Ma non erano tutti ricchi ? ora il quotidiano comunista strumentalizza la povertà di una parte degli israeliani, e dice di no a nuove case per i palestinesi
Testata: Il Manifesto Data: 23 aprile 2008 Pagina: 9 Autore: Michelangelo Cocco - Michele Giorgio Titolo: «Rabawi, la città del futuro nascerà sotto occupazione - Povero Israele, il 34% a caccia d'un pasto»
Il MANIFESTOnon è mai stato alieno dal presentare il conflitto tra israeliani e palestinesi come un caso specifico del più generale conflitto tra ricchi sfruttatori occidentali (israeliani) e poveri sfruttati (palestinesi).
Ma più raramente si sfrutta propagandisticamente un argomento opposto: quella delle povertà diffusa in Israele. Della quale si incolpa il governo e le riforme economiche che hanno salvato l'economia di un paese sotto attacco.
Strani difensori degli israeliani poveri, quelli che contemporaneamente invocano emarghi, isolamento internazionale, diritto alla "resistenza".
Ecco l'articolo di Michelangelo Cocco, del 23 aprile 2008:
Nella piccola mensa di Bat Yam i poveri compaiono puntuali, a mezzogiorno. Una fila di immigrati dall'ex Unione sovietica, anziani e giovani sabra (ebrei nati in Israele) aspetta paziente il pranzo - rigorosamente kosher - che Yael, avvolta nel suo grembiule a fiori, serve nei piatti o inscatola in contenitori da asporto. «Assistiamo circa 150 persone al giorno - spiega Bat Sheva, la segretaria di "Ohavim" -. I vecchi mangiano a tavola, mentre i ragazzi portano il cibo a casa, per i loro bambini». Pagano tra i due e i cinque shekel (da cinquanta centesimi a un euro) per un pasto a base di carne, insalata, riso e yogurt. Ohavim, l'organizzazione non governativa (ong) che sovrintende alla mensa nella cittadina costiera a sud di Tel Aviv, opera sotto l'ombrello di Latet, un'associazione che ha presentato una petizione alla Corte suprema chiedendo che «lo Stato si assuma la responsabilità della distribuzione del cibo ai bisognosi» e denunciando la «privatizzazione dei servizi di welfare, poiché il peso della distribuzione di cibo a oltre 200.000 famiglie ricade su 200 organizzazioni volontaristiche no profit, senza alcun coinvolgimento da parte del governo». Un rapporto pubblicato all'inizio di questo mese da un comitato interministeriale ad hoc ha evidenziato che il 34% degli israeliani è affetto da «insicurezza alimentare», che nei paesi ricchi significa avere accesso limitato o incerto a cibi adeguati o capacità limitata o incerta di procurarseli in una maniera socialmente accettabile. Gli ebrei ultra ortodossi (52,6%), i genitori single (44,9%) i palestinesi con cittadinanza israeliana (37,3%) e gli anziani (29,3%) sono risultate le categorie più colpite dal fenomeno. La fonte dei dati pubblicati nello studio è l'Ufficio centrale di statistica, che spiega che è per pagare altri prodotti essenziali che quel 34% di cittadini fa a meno di cibi fondamentali. «Molta gente non riesce a uscire dalla povertà, nonostante lavori, a causa dell'aumento dei costi degli affitti e degli asili per i bambini, dell'incremento della spesa per i beni di consumo. Particolarmente colpite sono le donne divorziate con figli a carico e i vecchi immigrati dall'ex Urss», spiega Sheva mostrando la stanza accanto alla cucina, dove vengono esposti abiti e giocattoli, avanzi di magazzino da vendere a due shekel. «Aumentare la dipendenza dalle organizzazioni no profit permette allo stato di sottrarsi alla responsabilità della sicurezza alimentare dei suoi cittadini e rappresenta un'umiliazione continua per i bisognosi che ricevono il pacco di cibo dalle associazioni caritatevoli», ha protestato il capo del sindacato dei lavoratori sociali, Itzik Peri, in un articolo apparso nei giorni scorsi sul quotidiano Ha'aretz. Negli ultimi cinque anni lo Stato ebraico ha vissuto un ciclo ininterrotto di crescita macroeconomica: investimenti dall'estero, esportazioni e consumi interni fanno registrare tutti il segno più, trainati dallo sviluppo di settori chiave come hi-tech, armamenti, fertilizzanti. Ma, parallelamente al prodotto interno lordo pro capite - che ha raggiunto i livelli dell'eurozona - sono aumentate anche la povertà e il divario tra ricchi e poveri. Gli ultimi dati del National insurance insitute classificano una famiglia su cinque come povera, che cioè percepisce meno della metà del salario medio. Cifre che allarmano i cittadini, che mettono la povertà al terzo posto delle loro preoccupazioni, dopo il lancio di razzi Qassam da parte dei palestinesi e il sistema educativo; e i politici, che stanno studiando una revisione dei parametri di calcolo per mascherare il problema. Ha destato grande scalpore la recente rivelazione di Canale 10, secondo cui nell'estate 2006 Benjamin Netanyahu, ex premier e attuale leader del Likud (destra) in viaggio diplomatico per promuovere la guerra in corso in Libano, avrebbe speso assieme alla moglie 131.000 shekel (24.000 euro circa) in sei giorni per biglietti teatrali, ristoranti, parrucchiere e lavanderia. «Si tratta di un episodio che sarebbe stato inimmaginabile 60 anni fa, all'epoca della fondazione dello Stato», commenta Daphna Golan, ricercatrice all'Università ebraica di Gerusalemme. «Ma la nostra società ormai ha abbandonato la sua impronta socialista delle origini per abbracciare il capitalismo nel senso più deteriore del termine - continua Golan, tra le fondatrici dell'organizzazione pacifista B'Tselem -: tutto viene privatizzato, dall'educazione alla sanità, dove esiste un sistema duale in cui i servizi di qualità si pagano, mentre ai poveri sono riservati quelli scadenti». La svolta risale alla cosiddetta «seconda intifada», la rivolta armata palestinese iniziata nel settembre 2000 che fece traballare l'economia israeliana. «Causò la crisi più grave dal 1965 - spiega Shir Haver, economista dell'Alternative information center -. Uno shock al quale il governo Netanyahu rispose con massicci tagli alla spesa pubblica e un piano neoliberale che causò un ulteriore aumento della povertà». Secondo Haver oggi lo Stato ebraico «è il paese con le maggiori disuguaglianze del mondo». «Israele ha americanizzato il suo sistema - dice Gili Rei, direttrice dell'associazione Commitment -. Nel 30% delle famiglie povere c'è almeno un lavoratore, ma il suo salario è troppo basso, circa 3.500 shekel (650 euro). E già nel 2003 i sussidi di disoccupazione furono ridotti del 30%». Mentre alcune ong provano a fronteggiare questa situazione chiedendo donazioni ed elargendo carità, altre, come Commitment, danno battaglia, anche con una hot line per aiutare i lavoratori licenziati a fare ricorso. E l'estate scorsa hanno ottenuto una prima, parziale vittoria, contro il famigerato Wisconsin plan (dall'omonimo stato americano dove fu concepito, alla metà degli anni '90), un programma attraverso il quale lo stato appaltava a compagnie private il reinserimento nel lavoro e la gestione dei sussidi di disoccupazione di oltre 20.000 persone in diverse aree del paese. «Era solo un sistema per trovare vari pretesti per cancellare i sussidi», racconta Rei. Ora si chiama Orot Letaasuka, è sempre gestito da privati ma, promette la giovane «lo terremo sotto osservazione, per assicurare che sia più giusto e flessibile e che le aziende private guadagnino solo se reintroducono i disoccupati nel mercato del lavoro».
Il quotidiano comunista pubblica anche un articolo di Michele Giorgio su una città palestinese "modello" che dovrebbe sorgere nelle vicinanze di Ramallah, costruita da un imprenditore locale, con l'appoggio di Autorità palestinese, Israele, e Stati Uniti. Sembrerebbe una buona notizia, ma per Giorgio non lo è affatto. Perché ? In primo luogo perché la città non sorge nelle zone dove si trovano gli insediamenti israeliani e rischia anzi di far passare i secondo piano la contesa su quei territori. Poi perché l'imprenditore palestinese trarrà un guadagno privato dalla costruzione della città, sommo peccato per la morale comunista. Infine, perché "cresce anche il sospetto che l'imprenditore palestinese stia inconsapevolmente progettando cittadine che serviranno in futuro ad accogliere anche i profughi palestinesi della guerra del 1948 che vivono nei campi sparsi in vari paesi arabi e ai quali Israele non intende concedere il diritto al ritorno alle loro case e villaggi, oggi nello Stato ebraico, che pure è affermato dalla risoluzione 194 dell'Onu". La questione dei profughi, per Giorgio deve rimanere aperta. Non deve assolutamente essere risolta con modalità compatibili con la sopravvivenza di Israele. Più chiaro di così... Ciò che veramente interessa a Giorgio non è la costruzione di uno stato palestinese, ma la distruzione di Israele.
Ecco il testo dell'articolo:
La sede della «Massar» è in una bella villa con giardino, in un'area residenziale di Ramallah non lontano dal comando delle forze di occupazione israeliane di Bet El. È un giorno di riposo nel resto della città palestinese, ma qui gli impiegati vanno avanti e indietro con in mano documenti per l'amministratore e proprietario, Bashar Masri, arrivato in ufficio puntuale come sempre. «La Massar - ci dice Masri accogliendoci nel suo elegante ufficio - è una holding impegnata su più fronti, dalle consulenze finanziare alle costruzioni, dal mercato azionario all'agricoltura». Nato e cresciuto a Nablus, membro di una famiglia che possiede una fetta consistente della ricchezza nazionale palestinese, cugino di Munib Masri (un imprenditore di fama mondiale), Bashar si è laureato in ingegneria chimica alla Virginia Tech e ha lavorato negli Stati Uniti e in Arabia Saudita per quasi venti anni. «Poi qualche anno fa - racconta - ho scoperto le potenzialità del settore edilizio nel mondo arabo e ho costruito in Marocco, Giordania ed Egitto decine di migliaia di case». E visto che nei Territori occupati c'è un fabbisogno immenso di abitazioni (200mila secondo alcune fonti), la Massar ha fiutato l'affare, grazie anche, dice qualcuno, ai «preziosi» suggerimenti ricevuti dal primo ministro Salam Fayyad, punto di riferimento privilegiato dei grandi imprenditori palestinesi. «Se le cose andranno bene, entro il 2008 avvieremo la costruzione di Rabawi: sarà la prima città palestinese a vedere la luce in Cisgiordania dal 1967», spiega Masri con orgoglio, illustrandoci le bozze del progetto. Rabawi sarà costruita dalla «Bayti», una delle tante componenti della Massar, e sarà una cittadina concepita per la borghesia palestinese: 5.000 appartamenti a circa 10 km da Ramallah, nei pressi dell'ateneo di Bir Zeit, dotati di un centro commerciale, banche, ristoranti, parchi-gioco per bambini, un ospedale, scuole, hotel e, assicura Masri, anche un cinema. Le abitazioni, tra i 90 e i 170 metri quadrati, avranno un costo tra i 40mila e gli 70mila dollari, ampiamente accessibile alla classe media - professionisti, commercianti e funzionari pubblici e privati - che si concentra tra Ramallah e Nablus. Occorreranno 300 milioni di dollari per completare Rabawi, ma ad investirli non sarà solo la Massar. Il progetto prevede l'intervento di partner stranieri e di istituzioni internazionali che dovranno provvedere alle infrastrutture: strade, rete idrica ed elettrica. Rabawi ha peraltro ottenuto il via libera delle autorità di occupazione israeliane. «La città - precisa Masri - sorgerà per il 95% nella zona A della Cisgiordania (sotto controllo dell'Anp, ndr) ma Israele non si opporrà alla costruzione delle sue infrastrutture nella zona C (sotto controllo israeliano, ndr)». L'imprenditore palestinese riferisce che lo stesso ministro della difesa Ehud Barak ha dato la sua approvazione durante un incontro con Salam Fayyad e il Segretario di stato Usa Condoleezza Rice. Un progetto benedetto da Israele, Anp e Usa, nello «spirito di Annapolis», ma sempre in linea con la politica di occupazione. La disponibilità di Barak si spiega anche con il fatto che Rabawi non vedrà la luce nell'area C, che rappresenta circa il 60% della Cisgiordania e dove si concentrano i 150 insediamenti ebraici (tutti illegali secondo la legge internazionale) e gli oltre 100 avamposti colonici (illegali anche per la legge israeliana), sul cui futuro grava un grosso punto interrogativo poiché Israele non nasconde le sue mire annessionistiche su questi territori palestinesi, già in parte delimitati dal muro di separazione. L'area C della Cisgiordania è diventata «non edificabile» per gli «arabi» mentre Israele vi ha costruito tra il 2000 e il 2007 ben 18.472 case per coloni ebrei contro i 91 permessi edilizi concessi ai palestinesi, ha denunciato di recente Peace Now, lanciando l'allarme sul «transfer silenzioso» (la pulizia etnica) dei circa 70mila palestinesi che vivono nell'area sotto il pieno controllo militare israeliano. Quest'anno sono anche aumentate le demolizioni di case palestinesi «abusive» nell'area C - 138 tra gennaio e marzo contro le 29 nello stesso periodo del 2007 - mentre procede a tutto vapore la costruzione di abitazioni negli insediamenti israeliani. Sempre Peace Now ha riferito che da quando si è chiuso l'incontro di Annapolis, lo scorso novembre, il governo Olmert ha approvato la costruzione di 500 case nelle colonie in Cisgiordania e di altre 750 nella zona occupata (Est) di Gerusalemme e recenti indiscrezioni hanno rivelato che sono in progetto altri 1.400 appartamenti per coloni. Nelle strade palestinesi Rabawi perciò non suscita solo speranze e interesse, ma anche qualche timore. Bashar Masri e i suoi collaboratori fanno leva sul nazionalismo, ma appaiono animati soprattutto dalla logica del profitto e già annunciano la costruzione di altre cittadine, tutte però nell'area A, stavolta per fasce più povere della popolazione. Peraltro non sembrano interessati ad insistere con Fayyad e soprattutto gli israeliani affinché i nuovi progetti edilizi vedano la luce nell'area C. «Rabawi è un test, un esperimento e se tutto andrà per il verso giusto costruiremo nuovi centri abitati vicino Jenin, Nablus, Hebron», assicura Masri mostrandoci gli articoli pubblicati da vari giornali sulla Massar. E pian piano cresce anche il sospetto che l'imprenditore palestinese stia inconsapevolmente progettando cittadine che serviranno in futuro ad accogliere anche i profughi palestinesi della guerra del 1948 che vivono nei campi sparsi in vari paesi arabi e ai quali Israele non intende concedere il diritto al ritorno alle loro case e villaggi, oggi nello Stato ebraico, che pure è affermato dalla risoluzione 194 dell'Onu. In particolare per i 400mila profughi in Libano di cui il Paese dei Cedri esclude l'assorbimento e l'integrazione. Un atteggiamento ben diverso da quello della Giordania, alleato di ferro di Washington e che ha ottimi rapporti con Israele, specie nelle politiche döi sicurezza. I palestinesi residenti nei campi profughi vicini ad Amman e altre due città giordane, Irbid e Zarqa, da alcune settimane fanno la fila per accedere ai finanziamenti messi a disposizione del progetto, da 7 miliardi di dollari (di provenienza internazionale), avviato dalla Housing and Urban Development Corporation, «per assicurare una casa alle fasce sociali più deboli». Ventimila appartamenti all'anno per un totale di 120mila, ufficialmente disponibili per tutti i giordani ma rivolto in realtà ai profughi palestinesi in possesso di passaporto del regno Hashemita (circa 1,6 milioni). È in corso, lontano dagli obiettivi delle telecamere, una politica volta a mettere in soffitta la risoluzione 194 dell'Onu? «Stiamo cercando di capirlo - dice Ingrid Jaradat di "Badil", una delle principali Ong palestinesi che sostengono i rifugiati del 1948 - quello che sappiamo per certo è che i palestinesi non rinunceranno ai loro diritti sanciti dalle risoluzioni internazionali e continueranno a chiedere di poter liberamente scegliere se tornare oppure no nella loro terra d'origine».
Per inviare una e-mail alla redazione del Manifesto cliccare sul link sottostante