna fusione culturale, ma vi è un accordo culturale con tutto il mondo arabo, uno scambio tra enti educativi, tra valori e creazioni culturali, una reale collaborazione. A tal proposito vorrei dire: la nostra politica è stata troppo poco una politica del territorio, ovvero indirizzata all’apertura, allo sviluppo di tutto il territorio, agli interessi anche della popolazione residente. Credo che se una tale politica del territorio ci fosse stata, sarebbe stata riconoscibile agli arabi e sarebbe cresciuta in una collaborazione tra i due popoli [...]. Dovremmo, nel porci di fronte ad un altro popolo, giudicarlo nel modo in cui noi vogliamo essere giudicati, ovvero non in base ai suoi esemplari peggiori, ma in base ai migliori. Dove si è espressa questa presunzione, lì dobbiamo adottare delle contromisure [...]. Intendo parlare del punto di vista della potenza. Si può anche decidere di fare un patto con il diavolo. Ma il diavolo deve essere intelligente, un diavolo stupido rappresenterebbe una meschinità. Se si tratta di ragionare in termini di potenza, bisogna realmente avere potenza. Come si presenta presso di noi la questione della potenza, ovvero, se lasciamo da parte tutti i luoghi comuni al riguardo. rendete l’Inghilterra, l’ebraismo e il popolo arabo. Credete davvero che tutte le dichiarazioni, tutte le garanzie, tutti gli accordi che sono stati siglati dall’Inghilterra, sarebbero sufficienti affinché essa, in un momento in cui dovesse considerare la potenza del popolo arabo o di un’alleanza di popoli arabi, si determinasse a stare dalla nostra parte? Oppure, se pensate al di là dell’Inghilterra ad un’alleanza di popoli, ritenete veramente – se fosse imposto di scegliere tra Inghilterra o ebraismo – che, in questa contrapposizione di interessi, solo il fatto che l’ebraismo abbia ragione determinerebbe l’alleanza dei popoli a volgersi contro l’Inghilterra? Come si può credere a questa politica dell’illusione! E quanto a noi? Non si può negare che noi rappresentiamo una certa potenza, proprio noi, gli ebrei. La nascita stessa della Dichiarazione Balfour mostra che per l’Inghilterra non è importante soltanto la Palestina, ma anche gli ebrei. Vi sono dunque momenti storici in cui possiamo essere importanti. Ma questi sono momenti straordinari. Tuttavia non si può fondare una politica sul fatto che un momento straordinario dello stesso genere avverrà di nuovo, e potremmo perciò assumere valore e significato. Noi siamo una potenza. Ma non possiamo gonfiare e sbandierare questa potenza in un modo non corrispondente alla sua natura e alla sua estensione. Con la nostra potenza reale portiamo avanti una politica dell’inganno, ma non nel senso che diamo ad intendere di possedere una potenza che in realtà non abbiamo. Ci comportiamo con questa potenza in modo tale che con il tempo si potrebbe dubitare che la possediamo. Il 1914 fu il risultato di una generale politica del bluff. Ma credo che quel tempo ora sia passato. Ci convinciamo di certe cose e cerchiamo di convincere anche il mondo. Siamo assai propensi a crederle ma il mondo invece è sempre meno propenso al riguardo [...]. Dopo millenni di esilio siamo giunti nella situazione di insediarci di nuovo in Palestina. Credo che questo significhi una prova, ed è la stessa cosa se ciò è interpretato in modo religioso. Ma coloro che sanno che cosa intendo mi comprendono. Se anche però interpretato in modo diverso da quello religioso, ciò è comunque una prova storica. Ciò che dobbiamo iniziare in questa situazione terribilmente seria è forse la questione più difficile cui dobbiamo rispondere e dalla cui risposta dipende qualcosa di imprevedibile.
E quello di Paola Ricci Sindoni:
Immergersi nello scenario che propone il bellissimo libro di Martin Buber Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba a cura di Irene Kajon e Paolo Piccolella, appena pubblicato dall’editrice Giuntina di Firenze (pagine 366, euro 18,00) e da cui qui a fianco pubblichiamo alcune pagine, aiuta a ripercorrere i tratti salienti dell’avventura intellettuale di Buber, iniziata al terzo congresso sionista di Basilea, nel 1899, quando appena ventenne sostenne che il sionismo non è soltanto un programma politiconazionalista, ma un movimento di rinnovamento spirituale e culturale dell’ebraismo. Su questa ideabase il filosofo ebreo è andato costruendo, pur tra critiche e opposizioni, la sua «atipica» concezione sociopolitica su Israele, espressa in una serie impressionante di interventi pubblici distesi nell’arco di più di mezzo secolo e qui in parte tradotti e presentati al pubblico italiano. Non fa meraviglia che alla sua morte, nel giugno del 1965, venne sepolto nell’indifferenza generale della classe accademica e politica dello Stato di Israele, anche se fu accompagnato da migliaia di giovani che ne avevano colto il timbro utopico-rivoluzionario. Furono le emergenze sociali che lo coinvolsero subito, all’indomani del suo trasferimento in Israele, nell’estate del 1938: la difficile convivenza fra arabi ed ebrei in quel piccolo lembo di terra mediorientale accese in lui la fantasia politica, volta ad immaginare tutte le possibilità concrete per la realizzazione di uno Stato binazionale formato dalla compresenza pacifica dei due popoli. Il modello utopistico-profetico del suo socialismo è disegnato proprio per Gerusalemme, per i villaggi comunitari della Palestina, presentandosi come un progetto politico, animato da una forte tensione etica, nella misura in cui supera e orienta la politica, fornendole quel «centro» di cui essa è priva. Tale centro è la «trasparenza verso il divino», un divino che non distacca dal mondo degli uomini, ma collega i viventi in un socialità dialogica aperta. La questione prioritaria è legata all’impostazione politica generale, propria del sionismo tradizionale, sempre propenso a distinguere nella pratica etica e politica, ma a non distinguere nazionalità, quale sentimento di appartenenza ad un popolo e nazionalismo che ne è la degenerazione programmatica. L’accrescersi dell’egoismo di gruppo non può che scontrarsi con quella concezione della giustizia, che pretende di misurarsi con la presenza, nella medesima terra, di un altro popolo, anch’esso sottoposto alle stesse tensioni nazionaliste. Gli arabi insomma hanno gli stessi diritti, per Buber; è il buon senso espresso nel Talmud quando dice: «Chi lo sa, se il tuo sangue è più rosso (del suo). Forse, è più rosso il suo sangue» ( Sanhedrin 74a). Va da sé che nessun popolo può considerarsi superiore ad un altro; il primo passo da compiere è quello di comprendere il punto di vista degli altri, senza pretendere di piegarlo alla propria visione del mondo. Non richiedeva infatti – come gli è stato contestato – un distacco neutrale e un modo astratto di «guardare il mondo come dall’alto, come Dio», ma al contrario di mettere in atto la pratica dialogica, arricchita negli anni da una sempre maggiore comprensione della realtà politica. L’utopia in senso buberiano si misura qui, nel credere cioè nella concreta possibilità di attivare il dialogo costruttivo con gli arabi, portatori delle medesime ansie nazionaliste e, dunque, posti drammaticamente dentro la medesima pretesa espansionistica. Era proprio sul piano del realismo politico che i sionisti attaccavano il suo progetto utopico, demolendolo alla radice: una cooperazione arabo-ebraica era semplicemente impossibile, solo la guerra ad oltranza sembrava essere realisticamente l’unico mezzo per dirimere la questione ed imporre la legge del più forte. Mentre Buber continuava caparbiamente ad insistere di lavorare su differenti prospettive: la più alta: istituire uno Stato binazionale, la più bassa: inventare «mille piccole decisioni» in grado di neutralizzare l’aggressività palestinese, così da creare nel tempo spazi politici adatti a promuovere segnali di reciprocità da parte israeliana come da parte araba. Il disastro ancora in atto di questa spinosa questione geopolitica impone ancora quello che Buber andava ripetendo, citando Landauer: «La pace è possibile perché è necessaria».
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