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La Stampa Rassegna Stampa
30.03.2008 Una analisi monca della stampa palestinese
se è in crisi è perchè non è libera, ma Francesca Paci non se ne accorge

Testata: La Stampa
Data: 30 marzo 2008
Pagina: 15
Autore: Francesca Paci
Titolo: «I giornali palestinesi uccisi dalle pallottole»

Sulla STAMPA di oggi, 30/03/2008, a pag.15, un articolo di Francesca Paci dal titolo " I giornali palestinesi uccisi dalle pallottole ", nel quale analizza il declino dell'informazione palestinese. A noi sembra che il motivo della crisi non sia tanto da addebitare alla guerra, quanto alla mancanza della libertà di stampa, in una società nella quale il dissenso viene represso violentemente. Non sta bene dirlo, non è politicamente corretto, ma è la verità. Non è la TV a far concorrenza alla parola scritta, sappiamo tutti quali siano i criteri che guidano l'informazione televisiva nelle società arabe, pura propaganda e null'altro. L'unico< vantaggio> della Tv è il costo rispetto ai giornali. Nel pezzo della Paci manca qualsiasi richiamo a questa assenza, guai a parlare di mancanza di libertà nel mondo arabo, men che meno citare il paragone con la libertà assoluta in Israele. Nei giornali italiani equivale a non fare più carriera.

Su una cosa almeno la Palestina è all'avanguardia, il tramonto della stampa: qui i giornali di carta invecchiano prima che in qualsiasi altra parte del mondo» osserva Rima Jaffal seduta al computer di un piccolo internet-point in piazza Al Manar, a Ramallah. Dall'altro lato della trafficata rotonda lampeggia la luce al neon di Stars and Bucks Café, versione palestinese del celebre marchio di Seattle Starbucks. La cugina Nidal le scrive ogni giorno dal campo profughi di Jabalya, nella Striscia di Gaza, email dettagliate come un articolo di Kapuscinski per tener vivo il loro ultimo incontro, sei anni fa. Alla fine di febbraio un tribunale controllato da Hamas ha messo al bando a Gaza al Ayyam, uno dei tre principali quotidiani palestinesi, reo d'aver pubblicato una vignetta satirica sul premier deposto Ismail Haniyeh. Poco male, commenta Rima: «Laggiù Al Ayyam vendeva meno di tremila copie al giorno». Nidal, laureata in lingue straniere come lei, non l'ha mai comprato: in casa si è letto sempre e solo Al-Hayat Al-Jadida, l'organo ufficiale di Al Fatah. Quando è sparito dalla circolazione, dopo la guerra civile di giugno, la famiglia è passata alle news online.
«La società palestinese è instabile, strutturalmente inadatta alla lettura dei quotidiani», spiega Hafizh Barghouthi, direttore di Al Hayat al-Jadida. Sulla porta del suo ufficio, austero come la sede dell'Unità anni '60, una gigantografia di Arafat. In Cisgiordania Al Hayat diffonde 10 mila copie, i concorrenti Al Ayyam e Al Quds 20 e 25 mila. Le altre 30 testate, compresi 15 magazine, non raggiungono quota mille. Gaza è un mercato a parte: le uniche due pubblicazioni sopravvissute al golpe, il quotidiano Al Risala e il settimanale Falasteen, appartengono ad Hamas e contano poche centinaia di lettori.
L'edicola di Mohammad, su Al Itha'a street, la via commerciale di Ramallah, espone la prima pagina di Al Ayyam, il foglio dell'intellighenzia di proprietà di Munib al-Masri, il Berlusconi palestinese, popolare nei quartieri bene di Al Tire e Al Massiun. Alle 13 Mohammad ha venduto sei copie. La stampa nazionale, secondo Hafizh Barghouthi, sconta il collasso economico seguito alla seconda intifada, la rivolta palestinese del 2000: «La pubblicità copre meno del 50 per cento delle spese e, diversamente da Al Quds, noi non accettiamo inserzioni israeliane. Il Fondo d'investimento palestinese, la nostra principale risorsa, è agli sgoccioli». Alla morte di Arafat, Al Hayat si è indebitata con l'Arab Bank. Oggi, la testata che ospita il poeta Ahmad Dahbur, mantiene a fatica cento dipendenti, tra giornalisti e tipografi: «I lettori non sono fedeli come in Italia, gli abbonamenti non esistono, basta che gli israeliani impongano il coprifuoco e la distribuzione impazzisce. Un giornale viene letto da almeno venti persone che se lo passano di mano in mano nel quartiere».
Eppure la città sede del governo palestinese è un grande cantiere. L'elegante Cafè de la Paix, in Raja'a street, è l'ultimo dei locali aperti nelle ultime settimane, lasagne alla bolognese e vino cileno. Un mese fa 160 mila dipendenti del pubblico impiego hanno scioperato in tutta la Cisgiordania per un salario migliore, avanguardia di quella società più civile e meno politica che si avvantaggia delle misure economiche del premier Salam Fayaad. Ramallah si muove, i giornali no. »Fino al '92 divoravamo la parola scritta» nota il giornalista Elias Zananiri. Ora non più, lo zeitgeist palestinese, lo spirito del tempo seppellisce con la carta stampata un mestiere antico: «La realtà cambia rapidamente, non c'è tempo per riflettere, la tv racconta assai meglio la Storia in divenire».
Il giornalismo resta un mito, quarto potere ideale in un Paese che non ha ancora sviluppato i primi tre. «Parlate con i giovani di Ramallah e trovare centinaia di reporter» dice Abdallah al Shaikh, ricercatore di letteratura all'università di Birzeit e columnist di Alalui Takafa, l'inserto culturale di Al Ayyam. Il Development Media Institute, il dipartimento media del maggiore ateneo della Cisgiordania, laurea ogni anno 120 aspiranti Pulitzer. Una moda, secondo Abdallah: «Pochissimi riescono a vivere scrivendo». Lo stipendio medio è 2500 schekel, circa 500 euro. Ma i freelance se la passano male: 20 schekel a notizia, 4 euro per un articolo che può costare la galera.
«Lo scopo di un giornalista è cercare la verità, ma la verità qui è materia scomoda», nota Bassam Eid, reporter investigativo e fondatore del Palestinian Human Right Monitoring Group che da anni denuncia le violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi. «All'epoca di Arafat un'inchiesta poteva costare l’accusa di collaborazionista e la morte». Molto meglio lasciar lavorare gli altri: «Quando i palestinesi vogliono sapere davvero cosa accade nel mondo, e quindi a casa propria, consultano i media israeliani. Diffidano dei propri politici e dei giornali che li rappresentano». C'è Al Jazeera d'accordo, la luce perpetua che brilla in ogni salotto arabo, ma nessuno interpreta il futuro locale meglio del nemico al di là del muro.
Rima spedisce l'ultima email e si avvia verso casa: «A Ramallah internet è più caro che a Ginevra, sei schekel per un'ora, oltre un euro e non ti servono neppure il caffé». I quotidiani costano 2 schekel, il prezzo di otto pitas, il pane arabo, e nutrono molto meno.

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