Israele ? E' cattiva dal 1948 è la tesi di Michele Giorgio e del quotidiano comunista, da "dimostrare" non importa come
Testata: Il Manifesto Data: 04 maggio 2008 Pagina: 8 Autore: Michele Giorgio Titolo: «La vita agra degli arabi-israeliani «Noi, costretti a spiarci l'un l'altro»»
Qualcuno sostiene che Israele è diventata cattiva nel 1967. La sua colpa fu vincere una guerra difensiva, contro una coalizione di stati arabi che ne volevano l'annientamento, e conquistare Cisgiordania e Gaza. Al MANIFESTO e a Michele Giorgio questa tesi sembra evidentemente troppo poco radicale. Israele è cattiva dal 1948, la sua colpa è esistere. A ulteriore "dimostrazione" di questa tesi il 4 maggio 2008 il quotidiano comunista pubblica un articolo, di Giorgio per l'appunto, sugli informatori arabi dei servizi di sicurezza israeliani dopo la guerra del 1948.
Dal fenomeno degli informatori, Giorgio ricava la rappresentazione di una politica di discriminazione e persecuzione poliziesca. Anche lui deve ammettere che gli arabi israeliani nel 48 erano cittadini con il diritto di voto. Non prende nemmeno in considerazione, però, i motivi per i quali le autorità israeliane avessero da temere che all'interno della comunità araba agissero forze ostili allo Stato, subito dopo la fine della guerra. Nè l'ipotesi che alcuni arabi israeliani vedessero in fondo il proprio interesse, magari inconfenssaabile, a collaborare con Israele nella lotta al terrorismo. Senza bisogno di essere "ricattati". In ogni caso quella che per Giorgio fu una discriminazione che condanna moralmente Israele da prima del 67, non fu che l'adozione di necessarie misure di sicurezza. Misure che non misero mai in discussione i diritti fondamentali della minoranza araba, ma che fecero fronte alla difficile situazione successiva alla guerra d'indipendenza.
Ecco l'articolo:
Haifa Quando una dozzina di anni fa lo studente Hillel Cohen, ora stimato docente di storia all'Università ebraica di Gerusalemme, vide quei documenti, si rese subito conto della loro eccezionale importanza. I funzionari dell'Archivio di Stato, declassificando migliaia di vecchi fascicoli della polizia su furti, rapine e altri reati comuni commessi negli anni successivi alla fondazione di Israele, non si resero conto di aver messo a disposizione del pubblico anche materiali riguardanti migliaia di cittadini palestinesi (gli arabi israeliani) che in quel periodo erano stati informatori dei servizi di sicurezza, in gran parte di piccolo calibro ma anche qualche spia a tutti gli effetti, ben integrata nel nuovo Stato nato nel 1948. Da quei vecchi fogli di carta ingialliti pieni di nomi e relative «prestazioni», Cohen riuscì a tirar fuori un libro: «Gli arabi modello». Divenne un bestseller. Mai nella storia di Israele un libro scritto in ebraico ha trovato tanti lettori tra gli arabi. Dalla Galilea Bassa e Alta fino al deserto del Negev, i palestinesi si procurarono un copia del libro, ristampato più volte. «Le pagine più lette in realtà furono quelle con l'indice dei nomi, tanti temevano per l'onore della famiglia», ha ironizzato lo scrittore Sayyed Qashua. Ma da ridere e da ironizzare c'era ben poco, perché gli anni successivi alla creazione di Israele furono tra i più amari e tormentati per i 150-200mila palestinesi che non abbandonarono o vennero cacciati via dalla loro terra, come avvenne per altri 700-750 mila palestinesi poi finiti in Siria, Libano, Giordania e altri paesi arabi e ai quali non è mai stato concesso di tornare nella loro terra d'origine, sebbene ad affermare questo diritto sia una precisa risoluzione dell'Onu. Sbandati, senza dirigenti politici, isolati, considerati alla stregua di traditori dagli altri arabi perché vivevano sotto l'autorità di Israele e, allo stesso tempo, costantemente seguiti dai servizi di sicurezza del neonato Stato ebraico - fino al 1966 sono rimasti sotto un duro governo militare -, i palestinesi furono chiamati a superare difficoltà enormi. «Erano cittadini, con diritto di voto, ma ogni aspetto della loro vita in quel periodo tra il 1948 e il 1966 era condizionato all'ottenimento di permessi e autorizzazioni, e per averli tanti non ebbero altra scelta che collaborare con lo shabak (il servizio di sicurezza interna)», ha scritto il professor Yoav Di Capua, uno studioso di quel periodo di storia israeliana. «Tanti della mia generazione hanno collaborato - racconta Abu Maher di Mekker, una cittadina vicina ad Acri - Ci spiavamo a vicenda, magari riferendo (allo shabak) solo cose poco importanti, perché l'essenziale era dimostrare che non si era contro il nuovo Stato. E chi manifestava dissenso veniva punito in tanti modi». Quando si parla del periodo tra il 1948 e il 1967 per gran parte degli israeliani, e non solo loro, si fa riferimento ad uno Stato di Israele unito, semplice, impegnato esclusivamente a garantirsi la sopravvivenza. Una sorta di Prima Repubblica moralmente armonica che, sostengono molti, avrebbe avuto fine con l'occupazione di Cisgiordania e Gaza, «corruttrice» dei valori di una società «innocente». La storiografia israeliana recente ha spazzato via questo velo di purezza steso per decenni sui primi venti anni di vita del paese, rivelando, fra le altre cose, la condizione della minoranza palestinese in quegli anni. E nessuno meglio di Emil Habibi, lo scrittore e giornalista scomparso nel 1996, ha saputo raccontare con amara ironia, il quel romanzo geniale che è «Il Pessottimista», la condizione di un arabo in Israele. Un contributo decisivo in questa direzione è stato dato due anni fa da Shira Robinson con il suo «Cittadini occupati in uno Stato liberale: i palestinesi di Israele» (Stanford University). Come Abu Maher di Mekker, altri anziani arabi israeliani ora hanno voglia di raccontare quegli anni, pur nascondendo ancora la loro vera identità. La paura non è scomparsa. Abu Alaa del villaggio di Tirat Haifa, (oggi Tira Carmel, alle porte di Haifa), nel 1948 aveva 17 anni. «Fuggimmo quando la milizia ebraica aprì il fuoco su Haifa, ma non per mare come fecero tanti ma verso la Giordania e la Siria» ricorda Abu Alaa. «I miei fratelli ed io alla fine del 1948 e nei primi mesi del 1949 tornammo più volte, approfittando della mancanza delle barriere di confine, per vedere le nostre terre e la nostra casa. Poi, una notte, fummo scoperti dalla polizia. I miei fratelli riuscirono a fuggire, io in preda al panico venni arrestato». Abu Alaa in carcere rimase per quasi sei mesi, accusato di essere entrato «illegalmente» nella terra dove era nato e cresciuto e dove la sua famiglia aveva vissuto per generazioni. «Avevo visto come era la vita nei campi profughi e quindi decisi di rimanere ad Haifa anche se la mia famiglia era in Siria - prosegue l'anziano - in prigione un collaborazionista mi offrì un permesso di soggiorno rinnovabile, in cambio avrei dovuto lavorare la sua terra senza compenso. Così di giorno zappavo per quell'uomo e di sera lavavo piatti e spazzavo pavimenti per gli immigrati ebrei che arrivavano dall'Europa. Ho sofferto per la fame e per il dispiacere. La mia casa era lì, ancora in piedi, ma non potevo tornarci». Abu Masih, 79 anni, un palestinese cattolico di Haifa, ha vissuto per lungo tempo in una tenda. «A causa della guerra scappai con i miei genitori in un villaggio vicino - racconta con un filo di voce - le autorità israeliane ci presero la casa, dissero che era vuota e quindi la sua proprietà era passata allo Stato. Eppure noi eravano di nuovo ad Haifa, spiegammo che ci eravano allontanati solo per qualche mese. In un attimo perdemmo tutto e per mangiare abbiamo dovuto fare ogni lavoro, senza fiatare. Volevamo rimanere nella nostra terra e lo shabak ci obbligò a collaborare. Ho taciuto per tanti anni, per la vergogna, ma ora la mia famiglia e il mondo devono sapere la verità, devono sapere cosa abbiamo sofferto».
Per inviare una e-mail alla redazione del Manifesto cliccare sul link sottostante