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Informazione Corretta Rassegna Stampa
27.04.2008 Il quotidiano torinese pubblica bufale sulla religione ebraica
e censura il Rabbino capo di Torino che gliele fa (educatamente) notare

Testata: Informazione Corretta
Data: 27 aprile 2008
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Il quotidiano torinese pubblica bufale sulla religione ebraica, e censura il Rabbino capo di Torino che gliele fa (educatamente) notare»

Il 20 Aprile scorso abbiamo pubblicato l'intervista a Gustavo Zagrebelsky di Farian Sabahi uscita sulla STAMPA nella stessa data (la riportiamo al fondo di questa pagina). In merito alle parole del prof. Zagrebeksky, il Rabbino Capo della Comunita ebraica di Torino, Alberto Moshe Somekh, ha scritto una lettera al quotidiano torinese, confutando quanto affermato dal prof. nella intervista alla Sabahi. Ma la sua lettera nè è stata pubblicata nè ha ricevuto altro genere di risposta. Conosciamo l'attitudine dei giornali italiani e come vengono gestite le pagine delle " lettere al direttore ", la regola sembra essere < mai una lettera che metta in discussione quanto viene pubblicato >. La STAMPA non fa eccezione. Il fatto è molto grave, sia che quelle parole le abbia dette veramente il prof. Zagrebelsky, sia che le abbia immaginate la giornalista, "esperta" in cose iraniane, sovente ospite delle nostre critiche per il suo atteggiamento < benevolo > nei confronti della dittatura dei mullah. Più grave di tutto, il silenzio della STAMPA.

Invitiamo i nostri lettori a scrivere al direttore Giulio Anselmi (lettere@lastampa.it), se ritiene corretto non rispondere ad un lettore quando segnala grossolani errori, dando per scontata la buona fede dovuta all'ignoranza di chi ha scritto il pezzo.

Ecco la lettera del Rabbino Capo di Torino:

Mi vengono segnalate le parole con cui il Prof. Gustavo Zagrebelsky, illustre costituzionalista e da sempre amico della ns. Comunità, commenta l’istituto del matrimonio ebraico in un’intervista a Farian Sabahi (“Vivere insieme nella diversità”) apparsa nell’inserto “Tutto Libri” a “La Stampa” del 19 aprile scorso.

Al professore si attribuisce la seguente affermazione: “…mi sono reso conto come siano ancora in vigore regole secondo cui il matrimonio consiste nella vendita della figlia, valutata in sicli come se fosse un cammello: la vendita è fatta a favore del marito, il contraente è la comunità ebraica e la donna è un puro oggetto”. Il professore si affretta poi a precisare che, rispetto ai rituali “la realtà è del tutto cambiata” e che il mondo ebraico ha finito per assimilarsi “entrando in contatto  con la civiltà cristiana dove la donna, con molta fatica, è emersa come soggetto paritario”.

 Forse è opportuno fornire qualche brevissima precisazione in materia, se non altro per rispetto del livello dell’interlocutore.

1) Lungi dall’essere un atto di compravendita fra esseri umani, il matrimonio è chiamato nella tradizione ebraica qiddushin, che significa “consacrazione”, alludendo a significati di ben più ampio respiro. Il termine non è semplicemente l’effetto di una supposta assimilazione alla cultura cristiana, ma è un concetto ebraico originario ed originale: mentre il principio cattolico di sacramento allude infatti ad un’unione indissolubile, quello ebraico di qiddushin non preclude alla coppia l’istituto del divorzio, anticipando da secoli una visione che molte democrazie occidentali hanno recepito solo in un’epoca relativamente molto recente.

2) Il padre non vende la figlia: l’illustre professore ha in mente probabilmente i versetti di Es. 21, 7 e segg. che parlano di un istituto particolare del diritto biblico che non c’entra con il matrimonio fra due persone adulte, libere e consenzienti.

3) La Comunità non c’entra nulla con il contratto nuziale.

4) Non esiste alcuna valutazione in sicli. Lo sposo consegna alla compagna un anello, uguale per tutti, e un documento scritto e firmato da due testimoni, nel quale si impegna a mantenerla sotto il profilo morale, economico e fisico, nonché a mettere da parte una cifra, uguale per tutte, a vantaggio di lei qualora dovesse rimanere vedova o decidessero di divorziare. L’assunto rabbinico è che “il marito deve amare la moglie come se stesso e onorarla più di se stesso”.

5) La donna non è puro oggetto. Al contrario, fin da antico il diritto rabbinico afferma che non si può celebrare il matrimonio in assenza del libero consenso di entrambi i nubendi. Lo si evince chiaramente dall’episodio biblico in cui il servo di Abramo va in cerca di una moglie per Isacco. Avendo individuato la ragazza, la madre e il fratello di Rebecca (non il padre!) sono costretti a rispondere alle insistenze del messo, che premeva per portare a termine la missione prendendola con sé: “Chiamiamo la ragazza e domandiamo il suo parere” (Gen. 24,57)!

 

Alberto Moshe Somekh

Rabbino Capo della Comunità ebraica di Torino. 

Ecco la pagina uscita su Informazione Corretta il 20 Aprile 2008: 

Spiace dover criticare sempre gli articoli di Farian Sabahi sulla STAMPA, ma nei suoi pezzi traspare sempre qualcosa di poco chiaro ( a voler essere gentili), sia che lo dica lei o che lo riporti in una intervista. Sull'ultimo numero di TUTTOLIBRI, uscito con la STAMPA del 19/04/2007, Gustavo Zagrebelsky si esprime ad un certo punto con una espressione stupefacente, in bocca ad una persona che dovrebbe avere conoscenze precise di ciò di cui parla. Dice Zagrebelsky, «Dal punto di vista dei principi l’ebraismo ha un approccio molto diseguale nei confronti delle donne. Recentemente nella mia famiglia abbiamo sperimentato un’unione ebraica e mi sono reso conto come siano ancora in vigore regole secondo cui il matrimonio consiste nella vendita della figlia, valutata in sicli come se fosse un cammello: la vendita è fatta a favore del marito, il contraente è la comunità ebraica e la donna è un puro oggetto. Questi sono ovviamente i rituali, la realtà è del tutto cambiata. Regole ancora in vigore, dice l'illustre intervistato, come si può verificare nel testo che segue. Vorremmo sapere se Zagrebelsky conferma oppure no.

Fedi e laicità A colloquio con Gustavo Zagrebelsky:
la società italiana di fronte all’immigrazione e all’Islam


“VIVERE INSIEME
NELLA DIVERSITÀ”

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FARIAN SABAHI
«L’accoglienza del Papa alla Casa Bianca non è disinteressata: gli Stati Uniti sono in campagna elettorale ed è evidente l’interesse ad ospitare il Pontefice che ha elogiato il modo di vivere degli americani. Questo complimento stride però con la decisione della Corte suprema che conferma la costituzionalità della pena di morte e respinge i dubbi sull’iniezione letale»: così - al convegno «Laicità della ragione, razionalità della fede?» svoltosi questa settimana a Torino - ha commentato il viaggio di Ratzinger negli Stati Uniti Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale e oggi ordinario di Diritto costituzionale e Giustizia costituzionale dell’Università di Torino, autore da ultimo di Contro l’etica della verità (Laterza).
Di questi tempi religione e politica sono un’accoppiata forte e non solo negli Usa. Ma il successo non è sempre assicurato: come ha giudicato la candidatura di Giuliano Ferrara con la lista «aborto no grazie?»
«Non definirei Ferrara un cittadino cattolico quanto un non credente - o un ateo - che opera in conformità con quello che dice la Chiesa in cerca di una identificazione. Nella Storia ci sono casi di uso della politica da parte della religione e, come nel caso di Ferrara, di uso della religione da parte della politica».
Cosa pensa della possibilità di inserire le radici giudaico-cristiane nella Costituzione dell’Unione Europea?
«Insistere su questi elementi identitari non è produttivo, sono un insulto perché in Europa il cristianesimo si è formato contro l’ebraismo. Molte altre radici hanno dato connotazione al nostro continente: isolarne alcune vuol dire fare torto ad altre. Le radici cristiane sono in linea con l’idea che le nostre società si appoggiano su un fondamento morale offerto dal Cristianesimo a cui per ragioni politiche - di vita nella polis - occorre dare un ruolo privilegiato. E la laicità presuppone non l’esclusione delle fedi dalla dimensione pubblica ma un’uguale lontananza (o vicinanza) da parte dell’autorità pubblica».
Per alcuni Islam e democrazia sarebbero inconciliabili perché l’Islam non garantisce uguali diritti alle donne e alle minoranze religiose. Cristianesimo ed ebraismo sono invece più rispettosi dei diritti di tutti?
«Dal punto di vista dei principi l’ebraismo ha un approccio molto diseguale nei confronti delle donne. Recentemente nella mia famiglia abbiamo sperimentato un’unione ebraica e mi sono reso conto come siano ancora in vigore regole secondo cui il matrimonio consiste nella vendita della figlia, valutata in sicli come se fosse un cammello: la vendita è fatta a favore del marito, il contraente è la comunità ebraica e la donna è un puro oggetto. Questi sono ovviamente i rituali, la realtà è del tutto cambiata. Ma è un esempio significativo di come il mondo ebraico si sia ben assimilato entrando in contatto con la civiltà cristiana dove la donna, con molta fatica, è emersa come soggetto paritario. Quello che possiamo auspicare per l’Islam in Europa è che, grazie a spinte e rivendicazioni interne, si mettano in atto i cambiamenti che nel Cristianesimo hanno richiesto secoli».
L’Islam è ormai in Europa: come si può affrontare il problema dell’immigrazione?
«Integrarsi in una società maggioritaria vuol dire adeguarsi. L’integrazione potrebbe avere senso se i gruppi fossero - per forza, numero e cultura - equivalenti, nel qual caso il risultato sarebbe qualcosa di nuovo a cui tutti hanno contribuito. Ma questo non può avvenire in una società consolidata come la nostra e la soluzione è l’interazione intesa come riconoscimento delle diversità: viviamo insieme e ognuno può fecondare l’altro nel massimo rispetto reciproco».
A quali condizioni?
«Rifiutando la violenza tra le diverse comunità e al loro interno. E qui dobbiamo porci degli interrogativi: la poligamia porta con sé una forma di violenza? E il velo? È un’imposizione o un segno di appartenenza e quindi una valorizzazione? Che cosa sia violenza è dunque da discutere, tenendo presente che la violenza in un contesto può non essere tale altrove».
Quale soluzione si può trovare alla sottomissione della donna all’uomo, sancita da una lettura radicale dell’Islam?
«Per superare le forme di oppressione non bisogna pensare a soluzioni giuridiche ma mettere a disposizione delle immigrate i mezzi culturali con cui possano trovare la forza per modificare i rapporti. Sono processi lunghi e le scorciatoie vanno evitate perché rischiano di creare ulteriore violenza».


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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