La STAMPA ci fa conoscere le opinioni di Marwan Barghouti nella corrispondenza di Francesca Paci, pubblicata a pag.15, con il titolo " Al Fatah risorgerà e io sarò il presidente". Nulla che non si sapesse già. Rimane però lo stupore di vedere come la corrispondente stia al gioco di Berghouti, quando richiama temi e paragoni di pura propaganda. Dall' < assassinio> di Arafat, alla israeliana, che , e non vuole il < ritorno dei rifugiati>. Se con questi programmi Barghouti pensa di candidarsi a partner con Israele si sbaglia. Si preoccupi semmai dei cinque ergastoli ai quali è stato condannato per i crimini commessi, e per i quali si trova in un carcere-albergo, da come racconta le sue giornate, jogging,Tv,libri, giornali e tutto il tempo per fare liberamente la sua attività politica.
Ecco l'intervista;
Il futuro presidente palestinese divide con due connazionali la cella numero 3 nella prigione israeliana di Hadarim, a nord di Tel Aviv. «Appena Abu Mazen annuncerà le dimissioni mi presenterò» promette Marwan Barghouti. Senza ripensamenti, stavolta: «Vincerò». Arrestato nel 2002 e condannato a 5 ergastoli, il popolare comandante dei Tanzim, la milizia di Fatah, si era già proposto nel dicembre 2004, candidato indipendente registrato dalla moglie Fadwa. Una fuga in avanti per l'uomo che lo Shin Bet considera la mente della seconda intifada e i palestinesi un eroe. Tra le credenziali politiche portava la responsabilità della hudna, la prima tregua siglata con Israele. Poi però, fedele al partito, aveva ceduto il passo ad Abu Mazen. In questa intervista, rilasciata attraverso l'avvocato Elias Sabbagh, Barghouti «prevede» nuove elezioni entro il 2008 e una «mani pulite» interna a Fatah. Oltre, ovviamente, alla propria liberazione per cui si batte anche il ministro israeliano delle infrastrutture Ben-Eliezer che lo ritiene «il leader palestinese più influente e il solo interlocutore possibile».
Secondo i sondaggi l'ex premier Haniyeh ha scavalcato Abu Mazen nel cuore dei palestinesi, 47% a 46%. Hamas può vincere ancora?
«No. Sono certo che Fatah candiderà politici nuovi, rispettati, con le mani pulite. E ce la farà. Nel 2006 la gente votò contro il tracollo del processo di pace, la rioccupazione della Cisgiordania, l'assassinio di Arafat, la corruzione di Fatah. Elezioni trasparenti, un'eccezione nel mondo arabo. Fu Fatah a convincere Hamas, parte integrante del popolo palestinese, a partecipare. Hamas ebbe ragione del malcontento, ottenne la maggioranza dei seggi, ma non convinse il mondo. Non restava che il governo di unità nazionale, lo sostenni con il Documento dei prigionieri: niente da fare. Da allora è andata sempre peggio».
Poi è venuto il golpe di Gaza.
«Quanto Hamas ha fatto a Gaza è osceno, indebolisce la causa palestinese. L'unità del popolo è tutto quel che abbiamo, la nostra storia. Se non agiamo, le divisioni ci distruggeranno. Hamas deve restituire Gaza al presidente Abu Mazen e accordarsi per un nuovo governo che formi un apparato di sicurezza senza fazioni e fissi la data delle elezioni entro il 2008. Siamo a un bivio e Israele non ci aiuta: con la sua politica di aggressione pensa di piegarci e invece rafforza i duri Hamas».
Dopo Gaza c'è stata la meteora di Annapolis, gli scontri con l'esercito israeliano a Jabalya: esploderà una nuova intifada?
«Il vertice di Annapolis è morto perché Israele non ha interesse alla pace, continua a costruire insediamenti, confiscare terre, ebraicizzare Gerusalemme, strangolare l'economia palestinese. Una nuova intifada? Finché Israele non ci lascerà creare uno Stato indipendente con capitale Gerusalemme Est lungo i confini del '67, finché non garantirà il diritto al ritorno dei rifugiati e la libertà agli 11 mila prigionieri palestinesi non ci sarà pace né sicurezza per nessuno. L'abbiamo dimostrato, nonostante le sofferenze e i morti non abbandoneremo la lotta».
Il leader delle Brigate al Aqsa Zakariya Zubeidi ha deposto le armi e oggi giudica l'intifada del 2000 un fallimento. Lei?
«Se non ci fosse stata la resistenza gli israeliani avrebbero forse lasciato Gaza? No. Erano lì da 38 anni. Invece se ne sono andati e questo è stato un grande risultato dell’intifada».
Ci racconti la sua vita in carcere.
«Alle 6 ci contano. E' la sveglia. Poi esco nel cortile blindato e faccio un paio d'ore di jogging. Dopo la seconda conta, alle 10 e mezza, c'è la colazione: ce la prepariamo da soli comprando pane e caffè alla mensa. A mie spese ricevo i giornali israeliani Haaretz, Maariv, Yediot Ahronot, e, talvolta, il quotidiano arabo Al Quds. Nel resto del tempo guardo la tv, ne abbiamo una con un limitato numero di stazioni in ogni cella, e leggo molto, almeno un volume a settimana».
Che tipo di libri legge?
«Romanzi arabi e palestinesi. E saggi di politica israeliana».
Ha letto «Long walk to freedom», l'autobiografia di Nelson Mandela? Qualcuno vede in lei il Mandela palestinese, l'uomo della riconciliazione, nonostante, a differenza del leader sudafricano, abbia preferito il kalashnikov alla parola.
«Conosco il libro. Qui è presto per un Mandela palestinese: Israele non ha mai avuto un De Klerk, il politico bianco che abolì la discriminazione razziale e riconobbe alla maggioranza nera il diritto all'autodeterminazione. Non cerchiamo vendetta, Arafat ha riconosciuto Israele nel '93. Appena avremo uno Stato sapremo perdonare, come Mandela, e vivere in pace con Israele».
Parola del futuro presidente Marwan Barghouti?
«Sono fiero del sostegno dei palestinesi, un popolo che merita capi che si sacrifichino. L'ultimo giorno dell'occupazione israeliana sarà il primo della collaborazione reciproca».
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