"Non prendetevela anche con gli scrittori e gli artisti" intervista al regista israeliano Amos Gitai
Testata: Avvenire Data: 11 aprile 2008 Pagina: 11 Autore: Daniele Zappalà Titolo: «Medio Oriente, l'arte ti salverà»
Da AVVENIRE dell'11 aprile 2008:
« S e si cerca di avvelenare ogni spiraglio di dialogo prendendosela anche con gli scrittori e gli artisti com’è appena accaduto a Parigi, in Medio Oriente non resterà che la guerra». È uno dei più forti timori di Amos Gitai, considerato spesso dalla critica internazionale come il maggiore regista israeliano contemporaneo. Artista giramondo ma da sempre attento all’attualità del Paese natale, Gitai è tornato a risiedere in Israele nel 1993, al momento degli Accordi di pace di Oslo. Molti dei suoi film hanno descritto la storia recente d’Israele. Le tensioni in Medio Oriente hanno bisogno di un cinema impegnato? «Ho sempre creduto che il miglior omaggio di un cineasta al proprio Paese sia un cinema dal forte impatto. Il termine 'impegnato', soprattutto in Medio Oriente, ha preso significati molto variegati. Per me, un cinema è forte quando ha semplicemente il coraggio di guardare la realtà in faccia. Fra i miei punti di riferimento, vi è il cinema neorealista italiano. Penso in particolare ai magnifici ritratti di società di Rossellini. Registi di questo calibro hanno saputo osservare la varietà di una società e della realtà senza chiudersi in un angolo. Credo che la società israeliana di oggi, con tutta la sua diversità, meriti di avere un cinema di questo tipo». Il cinema può diventare anche uno strumento di pace? «La situazione in Medio Oriente resta molto avvelenata e i media non svolgono sempre il loro lavoro con la dovuta sensibilità. Le televisioni, in particolare, tendono a riciclare immagini di violenza. Una sorta di spirale d’immagini che rincorrono altre immagini rischia di prendere il sopravvento sulla realtà, anche per molta gente sul posto, incoraggiando talora persino nuove violenze. Il cinema può permettersi di uscire da questo ciclo spesso infernale. Anzi, la sua funzione principale è quella d’interrogare questa realtà di violenza, allargare gli orizzonti della gente, mostrare le contraddizioni, rifuggire da ogni chiusura ermetica e ideologica delle parti in campo. Rispetto alle immagini schematiche e talora demagogiche di tanti reportage, il cinema deve essere più sottile. È in questo senso che può diventare una sorta di ponte per un futuro di coesistenza». Più in generale, il cinema può offrire spiragli critici contro il rischio di ottundimento delle coscienze? «Le immagini che circolano in televisione, su Internet e su altri nuovi supporti sono spesso approssimative o chiaramente contraffatte. Ciò rischia di nuocere alla trasparenza dello sguardo degli spettatori sulle grandi questioni di oggi. Il cinema può invece ancora schivare questa sorta di trappola». Lei ha appena partecipato al Salone del libro di Parigi, boicottato da diversi Paesi arabi che non hanno accettato il ruolo d’invitato d’onore offerto agli scrittori israeliani. Quali impressioni le sono rimaste? «Tutti coloro che sono interessati a un futuro di coesistenza pacifica in Medio Oriente sanno che gran parte degli scrittori israeliani sono delle persone moderate. Se si comincia a boicottare anche i moderati, con chi si potrà allora parlare? Se non si accetta di parlare con figure con Amos Oz, Abraham Yehoshua o David Grossman, con chi parlare? Con i fanatici o i militari? Trovo molto strano che i Paesi arabi propongano di boicottare il Salone del libro e non quello sempre parigino del Bourget, dedicato agli armamenti e al materiale militare. Eppure, ciò avrebbe almeno qualche coerenza agli occhi dei pacifisti. Ma il solo salone che si boicotta è invece quello del libro, frequentato da persone che spesso si sforzano di trovare un cammino di coesistenza». Uno dei suoi temi prediletti è l’esilio. Ad attrarla è anche il carattere universale di tale questione? «Oggi, ci troviamo in uno stadio in cui una parte considerevole del pianeta accoglie sfollati o esiliati, in senso molto largo. Per molti, non ci sono più viaggi felici. In Medio Oriente e in tutti i continenti, tanti equilibri secolari sono saltati. La gente non vive più nei propri villaggi d’origine. Spesso, ciò avviene a causa di guerre, di pressioni economiche o climatiche. Penso a grandi metropoli come San Paolo in Brasile o Calcutta. L’esperienza dell’esilio tende a diventare sempre più universale e il cinema non può voltare lo sguardo altrove». Il suo ultimo film, «Un jour, tu comprenderas» ('Un giorno capirai') è dedicato alla memoria della Shoah. Qual è il suo rapporto di cineasta con la memoria? «La memoria non dovrebbe mai ridursi a un sentimento di nostalgia. Essa è utile solo quando riesce ad evitare i peggiori ricorsi della storia». Lei è stato spesso invitato in Italia. Qual è il suo rapporto col nostro Paese? «Lo amo molto, perché trovo sia un Paese un po’ schizofrenico, esattamente come il mio Paese natale. Vi è una coesistenza estremamente interessante di una grande delicatezza umana, di una raffinatezza e profonda intelligenza, accanto ai loro esatti contrari».
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