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La Stampa Rassegna Stampa
11.04.2008 I "geni ebrei": dieci ritratti di Andy Warhol
da Freud a Kafka e Einstein, passando per Golda Meir

Testata: La Stampa
Data: 11 aprile 2008
Pagina: 15
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Warhol, i ritratti negati del "lacché degli ebrei"»
Da La STAMPA dell'11 aprile 2008:

Warhol guardone, provocatore, cinico. Warhol cantore del consumismo e globalista ante litteram. Warhol che a vent’anni dalla sua morte fa ancora discutere i critici come lo scorso novembre da Sotheby’s, quando l’attore inglese Hugh Grant ha rivenduto la tela Liz (Taylor) per 23,5 milioni di dollari dopo averla pagata sette volte meno. Infine Andy Warhol «lacchè della lobby ebraica» e della peggior specie, un lacchè «interessato».
Ogni scelta artistica del più noto e discusso rappresentante del pop americano è stata accompagnata da fiumi di polemiche. La cultura di massa, l’omosessualità in vetrina, l’iconografia di sé stesso e del proprio successo commerciale, l’ingegno degli ebrei. Nel 1980, all’inaugurazione della mostra «Andy Warhol: Ten Portraits of Jews of the Twentieth Century» (dieci ritratti di ebrei del ventesimo secolo, riproposta ora a New York), i critici insinuarono che l’improvvisa passione per il mondo ebraico dipendesse da un calcolo economico. Sul Village Voice Kim Levin lo definì «ipocrita, cinico e opportunista» e butto là che avrebbe certamente venduto bene sulle piazze di Miami e Tel Aviv. Artforum parlò di un’operazione furbetta che strizzava l’occhio a «un circuito di sinagoghe».
I «Jewish Geniuses», i genii ebrei, come Warhol chiamava questi dieci ritratti che tornano oggi d’attualità grazie all’esposizione «Warhol Jews: Ten Portraits Reconsidered» organizzata dal Jewish Museum di New York (fino al 3 agosto 2008), raccontano molto di quel tempo ma anche del nostro, non necessariamente più saggio. C’è la poetessa Gertrude Stein dipinta anche da Picasso nel 1906, l’attrice Sarah Bernhardt dall’espressione lolitesca, i fratelli Marx, Einstein, Kafka e Freud, il filosofo Martin Buber, la leggendaria premier israeliana Golda Meir all’epoca già ritiratasi alla periferia della vita politica. C’è, soprattutto, la provocatoria tempistica tipicamente warholiana di affrontare un tema scottante come la cultura ebraica negli anni in cui in tutto il mondo l’intellighenzia di sinistra ripudia Israele, vista baluardo del socialismo ideale ieri e oggi come potenza occupante che colonizza i territori palestinesi. Non a caso, lascia intendere il critico David Stromberg su Haaretz, la mostra ci svela un «Andy Warhol dimenticato», coscienza inquieta, specchio delle contraddizioni proprie e del suo tempo.
Nel 1980 il pubblico si divise «per appartenenza culturale», scrive nel catalogo il curatore Richard Meyer: «I critici dissero la loro ma i ritratti fecero il giro delle sinagoghe, dei centri culturali delle comunità ebraiche e dei musei regionali suscitando ovunque grande orgoglio etnico e religioso». La reazione che l’astuto artista-imprenditore aveva calcolato? In realtà Warhol, cresciuto in una famiglia uniata, di cattolici di rito orientale, si era cimentato con la materia su suggerimento dell’amico mercante d’arte Ronald Feldman che gli aveva sottoposto una lista di cento ebrei da immortalare, da Karl Marx a Bob Dylan. Il risultato fu la consueta miscela esplosiva d’apprezzamento entusiasta e polemica, provocazione intellettuale in equilibrio tra arte e pubblicità. Può darsi che Warhol cercasse davvero la gallina dalle uova d’oro con l’unico obbiettivo di accrescere il proprio patrimonio o che invece, come sostiene il direttore dell’Andy Warhol Museum Tom Sokolowski, avesse scoperto nei «jewish geniuses» «la profondità di una cultura che non aveva trovato altrove». La risposta aperta tocca all’osservatore chiamato, oggi al pari d’allora, a barcamenarsi tra realtà e artificio, il volto di Golda Meir segnato come quello di una qualsiasi donna della sua età e l’icona mitica, il simbolo da venerare o maledire per l’eternità.

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