Prove di guerra in Iran prove di dialogo in Arabia Saudita
Testata: Il Foglio Data: 16 aprile 2008 Pagina: 0 Autore: la redazione - Giulio Meotti Titolo: «L'Iran dei pasdaran rinserra le fila e tiene pronto Hezbollah - Il rabbino capo di Israele pronto a incontrare re Abdullah»
Da Il FOGLIO del 16 aprile 2008, un articolo sulle nuove minacce iraniane a Israele:
Roma. “L’Iran cancellerà Israele dalla scena mondiale se attaccherà la Repubblica islamica”. Con queste parole il vicecomandante dell’esercito iraniano, generale Mohammed Reza Ashtiani, ha commentato la prima esercitazione di difesa civile organizzata martedì da Israele per fare fronte a un eventuale lancio di missili dall’Iran. Le dichiarazioni del generale Ashtiani rispecchiano fedelmente la posizione più volte espressa da Mahmoud Ahmadinejad di “cancellare Israele dalla faccia della terra”, ma hanno oggi una pregnanza ancora più preoccupante. Le esercitazioni civili, infatti, seguono di pochi giorni le straordinarie manovre militari ordinate dal ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, in tutta la regione settentrionale di Israele, con evidente riferimento a una possibile nuova deflagrazione del conflitto con Hezbollah libanese (e con la Siria). Questo mentre da giorni vari giornali libanesi pubblicano articoli dal titolo: “Il problema non è ‘se’ scoppierà una nuova guerra con Israele, ma solo ‘quando’”. Il clima di escalation verbale ricorda da vicino i periodi che hanno preceduto le guerre del 1956, del 1967 e del 1973, ed è reso più preoccupante, non paradossalmente, dalle divisioni e dalle crepe sempre più evidenti che scuotono sia il regime di Teheran sia quello di Damasco. A pochi giorni da quel terremoto politico che è stato il “golpe di palazzo” di Damasco, con cui Bashar el Assad ha destituito e arrestato suo cognato, il generale Asef Shawkat, capo dei servizi segreti, piccole scosse di terremoto continuano a scuotere il governo di Teheran. A poche settimane dalle elezioni politiche in cui ha trionfato il fronte fondamentalista, il presidente Ahmadinejad ha bruscamente licenziato il ministro dell’Economia e il potentissimo ministro dell’Interno, Mustafà Poor-Mohammadi. Esce dunque di scena un propugnatore di quelle riforme efficientiste che a parole Ahmadinejad ha sempre dichiarato di voler perseguire e che mai ha però messo in atto. Convinto che l’Iran sia azzoppato dalla burocrazia e da una eccessiva dipendenza dall’introito petrolifero, Poor-Mohammadi, che è un fondamentalista, oltre a gestire col pugno di ferro la macchina repressiva nel paese, non è mai stato avaro di critiche – sia pur velate – alle promesse mancate di Ahmadinejad nella lotta alla corruzione di regime e un propugnatore delle privatizzazioni e liberalizzazioni indispensabili per avviare un processo di sviluppo produttivo del paese. Ma la logica del gruppo di potere di cui Ahmadinejad è sostenitore è ormai indirizzata in tutt’altra direzione. Attingendo solo e unicamente al continuo flusso espansivo delle vendite di petrolio a 100 dollari il barile, Ahmadinejad si limita a distribuirne una parte in forma di reddito diretto alla sua base sociale e utilizza l’altra parte per finanziare un sempre più potente apparato militare-industriale (una sorta di modello sovietico in scala ridotta e in versione jihadista). La recente rivelazione dei servizi segreti israeliani circa l’approntamento nei laboratori iraniani, nell’arco dei prossimi due-tre anni, di missili a lunga gittata (2-3.000 chilometri, in grado di raggiungere l’Europa, funzionali solo e unicamente alla deterrenza atomica, non hanno senso con cariche convenzionali) dà il segno di quanto sia grande l’impegno anche economico di questi progetti. Epurando Poor-Mohammadi e il ministro dell’Economia, il blocco di regime che unisce i pasdaran agli ayatollah fondamentalisti, che ha in Ahmadinejad il suo speaker e in Ali Khamenei il suo leader incontrastato, ha voluto riaffermare una dinamica puntata sulla minaccia militare, architrave di una presenza regionale degna di una media potenza. Questo percorso si nutre dell’instabilità di tutte le zone calde e oggi ha un chiaro e immediato obbiettivo: fare fallire il progetto di George W. Bush di arrivare a un passo decisivo nella definizione di uno stato palestinese, sotto la guida di Abu Mazen, entro la fine del suo mandato. Come sempre, il modo migliore per fare fallire le trattative israelo-palestinesi è quello di fare deflagrare un conflitto con Israele. Hezbollah è già pronto.
Un articolo di Giulio Meotti sulla proposta di dialogo interreligioso ebraico, cristiano e islamico avanzata da re Abdullah dell'Arabia Saudita e sulle reazioni nel mondo ebraico:
Roma. Lo ha scritto il Wall Street Journal: la sfida all’islamismo arriverà dai “saggi” e dalla tradizione musulmana conservatrice, più che dall’islam assimilato. Va letta in questa direzione la richiesta di un incontro con ebrei e cristiani rivolta dal re saudita Abdullah al Saud. Nel regno che ha discusso persino se bandire la lettera X, in quanto troppo simile a una croce, dove non si può indossare una tunica cristiana, dove alla Mecca ci sono due uscite autostradali, una per i musulmani e una per i non musulmani, il genio austero Abdullah promuove un’iniziativa di pietas e quiete senza precedenti. Tra le richieste saudite agli americani, durante la prima guerra del Golfo, vi fu quella che i cappellani militari portassero i distintivi, la croce e le Tavole della Legge, cuciti all’interno delle giubbe. Si può capire quindi la portata di un incontro del genere mentre i giovani a scuola leggono “La vergogna delle genti del Vangelo” di Ibn Taymmiyya, ispiratore di Abd al Wahhab, il grande dotto musulmano contemporaneo di Voltaire che ha plasmato la vita del regno saudita. Abdullah è il volto fiero, duro e conservatore dell’islam sunnita. Quando Dick Cheney nell’agosto 1990 atterrò a Riad in qualità di ministro della Difesa per discutere di Desert storm, fu Abdullah l’unico membro della famiglia reale a non farsi trovare. Non ha praticamente viaggiato all’estero per cinquant’anni, fino a quando nel 1975 con la morte di re Feisal non divenne il terzo in successione al trono, e non parla fluentemente altra lingua che l’arabo. La rimozione di migliaia di imam violenti e il ridimensionamento della polizia religiosa sono cose che nessun altro regnante islamico avrebbe potuto permettersi. Abdullah ha parlato durante il sesto forum per il dialogo tra le civiltà: “C’è un pensiero che mi ossessiona da due anni. L’umanità soffre e questa crisi ha causato uno squilibrio della religione, dell’etica e dell’umanità intera. Per questo ho pensato di invitare le autorità religiose ad esprimere un parere su ciò che accade nel mondo e, se Dio vuole, cominceremo a organizzare incontri con i fratelli appartenenti ad altre fedi”. Si dice che ne avesse già discusso con il Papa durante la sfavillante visita in Vaticano a novembre. Abdullah non è soltanto un capo di stato, è “custode delle due moschee sante”, Medina e la Mecca. Per questo la proposta ha suscitato reazioni di entusiasmo. “Quando hai un gigante come il re saudita che raccomanda un simile dialogo, puoi soltanto sperare che sia quel riconoscimento della libertà di espressione e di religione di ciascuno” ha detto la portavoce di Bush, Dana Perino. “Lo incoraggiamo”. Khalil al Khalil del Consiglio della Shura dice che “non ha precedenti un simile richiamo di un leader saudita”. Il rabbino capo di Israele, Yona Metzger, allunga la mano ad Abdullah, affinché “cerchi di porre fine al terrore”. Il rabbino David Rosen, presidente del Comitato internazionale ebraico per le consultazioni interreligiose, sottolinea “l’ampio impatto dell’appello nella regione“. Il Jerusalem Post parla di “sviluppo considerevole che deve essere accolto con calore dal popolo ebraico. E’ assai significativo che il re di uno stato che per decenni ha promosso una versione estremista e intollerante dell’islam, abbia deciso di combattere il mostro che finora aveva contribuito a creare”. Anche se lamenta il possibile veto sulla presenza israeliana. Un’analisi del Middle East Media Research Institute rileva che “l’Arabia Saudita ha fatto un intenso sforzo per combattere il terrorismo e le sue basi religiose e ideologiche”. Il gran muftì saudita, Abdulaziz bin Abdullah al sheikh, massima autorità religiosa, ha emesso una fatwa per fermare l’emorragia di giovani diretti al jihad in Iraq. Un mese più tardi Salman al Awdah, influente chierico che lo stesso Osama bin Laden idolatrava, ha scritto una condanna di al Qaida. “Quanti innocenti, bambini, anziani, deboli e donne sono stati uccisi o resi senzatetto nel nome di al Qaida?”. Le autorità saudite hanno chiesto ai predicatori di smettere di maledire ebrei e cristiani e hanno sviluppato un programma inteso a combattere l’ideologia terrorista a scuola. Dove si insegna che “gli ebrei sono scimmie e i cristiani sono maiali” e che si devono odiare i “politeisti infedeli” del culto di Maria e degli imam sciiti. Il rabbino capo inglese, Jonathan Sacks, fra le massime autorità giudaiche, ha definito “ammirevole” Abdullah. Un colosso islamico, savio e coraggioso che si batte contro l’ideologia nefasta di al Qaida. E che prova a dare voce a quel milione di cristiani sauditi che devono persino seppellirsi in clandestinità. Nella vecchia Gedda esiste un cimitero di cinquecento non musulmani, gestito dal consolato svizzero, le mappe della città lo ignorano, i vicini non sanno cosa sia, non viene usato da mezzo secolo. Due tombe di ebrei sono datate 1912, un’antica lapide recita “braccio d’un lavoratore italiano” e bambini filippini riposano senza croce.
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