L'avventura di Israele la testimonianza di Vittorio Dan Segre
Testata: Il Foglio Data: 25 aprile 2008 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Sessant'anni fa c'ero anch'io»
Da Il FOGLIO del 25 aprile 2008
Una volta raggiunto con una barca il porticciolo a Tel Aviv, costituito da un capannone per le merci e qualche sgabuzzino adibito a ufficio, Vittorio Dan Segre fu visitato da “un’infermiera piccola, brutta, con gli occhi mongoli e una stella di Davide ricamata in rosso sulla cresta inamidata della cuffia”. Non parlava una parola di ebraico, conosceva un po’ di francese e male l’inglese; indossava una giacca blu marino e pantaloni di flanella grigi, una camicia con polsini e colletto di lino bianco. Lo seguiva una grossa valigia, con i bordi in pelle foderata di seta. “Nella mia immaginazione io vedevo reparti di ‘arditi’ sionisti con corazze lucenti galoppare a bandiere spiegate alla conquista di Londra. Ma appena tornavo in me, i miei occhi cadevano sulle mosche che si abbeveravano alle gocce di gassosa colorata cadute spumeggianti fuori dai bicchieri”. Ride Segre, ripensando al suo incontro con Israele, quel “mondo nuovo, clandestino, complesso, brutale, ardente”, l’arrivo al kibbutz Givat Brenner fondato dal grande Enzo Sereni, “piccolo, grassoccio, miope, d’intelligenza vivissima e di cultura mostruosa, l’aria del maestro di scuola, un po’ impacciato nei modi di fare, permanentemente a disagio negli abiti, ricordava i ritratti di Silvio Pellico prigioniero allo Spielberg”. Segre amava sedersi sotto gli alberi che circondavano la tomba del fondatore della scuola Mikwe Israel, Karl Netter, il padre dell’agricoltura sionista. E’ nitidissimo il ricordo dell’acqua bruna e pastosa che facevano scorrere nella sabbia degli aranceti, mentre gli amici del kibbutz fantasticavano in polacco sulle foreste della Slesia. Emigrato in Palestina nel 1939, Vittorio Dan Segre ha combattuto durante la guerra d’Indipendenza del 1948, “per porre fine alla caccia gratuita all’ebreo”. E’ stato diplomatico israeliano fino al 1967, poi l’insegnamento a Oxford, il Mit e Stanford. Nel 1997 ha creato a Lugano l’Istituto di studi mediterranei. Nello stato ebraico Segre arrivò che aveva sedici anni per sfuggire alle leggi razziali. La Utet ha appena ripubblicato le sue “Metamorfosi di Israele” con una nuova parte dedicata al primo ministro Ehud Olmert. Segre lo presenterà alla Fiera del Libro di Torino. “Se dovessi definire il mio incontro con Israele direi che fu atroce”, ci racconta di ritorno da Tel Aviv. “Vi arrivai con una nave italiana appartenuta a mio zio, unico emigrante nel settembre 1939. E fui depositato in un porto di Tel Aviv, vicino a una spiaggia. Abbandonato alla ricerca di un ignoto kibbutz dove c’erano un mio ipotetico tutore con il colletto e la spilla sotto la cravatta, come si usava allora, un caldo poco piacevole e una grande valigia con le mie iniziali. Aspettando che succedesse qualcosa. Arrivò un autista di taxi, mi prese sotto la sua protezione”. Segre ha partecipato al conflitto dopo la spartizione della Palestina voluta dalle Nazioni Unite e rigettata dal mondo arabo. “Combattimenti a fuoco ne ho fatti pochi, il mio compito principale fu di creare la scuola di paracadutisti che non esisteva. Quando il governo accettò il progetto che gli sottomisi di formare una unità, con cinque ufficiali e due soldati, un ex commando inglese che era stato in azione contro Rommel e uno studente di filosofia che sarebbe diventato assistente di Karl Popper, Yosef Agassi, fummo spediti in Cecoslovacchia perché in Israele non c’erano paracaduti e se ci fossero stati non ci sarebbe stato spazio per lanciarsi senza cadere nelle linee nemiche. L’aereo che ci portava in Cecoslovacchia perdette un’ala e fui ricoverato in ospedale. Non ricordo dove, era da qualche parte nei Sudeti”. Segre ha intrattenuto rapporti con i principali protagonisti dell’epica israeliana, in parte li racconta nel libro “Il bottone di Molotov” (Corbaccio). “Ho conosciuto David Ben Gurion, quando si ritirò dalla politica andai a trovarlo a Sde Boker, mi diede una fotografia con dedica, è la più bella medaglia che possa avere. Si interessava molto a Gianbattista Vico, comprai le edizioni complete e gliele portai. Era un nanerottolo con una enorme testa, una capigliatura come alette sul cranio, gentilissimo, con due occhietti sprizzanti energia e ironia e una capacità oratoria che poteva essere distruttrice. E una capacità straordinaria di uscire dall’immediato per riflettere usando strumenti filosofici quasi di meditazione. Andò in Birmania a sottoporsi a esercizi di yoga”. C’era Moshe Dayan, il liberatore di Gerusalemme. “Era la personificazione dell’eroe, un uomo straordinario nel coraggio, negli istinti buoni e cattivi, aveva la sensibilità del soldato e del poeta. Mi occupai della sua visita a Parigi quando ricevette la legione d’onore. L’immagine di quest’uomo che comandava senza un occhio resta in me indelebile, sprigionava autorità dalla benda all’occhio”. Segre ha conosciuto anche Menachem Begin, il leggendario padrino della destra israeliana. “Era una persona compitissima, correttissima nel portamento e allo stesso tempo una mistura di realismo e di romanticismo che faceva della sua personalità qualcosa di carismatico. Anche più di Ben Gurion”. Ci fu l’occasione di frequentare l’Irgun, la formazione revisionista guidata da Begin. “Quando lasciai il reggimento di fucilieri palestinesi per passare all’intelligence britannico, dopo vari cambiamenti finii in una unità a Bari di paracadutisti speciali il cui compito era di andare dietro le linee tedesche. Era l’unità inglese parallela a quella dell’Agenzia ebraica di cui fece parte Hannah Senesh. Lì conobbi i membri dell’Irgun e uno dei capi del Lehi. Per molte settimane non venni arruolato in Israele perché considerato legato a queste fazioni ribelli. Ho un ricordo bello dell’Irgun, gente dura e pura, totale dedizione alla causa con qualche spiritato. Ricordo benissimo l’Altalena, la nave dell’Irgun con superstiti dell’Olocausto, compreso lo storico Saul Friedländer, accolta a fucilate dall’Haganà sotto il mio naso. Un momento tragico, ma Begin mise fine al rischio della guerra civile”. Veniamo all’anniversario. “Per me i sessant’anni di Israele sono soprattutto un momento di straordinaria contraddizione. Dopo tutti questi anni Israele non ha ancora frontiere, non ha una capitale riconosciuta, non ha costituzione, non ha nazionalità pur avendo una cittadinanza, ha un governo privo di prestigio, al tempo stesso una grande democrazia e una libertà di pensiero incredibile e un esempio mondiale di integrazione. E poi un’economia di tipo asiatico basata su una delle più sviluppate industrie high tech, ma senza risorse materiali, con una cultura vibrante in cui laicismo e religione esistono gridando ma senza uccidersi, dove si raccolgono nobel, un paese formato da sette milioni di persone e largo meno della Lombardia. Israele ha in mano la sicurezza e il futuro del mondo. I sessant’anni di Israele celebrano questa straordinaria creazione umana che non è soltanto il ritorno degli ebrei sulla scena politica, ma qualcosa di più importante per il mondo: il risveglio di un fossile. Le speranze e le ansie che un simile risveglio, un fossile cioè una civiltà che si credeva morta, rendono Israele qualcosa di attrattivo e pauroso. Israele è un’immensa opportunità come laboratorio di soluzioni”. Israele ha un rapporto intricato con la Shoah. “Il mio è un rapporto di colpa con l’Olocausto, è l’essere sopravvissuto, l’inspiegabile ragione di una vita lunga e piena di gioie familiari, politiche, culturali, senza avere una parte minima del merito e delle capacità intellettuali che avevano milioni di miei correligionari che furono ingoiati nella voragine della Seconda guerra mondiale. Già la domanda ‘perché sono nato?’ per un essere umano è grandissima. Si aggiunge nel mio caso ‘perché sono sopravvissuto?’. Nel rapporto fra Israele e la Shoah ci sono state confusioni e abusi, ma per me ci sono alcuni punti chiari. Israele non è il risultato della Shoah, distrusse le potenzialità dello stato ebraico tagliando le radici del movimento nazionale ebraico. Israele esisteva prima della Shoah, altrimenti non avrebbe potuto vincere la guerra del 1948. Poi la Shoah non è una questione ebraica, durante la guerra è l’Europa a essere morta, il popolo ebraico invece vive. Terzo, chi non ha vissuto la Shoah, chi non ne è stato toccato, non ha diritto di parlare. E questo vale per molti giudici della Shoah e per il silenzio rispettoso di fronte ai superstiti. Chi esce dall’inferno, come dal paradiso, non ha parole adatte per esprimerlo. Bisogna rispettare il rombo di silenzio dei superstiti”. Israele festeggia l’anniversario sotto minaccia atomica. “Lo dicono tutti, lo sterminio è una promessa, non più una minaccia. Ci sarebbe la corsa a distruggerlo se si potesse realizzare davvero. Ma è il mondo arabo islamico quello che vive sotto il pericolo dell’annientamento, non Israele. Non parlo solo di capacità di reagire, Israele come popolo è un fiume carsico che nei millenni scompare per rifiorire più forte del passato, fra le rovine di imperi che ne hanno voluto la distruzione. Penso a Egitto, Grecia, Roma, Spagna, Germania, Russia, l’Inghilterra che ha tradito l’impegno preso con gli ebrei, con il risultato di aver abbandonato il suo più fedele alleato esterno in favore dei suoi più decisi nemici”. E’ sempre facile parlare della distruzione di Israele secondo Segre. “E’ anche il tema dell’articolo dell’Economist in cui cerca di fare un bilancio onesto ma in definitiva fallimentare. Il Times di Londra nel 1876, per il primo centenario degli Stati Uniti, scrisse che una sola cosa era certa, l’America non sarebbe arrivata a celebrare il secondo centenario di vita. Nel 1911, per i cinquant’anni dell’unità d’Italia, la stampa di Vienna scriveva che l’Italia non avrebbe festeggiato il primo secolo di vita unitaria. Le previsioni sono labili, per farne sulla rinascita politica di Israele bisognerebbe essere più guardinghi. La miglior descrizione nel sessantesimo anniversario l’ha data a Haaretz il ministro francese e figlia di immigrati Fadela Amara. E’ venuta in Israele per dire che lì si sente a casa, perché per strada incontra gente che ha ogni colore della pelle. Quando in Francia uno ha la pelle bianca, gli occhi blu e si chiama François, la gente lo guarda in un certo modo. Se si chiama Fatima ed è scura, viene guardata sempre così e così. In Israele ogni razza non si sorprende della diversità. E’ il futuro del mondo. Avviene con decine di popolazioni asiatiche che per tradizione antica e decisione moderna vogliono diventare ebraiche. Arrivano a migliaia in Israele, il baricentro si sta spostando sia all’interno che all’esterno da occidente a oriente. L’energia umana nasce d’Israele dall’immigrazione e le future risorse arriveranno da est, l’immigrazione asiatica e africana. Vogliono essere ebrei, a differenza del movimento sionista che era una fuga dal giudaismo”. Lo scrittore Yoram Kaniuk ha polemizzato con la decisione di lasciare che Elie Wiesel porti la fiaccola durante la giornata della memoria (“un tailandese non ebreo figlio di emigranti ed entrato nell’esercito da una sola settimana ha più diritto ad accendere la fiaccola di un ebreo non israeliano”). “E’ lo scontro eterno dell’identità non definita del popolo ebraico”, dice Segre. “Il dibattito nasce dal fatto che non si sa se Israele sia uno stato degli ebrei, come voleva il movimento sionista, o uno stato ebraico come oggi vogliono i dirigenti laici israeliani, i quali si rendono conto che la legittimità dello stato non può basarsi su una maggioranza di voti mutevoli delle Nazioni Unite, ma su 4.000 anni di legame proficuo per l’umanità e di storia del popolo d’Israele. La polemica fra Wiesel e Kaniuk nasce dal fatto che Israele non ha ancora definito lo stato, tanto che non ha ancora una costituzione, deve decidere se è quella fatta dagli uomini o se è legittimata dall’ebraismo. Il sionismo ha voluto rompere con la tradizione rabbinica, ma si è accorto che non aveva sufficienti richiami. E’ molto bello che questo dibattito fra laicità e religione, che ha coperto di sangue l’Europa, ancora oggi sia una questione aperta. Lo si vede dalle polemiche con il Vaticano. E’ anche l’espressione della ragion d’essere del monoteismo aristocratico ebraico. Il diritto al dubbio, la base della libertà e il senso profondo del giudaismo, la totale sottomissione alla volontà divina ma anche il diritto a litigare con il proprio Dio”. Secondo Segre, oggi Israele rivive una sorta di 1955. “A me pare che siamo tornati a quella situazione, forse è dovuto al fatto che partecipai ai negoziati che portarono alla guerra del Sinai. Come allora, abbiamo una continua infiltrazione alle frontiere, allora si chiamavano feddayn e arrivavano a piedi, oggi arrivano a piedi e con i missili. L’esercito non è in grado di fermare le infiltrazioni. Come allora c’è un senso di isolamento e un tam tam dei media e dei nemici sul pericolo della distruzione. Ci sono i termini per una nuova collusione, bisogna vedere con chi Israele si alleerà. Non c’è più l’Urss come nemico, c’è una forza nucleare molto forte d’Israele e come ai tempi di Nasser c’è un leader del mondo islamico, stavolta iraniano, molto di più che nel 1955 giustifica una reazione israeliana. Quindi siamo senza dubbio alla vigilia di qualcosa che cambierà radicalmente la situazione di accerchiamento insopportabile, inaccettabile da parte di nessun paese sovrano. Dopo i festeggiamenti per i sessant’anni ci saranno dei cambiamenti”. Quanto a Hamas, Segre sostiene che siano “burattini agitati dall’esterno, non hanno possibilità autonoma verso la pace né verso la guerra, se non su ordine superiore. Parlo di Iran, Siria e Hezbollah. E’ sempre stato così, il rapporto fra Israele e il mondo arabo-islamico”. Ehud Olmert è uno dei leader israeliani più disprezzati, ma se lo si deve giudicare dalla capacità di mantenersi al potere, allora è fra i più grandi. “Ha preso decisioni storiche, penso alla guerra libanese, ma soprattutto all’attacco alla base atomica siriana. Quando lo fece Begin nel 1981 fu condannato da tutti, anche da Shimon Peres, oggi nessuno si è levato contro l’operazione straordinaria in Siria. Dalle elezioni del 2009, a cui sono certo Olmert arriverà nonostante gli annunci, emergerà la leadership israeliana del terzo millennio”. Il punto debole di Israele restano per Segre gli arabi israeliani. “E’ su questo che si giocherà l’avvenire di Israele. Rappresentano il banco di prova della moralità, della giustizia e della democrazia israeliana. Questo governo ha aperto agli arabi di Israele il servizio civile. Io ho adottato una famiglia beduina perché ritenevo importante che i miei figli li avessero come fratelli di pensiero. I beduini hanno un credito di sangue enorme con Israele”. Secondo Segre, da Begin a Olmert, la destra ha il vantaggio degli errori laburisti. “La pace con l’Egitto l’ha fatta Begin e oggi la destra israeliana, Kadima soprattutto, è a favore di due stati con cambiamenti radicale nel rapporto con i coloni. Olmert è molto più aperto ai palestinesi di chiunque altro. E poi c’è la continuata resistenza dei religiosi, degli immigrati e dei nuovi arrivati contro la nomenclatura indebolita di sinistra”. Segre ha votato sempre laburista, pur essendone stato escluso. “Ritenevo che i loro principi fossero giusti e avevano il merito della costruzione dello stato. Ma vedevo anche la straordinaria ipocrisia tipica dei socialisti, parlano bene e razzolano male. Non mi piaceva il nazionalismo del Likud, tipicamente europeo”. I Segre sono una delle famiglie ebraiche più legate all’unità d’Italia. “Per me andare in Israele nel 1948 era come rifare le gesta di Garibaldi, trasferire in Palestina i sogni del romanticismo dei patrioti italiani. Il mio rapporto con il sionismo è cambiato, era già labile, mentre il mio rapporto con Israele è ben descritto da Aharon Appelfeld, quando afferma di essere prima di tutto un ebreo, poi un israeliano ebreo e in terzo luogo un sionista ebreo. In Israele ho trovato la mia ebraicità, molto più che la mia nazionalità”. Il momento più cupo fu il 1973, la guerra del Kippur. “Ebbi il senso della tragedia, la guerra fu un immenso disastro umano, più di tremila morti. Ricordo lo spappolamento del governo. Dayan non ebbe più il coraggio di apparire alla stampa, l’intero peso ricadde sulle spalle di Golda Meir, mal consigliata dagli esperti militari. Ebbi la possibilità di esserle vicino in un nucleo di autorità che si formò intorno a lei. Golda era una donna coraggiosissima, con poche sicure idee sbagliate”. Segre torna con il pensiero allo sbarco sulla spiaggia di Tel Aviv di quel giovane “emigrante in fuga da un’Europa che stava entrando nell’inferno” e i consigli di sviluppare spessi calli sull’anima, di pari passo con quelli che avrebbero indurito le palme delle sue mani di soldato e scrittore. “Israele è una splendida avventura umana, chiunque vi abbia partecipato può dire a se stesso, ai propri figli e nipoti, ‘c’ero anch’io’”.
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