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La Stampa Rassegna Stampa
20.04.2008 L'Opinione di A.B.Yehoshua sui 30 anni di "Pace adesso"
che supera l'esame finestra del quotidiano torinese

Testata: La Stampa
Data: 20 aprile 2008
Pagina: 35
Autore: A.B.Yehoshua
Titolo: «Pace adesso ma non troppo»

A.B.Yehoshua supera l'esame finestra della STAMPA, che oggi 20/04/2008, a pag.35, pubblica un suo articolo sui 30 anni di " Pace adesso", il movimento pacifista israeliano. Un'opinione interessante, la sua, come lo erano quelle da lui espresse in una intervista ad Haaretz, che la STAMPA si è ben guardata dal riprendere. L'abbiamo fatto poi noi, pubblicandola su IC.

In questi giorni il movimento israeliano «Peace Now» celebra, con estrema modestia, i suoi trent’anni: qualche intervista rilasciata ai media dai suoi esponenti e un raduno, scarso di partecipanti, in piazza Rabin, nel cuore di Tel Aviv, luogo deputato alle manifestazioni. Ciò nonostante i suoi rappresentanti si esprimono in tono di soddisfazione, giacché le linee guida del gruppo, condivise nel 1978 solo da un terzo degli israeliani, sono ora sostenute da gran parte di questi ultimi (sebbene non ancora da una schiacciante maggioranza).
Di pari passo, però, tra gli attivisti serpeggia anche la sensazione che l’attività di Peace Now - movimento extraparlamentare - non sia stata sufficientemente energica e mirata nella realtà politica israeliana e non sia riuscita a frenare l’opera di costruzione di colonie nei territori palestinesi occupati. Colonie che hanno reso molto difficile il progresso del processo di pace verso una separazione dei due popoli e la fondazione di uno Stato palestinese a fianco di quello ebraico.
Cercherò di chiarire il motivo del successo di Peace Now nel diffondere le proprie idee nei suoi primi anni di vita e quello della sua debolezza di fronte al nemico ideologico, «Gush Emunim», omologo movimento extraparlamentare il cui dinamismo nella creazione di insediamenti ha prodotto notevoli risultati.
Innanzitutto è possibile affermare che Peace Now, quale movimento popolare, è sorto con almeno dieci anni di ritardo. Dopo la guerra dei Sei giorni alcuni audaci uomini politici, esponenti del Partito laburista allora al governo, insorsero, insieme con intellettuali e artisti tra i quali sono fiero di annoverarmi, contro la linea politica di Golda Meir e Moshe Dayan che, anziché mantenere i territori conquistati durante la guerra come carta di scambio per la pace con gli Stati arabi, avviarono una politica di annessione strisciante e clandestina mediante l’unificazione di Gerusalemme e la fondazione di colonie nei territori palestinesi, siriani ed egiziani. Quei pochi ma lungimiranti uomini politici (che il Partito laburista più tardi isolò ed espulse dalle proprie file), affiancati da intellettuali e artisti, non ottennero però sufficienti consensi (di certo non l’appoggio del Partito laburista che guidava il Paese grazie al sostegno dei piccoli partiti della sinistra liberale) e non ebbero la minima possibilità di creare un movimento di peso sufficiente a contrastare l’ondata di piena della destra, intensificatasi dopo la guerra dell’ottobre 1973.
Nel 1977, nelle elezioni tenutesi sei mesi prima della creazione di Peace Now e grazie alle quali il Likud, capeggiato da Menachem Begin, approdò al potere, il Partito per la pace ricevette a malapena l’uno per cento dei voti, nonostante contasse nelle sue file alcuni fra gli intellettuali e gli artisti israeliani allora più in vista. Ed ecco che, a distanza di soli sei mesi, fu creato Peace Now, movimento popolare sostenitore della pace nel quale si riversarono migliaia di persone che fino a quel momento non avevano partecipato alla lotta contro il nazionalismo dilagante nel popolo e nel governo. Perché avvenne questo cambiamento?
L’evento che fece scattare un mutamento di tendenza nell’opinione pubblica israeliana e portò alla creazione del movimento Peace Now fu la sorprendente visita del presidente egiziano Anwar al-Sadat a Gerusalemme e la sua drammatica dichiarazione di voler mettere fine al conflitto arabo-israeliano mediante la formula «territori in cambio di pace».
Il governo israeliano, naturalmente, avviò trattative per stabilire le clausole di un possibile accordo fra le quali, dietro richiesta di Sadat, anche quella riguardante un riconoscimento del diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. Ma il negoziato si complicò in seguito alla pretesa egiziana che Israele rinunciasse a una piccola parte del Sinai dove erano già presenti insediamenti ebraici e molti nello Stato ebraico temettero che Begin e i suoi potessero perdere l’occasione di condurre a termine la trattativa. A quel punto un gruppo di ufficiali riservisti inviò una lettera aperta al primo ministro chiedendogli di concludere una pace immediata (in inglese peace now) con le seguenti parole: «Lei, signor Primo Ministro, conduca pure una trattativa come meglio ritiene dal suo punto di vista, a patto che si concluda con una pace immediata. L’attuale opportunità non va assolutamente persa e non accetteremo nessun pretesto a giustificazione di una mancata conclusione positiva dell’iniziativa storica del presidente egiziano».
L’appello ottenne i suoi effetti e quando, sulla sua scia, si organizzarono manifestazioni pubbliche e le file dello schieramento della pace si ingrossarono, il primo ministro Begin e i suoi collaboratori capirono di non avere altra scelta che rinunciare all’intera penisola del Sinai, smantellare gli insediamenti ebraici e acconsentire a un accordo di pace con il più grande Stato arabo: l’Egitto. Ma subito dopo la firma dell’accordo fu chiaro che, forte delle concessioni fatte, il governo del Likud si riteneva legittimato a disseminare colonie nei territori palestinesi della Giudea, della Samaria e della striscia di Gaza. Durante i giorni neri della seconda Intifada, nel 2000, allorché si scoprì che i palestinesi non erano disposti a rinunciare al diritto al ritorno né erano sufficientemente maturi per concludere una pace con Israele, il movimento Peace Now avrebbe forse fatto meglio a rinunciare alla pretesa di una pace immediata per concentrarsi nella lotta contro gli insediamenti, sotto lo slogan: «Le colonie sono un ostacolo alla pace».
Ma a quanto pare quel tipo di lotta era troppo arduo per i giovani di Peace Now che la affrontarono senza sufficiente creatività ed energia. Era più facile per gli esponenti di Gush Emunim beffare il governo erigendo avamposti qua e là e ampliando le colonie esistenti che per quelli di Peace Now combatterli. Non c’è quindi da stupirsi se il raduno celebrativo dei trent’anni del movimento ha suscitato sentimenti contrastanti e non ha attirato molti partecipanti. Da un lato è chiaro che il riconoscimento della necessità di rinunciare ai territori conquistati nel ’67 e permettere la creazione di uno Stato palestinese a fianco di quello ebraico è ora accettato da tutti anche per merito di questo movimento, dall’altro è altrettanto chiaro che le vie prescelte per trasformare in realtà tale riconoscimento non sono state efficaci e il cammino verso la pace continua a essere difficile ed estremamente complesso.

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