Sulla STAMPA di oggi, 19/04/2008/, a pag. 16, un reportage di Francesca Paci sulla situazione dei lavoratori arabi clandestini in Israele, un paese che non nasconde le realtà difficili, anzi, premia chi lo racconta (il regista trentaquattrenne Yonatan Ben-Efrat ha dedicato il lungometraggio «Six Floors to Hell», (Sei piani per l’Inferno) premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo International Documentary Film Festival di Tel Aviv.) Se i lavoratori oggi sono principalemnte non più arabi, ciò è dovuto unicamente alla diffusione del terrorismo dopo la seconda Intifada (2000), che ha reso di fatto impossibile l'assunzione di lavoratori arabi. Sopra le righe il titolo " Un passaggio in Israele con gli scafisti del Muro". Ecco il pezzo:
Alle prime luci del mattino il marciapiede alberato di Aranovic road, nel Comune ultrareligioso di Bnei Barak, alla periferia di Tel Aviv, è già affollatissimo. Trentasette palestinesi con il cappuccio della felpa tirato sul capo aspettano l’ingaggio giornaliero e fumano sigarette Viceroy, invisibili alle giovani mamme che passano svelte, a testa bassa, per accompagnare i figli a scuola.
Un ebreo ultraortodosso alla guida di una Chevrolet verde accosta e abbassa il finestrino, offre 50 schekel, meno di 10 euro, per pulire la yeshiva, il collegio rabbinico del quartiere. «Non posso, non ci pago neppure il viaggio», rifiuta Yussef in ebraico. Viene da Nablus, in Cisgiordania, una quarantina di chilometri da qui, un altro continente. Ha 34 anni, 3 figli, un diploma da perito industriale inutilizzabile dalle sue parti, dove l’industria non esiste e la disoccupazione raggiunge il 25 per cento. Dal 2002 si vende al miglior offerente del mercato nero di Bnei Barak, muratore oggi, domani spazzino: immigrato illegale per 200 schekel al giorno a mezz’ora di strada dal cortile di casa.
«Ogni settimana migliaia di operai palestinesi entrano clandestinamente in Israele per lavorare nei cantieri, nelle fabbriche, nelle abitazioni private», spiega Eitan Diamond dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. La barriera costruita da Israele contro gli attentati kamikaze è un deterrente piuttosto blando. Il tracciato che isola i Territori palestinesi è quasi terminato, manca appena un terzo dei 650 chilometri definitivi.
Eppure Ahmen, 29 anni, 4 figli, è sempre riuscito a uscire da Tulkarem senza documenti: «Il muro è pieno di varchi, basta conoscerli. A volte ci vogliono 9 ore per aggirare le ronde dell’esercito ma dall’altra parte ci aspettano i furgoni». Gli autisti in attesa a motore acceso sono arabi-israeliani, fratelli-coltelli che, come gli scafisti dell’Adriatico, imbarcano uomini fino a chiudere a fatica il portellone del Ford Transit bianco. Chiedono 100 schekel a persona e ne guadagnano almeno duemila a viaggio, una volta e mezzo lo stipendio di ciascun passeggero.
«Dobbiamo dormire in Israele per rientrare con le spese», racconta Mohammad, 31 anni, occhi azzurri, falegname di Jenin. «Arriviamo la domenica all’alba e ripartiamo il giovedì sera, prima del weekend. Finché c’era il “Mall” avevamo un tetto, ora dobbiamo arrangiarci con le coperte sotto il ponte Geha». Il «Mall», come lo chiamano tutti, è un ex parcheggio sotterraneo di cinque piani nel Comune di Pardes Katz, vicino Bnei Barak, che fino alla chiusura, due anni fa, ha ospitato centinaia di palestinesi clandestini, accampati con fornelli di latta e cartoni alle finestre come nelle fabbriche dismesse delle capitali europee. Un giorno il governo israeliano ha detto basta e ha murato le entrate di questa Metropolis postmoderna a cui il regista trentaquattrenne Yonatan Ben-Efrat ha dedicato il lungometraggio «Six Floors to Hell», (Sei piani per l’Inferno) premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo International Documentary Film Festival di Tel Aviv.
«È un mondo sommerso di manodopera sottopagata che produce più d’un terzo del pil della Cisgiordania», dice Ben-Efrat, filmaker e attivista di Video48, un gruppo agit-prop della sinistra radical israeliana. I palestinesi come i clandestini scaricati sulle coste di Lampedusa dai traghettatori di dannati, più immigrati di qualsiasi immigrato: «All’inizio degli Anni Novanta, dopo la prima Intifada, Israele licenziò tutti i palestinesi dei Territori, duecentomila persone che lavoravano nei campi, nelle fabbriche, nei ristoranti. Furono sostituiti con immigrati meno problematici, “amici”, thailandesi, africani, romeni, “ospiti” per sei mesi, un anno, il tempo necessario all’economia».
A Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa, nelle principali città israeliane le badanti filippine accompagnano gli anziani al mercato mentre carpentieri dell’Est Europa si arrampicano sulle impalcature degli edifici in costruzione, «impiegati stagionali» con regolare permesso di lavoro.
Le liste del ministero dell’Industria e del Commercio comprendono anche 22 mila palestinesi legali che ogni giorno attraversano i check point di Betlemme, Ramallah, Qalqiliya. Yussef ne conosce parecchi: «Beati loro, fortunati che possono mangiare senza nascondersi gli avanzi del nemico». Lui no, si guarda intorno, calza bene il cappuccio della felpa sulla fronte, e sale a bordo di una Mazda rossa con l’adesivo degli Amici di Gush Katif, il movimento dei coloni irriducibili.
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