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La vita fa rima con la morte Amos Oz Traduzione di Elena Loewenthal Feltrinelli Euro 10,00 "Perché mai scrivere di tutto ciò?", si domanda lo scrittore protagonista della novella di Amos Oz, "La vita fa rima con la morte". "Tutto ciò" sono le persone e i luoghi che gli sono venuti agli occhi prima e durante una presentazione del suo ultimo libro, in un circolo culturale, e di cui ha iniziato a tratteggiare nella mente la finzione di una vita – un esercizio romanzesco, "per alleviare insopportabili impulsi", direbbe Nathan Englander. Quelli che possono essere di uno scrittore di quarantadue anni, nella Tel Aviv dei primi anni Ottanta, lontano dall’incessante ronzio che è la voce del relatore, "un alveare irritato", e fin troppo cosciente del fatto che alla fine "con pazienza e umile serietà" risponderà alle domande del pubblico, citerà, punzecchierà con benevolenza il relatore, si stupirà delle proprie parole, sa che non gliene importa. Meglio, molto meglio occuparsi dei suoi nuovi personaggi, anche di quell’Arnold Bartok – è il nome che gli ha dato – a cui si devono le risatine sarcastiche che ogni tanto gli par di sentire. Bartok è un vecchio avvizzito, che avrà perso il lavoro e vive dando lezioni di matematica e assistendo la madre Ofelia, paralizzata alle gambe; Riki, giovane cameriera che ha "odore di donna stanca", il profilo delle cui mutandine segna un mondo, avrà avuto una storia col secondo portiere di una squadra di calcio; i due loschi figuri intravisti al bar di Riki si chiameranno Leon, quello autoritario, e Shlomo, quello che pare perduto in un suo mondo di segrete corrispondenze; Pesach Yeqhet, un anziano e burbero signore in attesa di parlare, diventerà un ex-professore ostile alla "letteratura ebraica contemporanea", che vede ridotta alla pochezza della satira e della parodia; un timido ragazzo brufoloso sarà un aspirante poeta che si firma Yuval Dotan, e avrà una storia con quella signora pesante, il viso largo e lo sguardo dolce, a cui ha dato il nome di Miriam La Nehurai. Un corteo di figure sbozzate con quella grazia che è fertilità di immaginazione, che sola permette di pareggiare la scommessa di una novella in bilico tra l’esercizio di stile e la riflessione in odore di narcisismo. A riguardo fa eccezione il breve idillio (immaginato o vero?) tra lo scrittore e la lettrice, che ha avuto in dono il nome di Ruchale Reznik, uno staccato troppo insistito dove in un rigurgito moraviano lo scrittore arriva a parlare al suo "lui" – imperdonabile, per uno scrittore come Oz. Ma è solo una brutta ripresa, in un notevole cortometraggio girato con camera a mano, quasi Nouvelle Vague, con l’obiettivo aperto sugli esterni e qualche primo piano sulla figura del poeta del quotidiano Zofonia Beit Halachmi, che in realtà non si chiamava così e forse è morto o forse no, presenza in qualche modo tutelare dello scrittore che gira ramingo nella notte – ma senza tirare calci ai barattoli. E se si pensa al tema del romanzo viene da sorridere, ricordando il fulminante ritratto del cattivo lettore – ma vale anche per il cattivo recensore – offerto da Oz in Storia di amore e di tenebra: "Quello pigro, sociologo, pettegolo-guardone". Chissà quante domande, signor Oz. Noi preferiamo con lei "accendere un po’ di luce per vedere che cosa succede" Tiziano Gianotti La Repubblica delle Donne |
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