Storie di italiani in Israele un reportage a pochi giorni dall'anniversario della Dichiarazione d'indipendenza
Testata: Avvenire Data: 01 maggio 2008 Pagina: 3 Autore: Giorgio Bernardelli Titolo: «Olim, gli italiani che scelgono Israele»
Da AVVENIRE del 1 maggio 2008, un articolo di Giorgio Bernardelli sugli ebrei italiani olim ,che hanno compiutol'aliyah, la "salita" in Israele. Ecco il testo:
Sara e Andrea sono arrivati l’anno scorso. E adesso, a Gerusalemme, sono alle prese con gli orari (non sempre canonici) del piccolo Dov, nato in Terra d’Israele. Sharon, invece, nonostante i suoi 25 anni, è già una veterana: dopo avere finito il liceo a Milano, si è iscritta alla Hebrew University. Ci è arrivata il giorno prima dell’attentato suicida che, nel luglio 2002, sconvolse proprio questo ateneo. Ha comunque scelto di specializzarsi in studi islamici. E adesso, senza rinunciare a un millimetro della sua identità israeliana, le piacerebbe andare a vivere un po’ in Egitto. «Per capire dall’interno il mondo arabo», spiega. Storie di italiani di Israele. Storie di giovani cresciuti nelle nostre comunità ebraiche e che hanno deciso di diventare olim, cioè di andare a vivere nel Paese che tra qualche giorno festeggerà i sessant’anni anni dalla sua fondazione. Cadrà l’8 maggio, quest’anno, lo Yom Haazmauth, l’anniversario della Dichiarazione di indipendenza letta nel 1948 dal padre della patria, David Ben Gurion. Una data che, come ogni cosa che riguarda Israele, in Italia ha già dato la stura alle solite barricate ideologiche. A quel prisma che ci porta a leggere tutto ciò che accade a Gerusalemme a partire dal conflitto con i palestinesi. Invece non si può capire davvero Israele se non si comincia dalle sue storie. Ad esempio da quelle di una manciata di giovani che, ancora nell’Italia degli anni Duemila, ha scelto di lasciare tutto per andare a vivere a Gerusalemme. Nonostante i rigurgiti di antisemitismo, vecchio o nuovo che sia, non si può certo dire che il nostro sia oggi un Paese a rischio per un ebreo. L’ideale socialisteggiante del kibbutz, poi, non ha più una grande presa nemmeno tra gli israeliani. Che cosa li spinge, allora, a partire? «Venire in Israele è sempre stata una delle poche certezze fin dai tempi dell’università, quando l’ebraismo è diventato nella mia vita una scelta consapevole », risponde Sara, la mamma di Dov, che ha trent’anni, una laurea in filosofia a Pisa e un’esperienza importante alle spalle in Italia nelle fila del movimento ebraico riformato. Racconta del suo primo viaggio in Israele, compiuto tre anni fa. «Mi sentivo come un bambino che ha appena imparato a camminare e si stupisce di farlo finalmente da solo – spiega –. Ho provato la sensazione che è possibile, che questo posto esiste e che adesso ci sono anch’io ». Vivendoci, però, anche la percezione di Israele cambia. «Prima di venire – continua Sara – questo Paese era l’ assicurazione sulla vita, un rifugio per qualsiasi momento di difficoltà. Dopo la prima visita era già diventato il posto dove avrei voluto vivere. Adesso quest’idea ha preso più sostanza, attraverso tante esperienze quotidiane. Stando qui, ad esempio, capisci che oltre ai grandi problemi politici internazionali, sui quali dell’estero ti eri sempre focalizzata, devi comunque vivere e mangiare tutti i giorni. E che esistono problemi degni della stessa attenzione delle notizie che riempiono i titoli dei giornali fuori da Israele. Penso ad esempio al dibattito sul sistema scolastico». La questione del conflitto, però, ha avuto a che fare con la scelta di Sharon. «Al liceo, a Milano, non ero una di quelle persone che parlano sempre di Israele – racconta –. Nonostante qui vivessero già due mie sorelle, di venirci non ci pensavo proprio ». Poi, nel 2000, è scoppiata la seconda Intifada. E per Sharon qualcosa è cambiato. «Si parlava tanto di Medio Oriente, in maniera anche violenta – ricorda –. Allora, a diciassette anni, mi sono messa a leggere, a studiare tutto quello che trovavo. Con un amico andavamo nelle scuole dove c’erano le occupazioni a presentare il nostro punto di vista e ne uscivamo scossi. Scegliere Gerusalemme per l’università è stata la conseguenza della mia voglia di capire». Stessa provenienza, Milano, stesso passaggio per la Hebrew University per Claudia, anche lei in Israele ormai da qualche anno. «È innegabile che questo Paese rappresenti una parte essenziale del percorso identitario di ogni ebreo – spiega –. Ma lo è in modo paradossale: da un lato Israele è un concentrato di ebraismo, una specie di macro-comunità. Ma dall’altra per noi rappresenta anche una sorta di uscita dal 'ghetto', dall’esistenza all’interno di un piccolo nucleo sociale. Le prime volte che sono venuta mi ha colpito proprio questa sensazione di trovarmi in una comunità molto allargata. Insieme alla presenza di tanti giovani e a una certa atmosfera anti-borghese, basata sul fare pittosto che sull’avere ». Su un aspetto, però, Claudia ci tiene a mettere l’accento. «Non sono stata mai sionista – racconta –. Né sono mai stata anti-sionista. Non ho mai pensato che tutti gli ebrei dovessero venire a vivere in Israele. Mi ritrovo piuttosto nelle posizioni di Yeshayahu Leibowitz, che vedeva nello Stato un mezzo e non un valore. Come ebrea osservante, poi, sono inorridita dagli sviluppi del sionismo religioso, che vede nel ritorno alla terra d’Israele la manifestazione di un processo dove il nome di Dio compare troppe volte. È un’impostazione con due conseguenze inaccettabili: porta all’idolatria della terra e mina alla radice ogni discorso democratico». Giovani con storie e idee tra loro diverse, perché anche questo è Israele. Giovani comunque con motivazioni forti. Più simili ai primi sionisti italiani che al gruppo che arrivò qui subito dopo la terribile esperienza della Shoah? «Può darsi - risponde David Cassuto, in Israele da sessant’anni e già vicesindaco di Gerusalemme quando l’attuale premier Olmert era alla guida dell’amministrazione municipale –. Di certo molti di questi ragazzi vedono nella loro venuta in Israele il compimento di una vocazione. Portano con sé una profonda carica di idealismo. E per una società in cui, soprattutto tra i giovani, il cinismo è in crescita, sono una ricchezza non da poco». C’è anche un pezzo d’Italia nel futuro di Israele.
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