Una guida fedele.
L’influenza di Hermann Cohen
sul pensiero di Leo Strauss Irene Abigail Piccinini
Trauben Euro 20
C’era una volta l’ebraismo tedesco. Non che sia durato molto, nemmeno due secoli. Fino alla metà del Settecento, gli ebrei abitavano sì nelle terre germaniche, ma non si poteva certo parlare di una commistione profonda e quasi indissolubile tra giudaismo e germanesimo. Il legame simbiotico tra le due culture nacque dall’intuizione geniale di Moses Mendelssohn che, con la sua straordinaria traduzione della Bibbia, volle fare del tedesco veicolo di cultura e identità ebraica. Cominciò così una delle avventure intellettuali più importanti dell’Europa moderna: artisti, scrittori, scienziati di origine ebraica divennero ben presto autentico fermento spirituale della Germania. Pur con temporanee interruzioni, la parabola ascendente dell’integrazione giudaica continuò fino al 1871, quando fu sancita per legge la parità di diritti e doveri dei cittadini ebrei. Ma proprio allora, per una sorta di violento contrappasso, una parte della società tedesca cominciò a opporsi all’integrazione e ad alimentare le spire dell’antisemitismo.
I primi tre decenni del Novecento furono i più intensi della koiné giudaico-tedesco, quando la creatività tocco il punto massimo, pur cominciando a venarsi di luce crepuscolare. Oggi sappiamo, purtroppo, come quel mondo fu cancellato dal nazismo, ma chi visse allora il dilemma di essere ebreo e tedesco potè solo procedere a tentoni nel labirinto della storia, tra autoinganno e un senso sempre più bruciante di smarrimento.
In un saggio ben congegnato, Irene Abigail Piccinini cerca di descrivere le fratture del giudaismo tedesco, inesorabilmente spinto verso la propria fine, accostando due biografie intellettuali: quelle di Hermann Cohen e di Leo Strauss. Cohen, filosofo neokantiano, saggio, moderato e magnanimo nelle sue illusioni, può ben dirsi simbolo di un’intera epoca. "La Germania è lo spirito di Kant e di Beethoven" – scriveva quando già gli antisemiti si agitavano minacciosamente – e intendeva, con questo, non una realtà di fatto, ma piuttosto un ideale da realizzare. Per Cohen, insomma, il Paese, che ormai si mostrava insofferente verso l’intraprendenza degli ebrei, poteva salvarsi solo richiamandosi al proprio umanesimo, ai valori universali del rispetto tra eguali.
Ben più giovane di Cohen, Leo Strauss non poteva certo condividere l’idealismo del maestro. Eppure il confronto tra i due, condotto da Piccinini soprattutto attraverso i loci classici di Maimonide e Spinoza, mostra tensioni ma anche innegabili continuità.
E’ affascinante soprattutto osservare come Spinoza sia, per entrambi, pietra di paragone della modernità. Se Cohen critica violentemente il grande reprobo di Amsterdam per i suoi tratti antiebraici, Strauss ne difende la ricerca di libertà, che lo pose al di fuori dell’ebraismo, ma ne fece una sorta di europeo ante litteram. "Spinoza – scrive Strauss – non appartiene all’ebraismo, ma a quella piccola schiera di spiriti superiori che Nietzsche ha designato come "buoni europei". Se Cohen, insomma, pensava fosse ancora possibile abbandonare Spinoza, ed essere a un tempo ebreo e buon patriota tedesco, Strauss cercava in Europa, e non più in Germania, una patria della ragione.
Ma era il 1932. Troppo tardi – e troppo presto – per una "buona Europa".
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore