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La Stampa Rassegna Stampa
24.04.2008 Ebrei libanesi messi in fuga da Israele ? Riccardo Cristiano fonte autorevole ?
Lorenzo Trombetta si informi meglio

Testata: La Stampa
Data: 24 aprile 2008
Pagina: 0
Autore: Lorenzo Trombetta
Titolo: «Gli ultimi ebrei di Beirut Il nostro tempio è qui - Pubblica una foto sul Web In carcere soldato israeliano»
La STAMPA del 24 aprile 2008 pubblica un servizio sugli ebrei di Beirut, di Lorenzo Trombetta. Il quale oltre a definire "rappresaglie antisioniste" i pogrom antisemiti avvenuti nel mondo arabo nel 1948, sostiene che fu l'intervento israeliano in Libano del 1982 contro i terroristi dell'Olp a provocare la fuga degli ebrei libanese.

Una tesi smentita la riga dopo dalla dichiarazione di un testimone diretto:
"Davvero minacciati ci siamo però sentiti solo all'inizio degli Anni 80, quando sono iniziati i rapimenti e le uccisioni in base all'appartenenza religiosa - ricordava qualche mese fa alla stampa locale Moshe, un ebreo libanese del Wadi ora rifugiato negli Stati Uniti "

Non fu dunque Israele, ma la guerra civile interconfessionale libanese a far sentire minacciati gli ebrei libanesi.

Trombetta fa cita poi, nel suo articolo, il nuovo libro di Riccardo Cristiano  «Beirut, Libano - Tra assassini, missionari e grands cafés» (Utet, Torino).

Chi è Riccardo Cristiano ? E' un ex corripondente della Rai in Israele a territori palestinesi che, all'inizio della seconda intifada, srisse una lettera, che contro le sue intenzioni venne pubblicata da un giornale palestinese, nella quale assicurava che lui mai avrebbe mostrato al pubblico italiano le immagini del linciaggio di due soldati israeliani a Ramallah e rivendicava di aver sempre rispettato le regole di Al Fatah per i giornalisti stranieri (si veda il seguente link:
  
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=110&id=11323 e , sulle imprese successive di Cristiano:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=4&sez=110&id=16007 )

Invitiamo i nostri lettori a scrivere alla STAMPA commentando questo articolo di Trombetta, invitandolo a un'informazione più accurata.

Ecco il testo:


Si celebra un matrimonio ebraico oggi nel centro storico di Beirut, la «Parigi del Medioriente», «rifugio del libero pensiero e inferno dei diseredati», capitale del Libano delle banche, del turismo di lusso, dei piaceri e delle tradizioni. L'interno della sinagoga Maghen Abraham è gremita e inondata della luce che si riflette sugli stucchi color crema e sulle pareti turchesi, mentre il cortile di fronte alla facciata, affollato di «amici musulmani, cristiani e drusi», è ornato di bandiere libanesi rosso-bianco-verdi.
Quest'immagine, raccontata da una delle ultime ebree della capitale libanese, è solo un ricordo di un tempo che fu: la sinagoga di Beirut, che risale al 1925 ed è considerata uno dei più importanti templi del Medio Oriente, è ancora in piedi, ma è invasa da alberi ed erbacce. Il tetto ligneo è crollato e a malapena si scorge il turchese sulle pareti scrostate, graffiate e rovinate dal tempo, da guerre e saccheggi.
Anche il resto della città è cambiato: il benessere e l'opulenza della Beirut Anni 50 e 60 sono stati spazzati via da 15 anni di guerra civile (1975-90), mentre l'attuale crisi politico-istituzionale, che da un anno e mezzo paralizza il Paese, lascia impuniti palazzinari arabi senza scrupoli e irrispettosi della memoria.
Attorno alla sinagoga oggi c'è la desolazione di un enorme e polveroso cantiere. Alzando gli occhi al cielo di una primavera già troppo afosa, si scorgono ben otto braccia di altissime gru, intente a costruire il «Wadi Residence», un complesso edilizio di lusso per turisti del Golfo, proprio dove per secoli e fino ai primi Anni 80 si ergevano i palazzi popolari e al tempo stesso eleganti di Wadi Abu Jamil, il quartiere - non ghetto - ebraico di Beirut.
L'abbattimento, a metà marzo, degli ultimi edifici antichi attorno alla sinagoga sopravvissuti alla guerra ha fatto temere che anche il tempio Maghen Abraham venisse distrutto anziché restaurato, come alcune e isolate voci da tempo invocano. «Beirut, città costruita, distrutta, ricostruita e ora rovinata è un tesoro dell'umanità. E' grave che in questa città di diciotto confessioni diverse non sia stata ricostruita la sinagoga», lamenta Luigi Gatti, Nunzio Apostolico in Libano, citato da Riccardo Cristiano nel suo nuovo libro: «Beirut, Libano - Tra assassini, missionari e grands cafés» (Utet, Torino).
«Prima dell'inizio della guerra si viveva felici a Wadi Abu Jamil», racconta Régine, 53 anni, pseudonimo di una delle ultime ebree di Beirut, che non ha voluto abbandonare la sua città ma ci vive in semiclandestinità, «per timore di esser associata ai nemici per eccellenza».
L'invasione israeliana del Libano del 1982, con i carri israeliani che penetrarono nel cuore della capitale alla caccia dell'ultimo fedayin di Arafat, determinarono l'esodo massiccio di gran parte delle poche migliaia di ebrei che non avevano voluto abbandonare il Paese nemmeno dopo lo scoppio del conflitto intestino. «Davvero minacciati ci siamo però sentiti solo all'inizio degli Anni 80, quando sono iniziati i rapimenti e le uccisioni in base all'appartenenza religiosa - ricordava qualche mese fa alla stampa locale Moshe, un ebreo libanese del Wadi ora rifugiato negli Stati Uniti -. Molti se n’erano andati prima ma io sono rimasto fino a che ho potuto, anche per dimostrare che noi ebrei avevamo il diritto di vivere in una città che ci ha dato rifugio e che ci ha fatto vivere assieme agli altri senza ghetti».
Oggi a Beirut e in tutto il Libano è rimasta solo qualche decina di ebrei, lontani dal Wadi, nascosti dietro falsi nomi. Eppure questa città è stata per i loro avi più di un rifugio temporaneo, è diventata la loro casa permanente. Alle prime famiglie ebree che vantavano origini «bibliche» in Libano, si aggiunsero gli ebrei cacciati dalla cattolicissima Spagna nel 1492. In epoca più recente, all'inizio del secolo scorso, sono accorse qui centinaia di famiglie ebree provenienti da altre province di un impero ottomano in disfacimento. E dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948 il Libano fu l'unico Paese arabo nel quale il numero di ebrei aumentò anziché diminuire: a migliaia arrivarono qui in fuga dalle rappresaglie antisioniste di Aleppo, Damasco, Mossul, Baghdad. La comunità crebbe fino a raggiungere le 20.000 persone e furono costruiti nuovi templi (in tutto il Paese se ne contavano negli Anni 50 ben 16), nuove scuole e persino due banche (la Safra e la Zilkha). «All'epoca - ricorda Régine, che nella desolazione di oggi cita i vivaci racconti materni - eravamo tutti libanesi di diverse confessioni e noi ebrei vivevamo assieme ai musulmani sunniti e sciiti, ai cristiani e ai drusi».
Ma il carattere aperto e composito di Beirut non è andato perduto. Samir Frangie, uno dei più lucidi intellettuali libanesi, sostiene che Beirut, dove ancora oggi «ognuno vede l'altro», rappresenta «una sfida ai regimi totalitari arabi». Per Micheal Baydun, musulmano di origini libanesi di Detroit e responsabile del sito «The Jews of Lebanon», «bisogna preservare il mosaico libanese e soprattutto Beirut, perché sono modelli da opporre a tutte le pulizie etniche, in Medio Oriente come altrove».
Un messaggio forse ascoltato dalla società edilizia che ricostruisce il centro di Beirut e che ha promesso: «La sinagoga Maghen Abraham sarà restaurata». E chissà che un giorno i pochi ebrei libanesi rimasti non possano tornare a celebrare, assieme «agli amici musulmani, cristiani e drusi», i loro matrimoni al sole di una nuova primavera di Beirut.

Nella stessa pagina dell'articolo di Trombetta troviamo un riquadro con un trafiletto dal titolo "Pubblica una foto sul Web In carcere soldato israeliano".
Si apprende leggendo l'articolo che la foto in questione era della base militare dove il soldato prestava servizio. Evidenti, dunque,le ragioni di tutela della sicurezza che hanno motivato il provvedimento. Che dal titolo sembra invece essere assurdo.
Ecco il testo dell'articolo:

Un soldato israeliano, membro di un’unità speciale di intelligence, è stato condannato da un tribunale militare a 19 giorni di prigione per aver pubblicato su una community in internet una foto della sua base. È la prima volta che le forze armate israeliane applicano una sanzione tanto grave per un episodio in apparenza così banale. In realtà da tempo i vertici militari israeliani stanno combattendo una dura battaglia per frenare l’abitudine, particolarmente diffusa soprattutto fra i soldati più giovani, di pubblicare su popolari siti web le foto che li ritraggono in servizio, violando, spesso per semplice mancanza di accortezza, veri e propri segreti militari. «I nostri soldati - ha detto un portavoce dell’esercito commentando la sentenza di condanna - devono essere educati sui pericoli legati a un uso disattento di Internet».

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