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Avvenire Rassegna Stampa
08.04.2008 Israele, 60 anni
il presente e il futuro dello Stato in un'inchiesta della rivista "Terrasanta"

Testata: Avvenire
Data: 08 aprile 2008
Pagina: 27
Autore: Carlo Giorgi
Titolo: «Israele in festa si scopre fragile»

Da AVVENIRE del' 8 aprile 2008, un articolo dedicato ai 60 anni di Israele, ripreso dal numero di «Terrasanta» (la rivista edita dalla Custodia di Terra Santa) in distribuzione.
Sostanzialemente corretto, l'articolo contiene alcuni passaggi ambigui o imprecisi. Per esempio scrivere che  

Gli arabi israeliani non svolgono il servizio militare, ma go­dono sulla carta dei normali diritti civili di tutti i cittadini israeliani; anche se le loro condizioni sono più difficili: secondo il recente rap­porto semestrale dell’Istituto di as­sicurazione nazionale, il cinquan­tadue per cento delle famiglie ara­be israeliane vive sotto la soglia di povertà, percentuale di gran lunga superiore a quella delle famiglie po­vere non arabe

significa confondere le condizioni sociali e culturali degli arabi israeliani con l'eguaglianza di diritti e di benefici sociali di cui godono non solo sulla carta, ma di fatto e per legge.

Che, dandosi una costituzione, Israele vi introdurrebbe discriminazioni anti-arabe, è una mera ipotesi senza fondamento. La formula  Ibrahim Sarsur
, "deputato alla Knesset e uno dei rap­presentanti della minoranza araba", ma le sue parole sono riportate senza commenti. Al pari di quelle, che però si fondano sui fatti di  Nathan Ben Horin, "am­basciatore ed ex rappre­sentante di Israele pres­so la Santa Sede" e di  Sergio Della Pergola," tra i massimi studiosi di demografia israeliani".  

Scrivere

«Ha visto co­sa succede? Il continuo lancio di missili sulla città di Sderot e su al­tre località del Negev? – si dispera l’ambasciatore Ben Horin, nei gior­ni dell’ultima sanguinosa incur­sione israeliana di Gaza
significa presentare in modo confuso e potenzialmente fuorviante la sequenza degli avvenimenti, che ha visto prima l'aggressione palestinese, e in seguito la reazione difensiva israeliana.

Di seguito, il testo completo:



È il 29 novembre 1947 quando l’Assemblea ge­nerale delle Nazio­ni Unite adotta una riso­luzione per dividere la Palestina sotto mandato britannico in due Stati, uno arabo e uno ebraico, legati da un’unione eco­nomica. «Io ero a Tel Aviv quella notte – ricorda
 Nathan Ben Horin,
am­basciatore ed ex rappre­sentante di Israele pres­so la Santa Sede –: mi ri­cordo come fosse ieri gli altoparlanti che annun­ciavano la decisione del­le Nazioni Unite, l’entu­siasmo della gente che ballava per le strade e si abbracciava... Nello stes­so giorno purtroppo ci furono le nostre prime vittime. Abbiamo avuto sessant’anni di guerra – commenta amaramente l’ambasciatore –. Una guerra fratricida assurda perché in fin dei conti i nostri due popoli ri­marranno sulla stessa terra, uno ac­canto all’altro; e nessuno al posto dell’altro». Per l’anniversario sono previste legittime celebrazioni. Ma, terminata la festa, quale futuro im­maginare per lo Stato di Israele? Quale equilibrio con gli Stati vicini? Su quali valori condivisi i suoi cit­tadini potranno continuare a co­struire uno Stato democratico?
  Il sogno che abita nel cuore di I­sraele è – di certo e da sempre – quello della pace. Nella dichiara­zione di indipendenza del 14 mag­gio 1948 i padri fondatori scrivono: «Lo Stato d’Israele […] incremen­terà lo sviluppo del Paese per il be­ne di tutti i suoi abitanti, sarà fon­dato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai pro­feti ». E gli intellettuali di oggi so­gnano ancora come i profeti di un tempo: se ci fosse la pace, dicono gli intervistati, sarebbe possibile immaginare un mercato unico tra i Paesi del Medio Oriente che rilanci lo sviluppo della regione, collabo­razione tecnologica tra i governi dell’area; università israeliane a­perte alla formazione di studenti a­rabi dei Paesi vicini e viceversa. E I­sraele, Stato democratico e laico, potrebbe svolgere il compito stra­tegico di contaminare cultural­mente le nazioni arabe circostanti. Ma questo futuro sembra irrime­diabilmente lontano. «Ha visto co­sa succede? Il continuo lancio di missili sulla città di Sderot e su al­tre località del Negev? – si dispera l’ambasciatore Ben Horin, nei gior­ni dell’ultima sanguinosa incur­sione israeliana di Gaza –. È il rifiu­to di riconoscere il legame mille­nario del popolo ebraico con la sua terra d’origine. Questo ha provo­cato una catena di guerre, di terro­rismo, di ritorsioni, con decine di migliaia di morti».
  «La conflittualità che si vive da noi è uno stillicidio quotidiano che in Europa non riuscite a percepire»,
racconta il professor Sergio Della Pergola, tra i massimi studiosi di demografia israeliani. «Arrivare a un accordo per spartire la terra è necessario, anche a costo di dolo­rose rinunce. Ci vuole realismo po­litico e reclamare tutto è impossi­bile, per entrambi». Di fatto la sopravvivenza di Israele è minata da due diversi fronti di problemi. Il primo 'esterno' allo Stato; ed il secondo 'interno'. Il fronte 'esterno' è quello più noto: è la linea di crisi nata con l’ingres­so, sessant’anni fa, del nuovo Sta­to di Israele nell’equilibrio medio­rientale e, oggi, alimentata dall’o­stinazione di Iran, Siria e di alcuni movimenti fondamentalisti arabi a non riconoscere il diritto a Israele ad esistere. È la guerra disperata dei kamikaze palestinesi ma anche del­le cieche occupazioni dei coloni i­sraeliani. Dei missili Qassam e del­le devastanti risposte dell’aviazio­ne e dei carri armati con la stella di Davide. è la spirale di violenza nel­la quale ciascuno ha una parte di responsabilità e che rende inade­guati tutti i percorsi di pace intra­presi: « A nnapolis? Là non è successo niente – commenta sfiducia­to
  Giorgio Sacerdoti,
docente di Di­ritto internazionale dell’Università Bocconi di Milano e presidente del­l’organo di appello dell’Organizza­zione mondiale del commercio (Omc), a proposito dell’ultima con­ferenza di pace negli Usa –. È stata solo l’occasione per il presidente a­mericano di farsi bello. Le cose an­dranno peggio». La pace è lontana. Ma Israele, per rendere solido il proprio futuro, de­ve pensare anche agli equilibri in­terni allo Stato, che conservano al­cuni punti di fragilità. Israele, ad e­sempio, è tra i pochissimi Stati al mondo a non avere ancora una Co­stituzione. La legge fondamentale dello Stato, quella nel cui primo ar­ticolo sono inscritti i valori condi­visi da tutti i cittadini, garanzia e ri­ferimento per la convivenza, non c’è. Scriverla potrebbe aiutare? Po­trebbe essere il cemento per unire cittadini agli antipodi, come orto­dossi e laici, ebrei ed arabi israelia­ni, coloni della prima ora e nuovi e­migrati dell’Est europeo? «Esiste u­na commissione parlamentare che sta studiando la costituzione – rac­conta Della Pergola –. Ma la costi­tuzione è la soluzione? Sono per­plesso. In Gran Bretagna non esiste una costituzione scritta; ed è la pro­va che uno Stato può essere demo­cratico anche senza. Abbiamo un corpo di leggi di valore costituzio­nale, ma quello che manca è l’arti­colo uno o il cosiddetto preambo­lo.
 
Che è anche il più difficile da scrivere. Mettere d’accordo tutte le componenti dello Stato su quel­­l’articolo credo sia impossibile: se diciamo che lo Stato deve essere e­braico la minoranza araba insorge; se diciamo che non lo è, insorgono gli ebrei ortodossi. Non c’è solu­zione ».
  «Penso che la costituzione non mi­gliorerebbe la condizione della mi­noranza araba – afferma dal suo punto di vista
Ibrahim Sarsur, de­putato alla Knesset e uno dei rap­presentanti della minoranza araba –; è probabile che se Israele deci­desse di avere una sua propria costituzione cercherebbe di privile­giare le necessità della popolazione ebraica. Non sono felice dello status quo, ma è meno dannoso che avere una costituzione che non garantisca i diritti della minoranza araba».
  Proprio la convivenza tra la mag­gioranza ebraica e la consistente minoranza araba dello Stato (il ven­ti per cento della popolazione) è un altro elemento di possibile fragilità per Israele. «Sia arabi che ebrei non hanno un altro posto dove andare – spiega Sarsur –. Israele non può mandare i cittadini arabi in un al­tro Paese e gli arabi non possono gettare gli ebrei a mare. Entrambe le parti devono imparare a vivere in pace e assieme. Anche se noi a­rabi non sopportiamo più di vive­re come cittadini di terza o quarta
categoria». Gli arabi israeliani non svolgono il servizio militare, ma go­dono sulla carta dei normali diritti civili di tutti i cittadini israeliani; anche se le loro condizioni sono più difficili: secondo il recente rap­porto semestrale dell’Istituto di as­sicurazione nazionale, il cinquan­tadue per cento delle famiglie ara­be israeliane vive sotto la soglia di povertà, percentuale di gran lunga superiore a quella delle famiglie po­vere non arabe.
 A
mmette Della Pergola: «Per un arabo israeliano l’ebraicità è una contrad­dizione in termini. Il fatto è che or­mai lo Stato monolitico non esiste più, neppure in Europa. Tuttavia il problema delle minoranze po­trebbe essere in parte risolto pen­sando a una revisione dei confini. Le minoranze arabe potrebbero andare a far parte dello Stato di Pa­lestina ». La questione demografi­ca infine è centrale per il futuro di Israele, incuneato in un’area geo­politica con una crescita demo­grafica araba, molto più alta degli standard 'occidentali' di Tel Aviv : «Dobbiamo trovare un equilibro tra giustizia e sopravvivenza. E per sopravvivere dobbiamo riuscire ad attrarre immigrazione ebraica – continua Della Pergola –. Miglio­rare i nostri standard sul fronte del­la sanità e dell’istruzione. Investi­re di più sugli studenti e sulla ri­cerca e lo sviluppo. E questo po­trebbe andare a favore anche dei nostri vicini mediorientali».

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