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Il Foglio Rassegna Stampa
04.05.2008 La rinascita dell'ebraico
colloquio con lo scrittore Meir Shalev,che sarà alla Fiera del libro di Torino

Testata: Il Foglio
Data: 04 maggio 2008
Pagina: 3
Autore: la redazione
Titolo: «Meir Shalev ci racconta il miracolo della rinascita dell’ebraico»
Da Il FOGLIO del 4 maggio 2008

Gerusalemme. Meir Shalev è nato due mesi dopo lo stato d’Israele, ma se entrassero ora dalla porta re Davide o Gesù Cristo, dice lui, potrebbe parlare con loro in ebraico. Oggi, invece, Giulio Cesare non capirebbe una parola d’italiano. “E questo libro, la Bibbia – spiega prendendo da uno scaffale un volume tascabile lo scrittore che l’11 maggio sarà alla fiera del libro di Torino dedicata ai 60 anni d’Israele – lo posso leggere usando la mia lingua madre”. Shalev è tra i più celebri scrittori contemporanei israeliani. Nel suo ultimo romanzo, “Il ragazzo e la colomba” (Frassinelli), s’incrociano due piani temporali: Israele oggi e Israele durante il conflitto che seguì la sua nascita. Suo padre, Yitzchak, era un noto poeta. Racconta di sua madre, incinta a Gerusalemme durante i combattimenti tra arabi e israeliani. “Mancavano acqua e medicine. Il fratello una notte la fece salire a bordo di una jeep, guidò su strade sterrate attraverso le colline e la fece scendere solo a Tel Aviv”. Lei proseguì verso nord, per Nahalal, dove Shalev è nato, nel primo moshav d’Israele, una comunità agricola fondata nel 1921 da un gruppo di ebrei immigrati all’inizio del XX secolo. Sul muro del suo ufficio di Gerusalemme, nella redazione del quotidiano Yedioth Ahronoth, c’è la foto aerea del villaggio di Nahalal. Le casette basse dal tetto rosso sorgono sul ciglio di una strada bianca e circolare, tutte alla stessa distanza dal centro, dove sono gli edifici pubblici: originale trovata del sionismo socialista. I nonni di Shalev erano immigrati russi. Il giorno in cui misero piede in Palestina smisero di parlare russo e abbandonarono per sempre lo yiddish, “la lingua dell’esilio”: dallo sbarco in avanti usarono soltanto l’ebraico. “La rinascita dell’ebraico è per noi la conquista numero uno dopo la fondazione dello stato d’Israele. L’obiettivo del sionismo era creare uno stato per gli ebrei. L’ebraico era un obiettivo ma anche un mezzo”. Si può parlare di una conquista senza precedenti nella storia – sostiene Shalev – perché per duemila anni l’ebraico è stato in coma. Era la lingua usata dagli ebrei di tutto il mondo per le cerimonie religiose, i riti, i matrimoni e i funerali. Oppure, se un rabbino in Polonia voleva scrivere una lettera a un collega in Marocco, lo faceva in ebraico, l’idioma comune. “La rinascita della lingua parlata è stata un miracolo: il processo è iniziato soltanto un centinaio di anni fa e oggi l’ebraico è usato a casa, per strada, al mercato, in televisione. Ha creato un senso d’appartenenza. Il sionismo ha fatto rivivere la lingua per dare forma all’identità”. Il fondatore dell’ebraico moderno è Eliezer Ben-Yehuda, padre della rinascita della lingua parlata avvenuta tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando l’uomo arrivò in Palestina con il proposito di far rivivere l’idioma. I più religiosi s’opposero all’operazione: impossibile, sostenevano, usare la lingua di Dio per la triviale quotidianità. Erano scettici anche certi studiosi, che vedevano nell’ebraico un idioma privo del vocabolario della modernità con cui si esprimono tecnica e scienza. Proponevano d’usare l’inglese, la lingua del mandato britannico sulla Palestina. Ben-Yehuda creò un nuovo vocabolario per adattare l’ebraico dei testi sacri alla vita di tutti i giorni. “Quando scrivo posso usare un’espressione biblica e un termine di slang. E’ la stessa lingua e tutti possono capire entrambi i registri”. Se Israele oggi fosse distrutto – dice lo scrittore – l’ebraico si perderebbe per sempre. “E’ legato alla terra” e alla costituzione dell’identità israeliana.

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