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Il Manifesto Rassegna Stampa
30.04.2008 Il quotidiano comunista elogia Jimmy Carter
rompere l'isolamento dei nazisti islamici di Hamas per Tommaso Di Francesco è una buona azione

Testata: Il Manifesto
Data: 30 aprile 2008
Pagina: 9
Autore: Tommaso Di Francesco
Titolo: «La lezione mediorientale di Jimmy Carter»
Tommaso Di Francesco sul MANIFESTO del 30 aprile 2008 elogia Carter per l'incontro con Hamas.
Al di là della retorica, l'articolo di Di Francesco ha il merito di chiarire che l'effetto della missione dell'ex presidente americano ha avuto l'effetto di ridurre l'isolamento di Hamas, aiutandone la politica. La "pace" non c'entra nulla.
Chi sostiene gli islamisti genocidi di Hamas lo dica apertamente.

L'articolo di Di Francesco si conclude con l'esecrazione della decisione dell'Unione Europea di dichiarare Hamas un'organizzazione terroristica, e del ruolo avuto dal probabile futuro ministro degli Esteri italiano Franco Frattini in quella scelta.

Per il quotidiano comunista Hamas è una forza democratica, e forse anche un'organizzazione caritatevole.

Ecco il testo:

Le contrapposte reazioni internazionali all'iniziativa dell'ex presidente americano Jimmy Carter nei Territori occupati palestinesi, l'attenzione del mondo arabo e musulmano, delineano un avvenimento che in Italia e in Europa è stato oscurato.
Ci troviamo invece di fronte ad una svolta diplomatica unica e originale, la sola che può ormai aprire spiragli nella notte fonda mediorientale. Jimmy Carter, premio Nobel per la pace dopo essere stato l'artefice degli storici accordi di Camp David del '78 tra Israele ed Egitto, ha deliberatamente scelto di riprendere a tessere il negoziato di pace andando direttamente a parlare con Hamas, il movimento nazionale e integralista palestinese che pure rifiuta ogni mediazione con Israle paese occupante. Una iniziativa nella scia dell'uscita nel 2006 di un suo libro che accusa Israele non solo di non volere la pace ma, in alternativa, di preferire un immenso regime di apartheid contro la popolazione palestinese. Carter ha praticato in buona sostanza quello che annunciavano tutti a parole - anche Massimo D'Alema - ma che nessuno metteva in atto. Ma soprattutto ha portato a termine una diplomazia spregiudicata richiesta anche dalla maggior parte degli stessi israeliani, stufi di essere sempre sotto tiro in una guerra infinita e strumento di leader incapaci di aprire una stagione fi pace. Non doveva ottenere certo il «riconoscimento d'Israele» come sembrano rimproverare a Carter quelli che denunciano il suo presunto «fallimento». Come Bernard-Henri Levy sconvolto da: «l'inutile spettacolare abbraccio a Ramallah con Nasser Shaez, rappresentante di Hamas» e addirittura dalla corona di fiori che l'ex presidente americano ha «devotamente deposta sulla tomba di Yasser Arafat». No, voleva sdoganare il movimento che a torto è considerato il nemico numero uno, ma che nel gennaio 2006 ha semplicemente vinto le elezioni palestinesi, sconfiggendo Al Fatah considerata fallimentare nei rapporti con Israele e corrotta. E che, invece di essere aiutato a gestire come primo ministro la crisi palestinese e il governo di tutti, da quel momento in poi è stato boicottato addirittura con sanzioni internazionali. Alla faccia della democrazia. Bisogna riconoscere che Carter c'è riuscito. Almeno a vedere le parole di fuoco del governo israeliano che in questi giorni, per bocca dell'ambasciatore all'Onu Dan Gillerman, lo ha deifinito «un fanatico», dopo aver abbandonato il premio Nobel della pace in visita in Israele e nei Territori occupati tra i posti di blocco, senza scorta come un ospite indesiderato; oppure la denuncia esplicita della sua missione da parte del segretario di stato Usa Condoleezza Rice che ha ricordato come «non ha rappresentato gli Stati uniti»; e anche a giudicare dalle accuse di quello che chiamiamo Al Qaeda che ha tuonato contro la disponibilità del movimento integralista ad incontrarlo. Senza dimenticare che il fantasma di Hamas entra perfino nella campagna delle presidenziali americane, con il repubblicano John McCain che accusa Obama di «essere il candidato preferito da Hamas».
A ben guardare il risultato finale della sua missione era quello di rompere l'isolamento della questione palestinese, ridotta a routine di bollettini di morti, non solo a tirar fuori da un angolo Hamas. Giacché, proprio mentre Bush si dice convinto che esista ancora una possibilità per lo stato di Palestina, Carter è andato a ricordare che le promesse di Annapolis sono già fallite. Perché il nodo della pace che non c'è in Medio Oriente, non deriva da Hamas ma da Israele, dalla sua scelta deliberata di apartheid. «Il problema non è Hamas, ma è il fatto che mentre l'Anp discute con il governo israeliano quello da un'altra parte allarga gli insediamenti»: sono le tristi parole di Salam Fayyad, il premier dell'Anp nominato da Abu Mazen al posto di Ismail Haniye dopo il colpo di mano di Hamas nella Striscia di Gaza. Che, come ormai raccontano tutte le inchieste internazionali e la stessa intelligence Usa, anticipò di ore un eguale colpo di mano di Al Fatah nella Striscia. Che la questione palestinese sia finita nelle mani dell'intelligence Usa non è dietrologia ma parte degli acclamati e fallimentari trattati della Road map. La missione di Carter ricorda a tutti qual è la situazione reale sul campo: l'unilaterale ritiro, contro la volontà palestinese, solo da Gaza ha messo quel territorio sempre di più nelle mani dell'esercito israeliano che lo controlla e bombarda a piacimento, al punto che, chiusa nella morsa dei carri armati e senza contatti esterni, rischia la radicalizzazione estrema e il disastro umanitario perché le stesse Nazioni unite non sono più in grado di distribuire aiuti alimentari per un popolo contadino costretto alla fame sulla propria terra da dove le colture, ripetutamente, vengono sradicate dai tank degli occupanti. Mentre l'occupazione militare continua in Cisgiordania e a Gerusalemme est, il Muro di Sharon si allunga, le colonie crescono al punto che chi volesse onestamente vedere che resta della Palestina, scoprirebbe un pulviscolo di appezzamenti senza la continuità territoriale necessaria per essere Stato. Intanto carceri e campi di concentramento sono pieni di diecimila prigionieri politici palestinesi, aumentano i campi profughi e i tre milioni e mezzo sparsi per il mondo sono figli di nessuno. Mentre sentiamo sempre più parlare di nucleare iraniano adesso c'è l'accanimento contro il presunto nucleare siriano, ma si tace sulle realissime testate atomiche israeliane.
Non è vero che non ha avuto risultati Jimmy Carter, o che sia stato smentito da Hamas stessa. Attraverso di lui, arrivato fino a Damasco per incontrare il leader in esilioKhaled Meshaal, è giunta al mondo una nuova disponibilità alla tregua - purtroppo presa in queste ore a cannonate dall'esercito israeliano. Che chiama in causa ancora una volta il rispetto delle Risoluzioni dell'Onu che impongono a Israele, da 40 anni inascoltate, di ritirarsi dai Territori palestinesi occupati e da Gerusalemme est «entro confini del '67»: una disponibilità implicita «a riconoscere» Israele e a rinunciare alla «Palestina storica» come da parole d'ordine costitutive di Hamas, non a caso aiutato a nascere all'inizio proprio da Israele per contrastare gli accordi di pace con cui Arafat assumeva solo il 22% di quel territorio, ancora occupato, per edificare lostato palestinese.
Viene dunque da Jimmy Carter una lezione di coraggio. E un messaggio a noi, a poche ore dall'annunciata nomina di Franco Frattini a ministro degli esteri della destra al governo in Italia, la peggiore mai arrivata al potere nel Belpaese. È stato infatti proprio Frattini durante il semestre nero della presidenza italiana della Ue nel 2003 a far inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroriste.

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