"Boicottare è una parola terribile" intervista allo scrittore israeliano Aharon Appelfeld
Testata: La Stampa Data: 04 maggio 2008 Pagina: 17 Autore: Alain Elkann Titolo: «La cultura non può essere boicottata»
Da La STAMPA del 4 maggio 2008:
Lei, Aharon Appelfeld, è uno degli scrittori invitati alla Fiera del Libro di Torino. Che cosa pensa del boicottaggio minacciato da alcuni contro la presenza di Israele, Paese ospite? «Non amo il termine “boicottare”, bisogna usare piuttosto un’altra parola, “dialogo”. Boicottare è una parola terribile. Io sono uno scrittore e ogni scrittore è un umanista per natura perché scrive dei sentimenti degli esseri umani. Io sono uno scrittore che parla di ebrei e di arabi». Com’è vivere in Israele oggi? «Quando sono arrivato in Israele nel ’46 c’era tensione, nel ’48 c’è stata una guerra terribile. E da allora ci sono sempre stati periodi di tensione e periodi di guerra». Lei come si sente? «Talvolta ho la sensazione che niente possa cambiare, poi mi viene da pensare il contrario. Anche perché, in effetti, le cose sono cambiate con l’Egitto e con la Giordania. Mi domando perché non ci possa essere pace con i Palestinesi. Oscillo tra disperazione e speranza». E i suoi figli cosa pensano? «Sono simili a me. In certi giorni non hanno speranza, in altri guardano con fiducia al futuro. Il popolo israeliano è stanco di guerre. Basta, basta, basta». E i palestinesi? «Penso che una gran parte di loro vorrebbe una vita pacifica». E i terroristi? «E’ terribile pensare che siano sponsorizzati da tante istituzioni religiose, da predicatori religiosi. Ci sono certe madri che dicono: “ho tre figli e vorrei che fossero martiri”. Il terrorismo è orribile, è qualcosa che deve finire. Spero che finirà quando torneranno la secolarizzazione e il razionalismo, ma è ancora una lunga strada». C’è differenza tra essere ebreo e essere israeliano? «Essere israeliano è diverso dall’essere ebreo. E la gran parte degli israeliani sono ebrei. La mia prima identità è quella di essere ebreo. L’altra, è quella di israeliano, ho vissuto in questo Paese per 63 anni. E poi sono europeo, perché i miei genitori, i miei nonni erano europei e io mi porto dietro una tradizione europea. Quando sento qualcuno dire “non odio gli ebrei ma odio gli israeliani” penso sia un “camouflage” di antisemitismo». Che cosa significa trascorrere un’intera esistenza accanto al pericolo? «Sì, è vero che ho trascorso la vita accanto al pericolo ma sono orgoglioso di essere rimasto un umanista. Non odio gli altri, non parlo mai attraverso generalizzazioni. Continuo a restare legato all’individuo». Lei ha scritto quaranta libri, tra romanzi, saggi, pièce teatrali, sulla vita ebraica in Europa e Israele. E scrive sempre al caffè, con una penna, perché? «Perché mi piace stare tra la gente. Probabilmente, la ragione profonda è che da bambino, durante la seconda guerra mondiale, ero molto solo, circondato da gente ostile. In un caffè, invece, ci sono persone amichevoli, e io amo essere circondato da persone amiche». Ha molti amici scrittori? «Sì, tanti scrittori israeliani, Amos Oz è stato mio studente all’università, David Grossman è mio vicino di casa, Yehoshua studiava con me. Io mi sento sono un po’ diverso da loro, perché ho due tradizioni, quella ebraica e quella europea. Sono stato, e sono, amico anche di grandi scrittori ebrei e americani, come Malamud, Saul Bellow, Philip Roth...». Ma che cosa significa essere ebreo? «Gli ebrei della mia generazione, che sono nati in un luogo, e poi sono stati espulsi e mandati a vivere in altri Paesi, posseggono varie lingue e varie identità che sono tra loro in contraddizione. Gli ebrei sono sensibili e nervosi. E’ interessante che quando Proust osserva gli ebrei “assimilati" dice che non sono mai sicuri del loro posto, non sono mai sicuri di essere accettati. E poi amo molto l’aristocrazia spirituale degli ebrei». Che cosa intende per aristocrazia spirituale? «Per pensatori come Levinas, Freud, Wittgenstein, Proust, Kafka, Bergson... l’ebraismo è l’essenza del loro essere. E io li amo, perché sono stati i creatori della modernità. Aristocrazia spirituale vuole dire che non occuparsi solo di sé stessi e dei propri bisogni, ma appartenere al mondo. I miei genitori si sentivano più europei che ebrei. E’ il sentimento di appartenere a tutto il mondo, qualcosa che è al di sopra di un sentimento tribale. Non si può dire che Kafka sia uno scrittore ceco o uno scrittore ebreo. Kafka è tutta la complessità dell’Europa. E lo stesso si può dire di Primo Levi. Era ebreo, soffriva come ebreo, ma è soprattutto un simbolo dell’Europa. Io sono molto fiero di appartenere a quella bellissima catena di intellettuali». Lei è israeliano, vive e scrive a Gerusalemme. Non ha nostalgia dell’Europa? «Nostalgia non è la parola giusta. La mia gioventù europea non fu certo felice, ma mi sento di appartenere all’Europa».
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