Israele accoglie i profughi del Darfur un articolo di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 28 marzo 2008 Pagina: 0 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Begin accolse i vietnamiti, oggi Israele dà rifugio ai profughi del Darfur»
Dal FOGLIO del 28 marzo 2008:
Roma. I 1.412 abitanti del kibbutz Maagan Michael quella sera si riunirono nella mensa per decidere se accogliere cinque nuovi ospiti provenienti dal Darfur. In maggioranza hanno votato sì e come loro hanno fatto altre comuni agricole. “Come avremmo potuto respingerli?” ha chiesto Janine, insegnante di ebraico. “Gli ebrei che cercarono di fuggire dalla Germania negli anni Trenta vennero ricacciati verso la morte. Come avremmo potuto commettere lo stesso crimine?”. In un testo scritto per la Corte suprema, il grande storico dell’Olocausto Yehuda Bauer sostiene che un rifiuto di Israele di accogliere i profughi del Darfur equivarrebbe al “rifiuto iniziale della Gran Bretagna di accogliere profughi ebrei dalla Germania e dell’Austria nella Seconda guerra mondiale”. Anche Tommy Lapid, già ministro della Giustizia israeliano e anche lui scampato ai campi nazisti, stabilisce il parallelo con gli ebrei che fuggivano in Gran Bretagna dalla Germania, “solo per essere incarcerati perché provenivano da una nazione nemica. Non possiamo permetterci di guardare dall’altra parte, mentre viene commesso un orribile genocidio”. Avner Shalev, presidente del memoriale dell’Olocausto Yad Vashem, ha scritto una lettera al premier Ehud Olmert, in cerca di un equilibrio fra il dovere di accoglienza e la necessità di proteggersi dai clandestini: “Il ricordo dell’Olocausto ci impedisce di restare indifferenti, quando qualcuno bussa alla nostra porta in cerca di aiuto”. Si calcola che fino a oggi nella provincia del Sudan occidentale siano stati uccisi più di 300 mila civili, mentre 2,5 milioni di persone hanno cercato rifugio nei campi profughi. Sono gli stessi perseguitati del Darfur a spiegare il paradosso: “Anche se siamo musulmani, il mondo islamico non ha fatto nulla per proteggerci” dice Yassin, un profugo la cui drammatica fuga dal Darfur, raccontata dal Guardian, lo ha portato tre anni fa in Israele. E’ stato uno dei primi darfuriani a riuscire ad entrare in Israele attraverso la frontiera egiziana, per dedicare la propria vita ad aiutare i connazionali che hanno compiuto lo stesso viaggio. Yassin, “gioviale ex-architetto trentenne”, è oggi direttore di Bnei Darfur (Figli del Darfur), un’organizzazione che aiuta i profughi sudanesi a integrarsi nella società israeliana, e che la settimana scorsa ha ricevuto lo status di ente non-profit dal governo israeliano. Yassin ha raccontato al Guardian come i profughi darfuriani siano maltrattati dalle autorità, fredde e indifferenti in Egitto, che è il primo porto di rifugio per i molti che fuggono dalla violenza etnica e religiosa in Sudan. “I figli del Darfur hanno paura di uscire di casa in Egitto per timore di essere aggrediti”, spiega Yassin, ricordando il massacro di decine di profughi dopo una protesta fuori dal quartier generale dell’Unhcr. “Non è che l’Egitto non si prenda cura dei profughi in generale – aggiunge – Dopo tutto, trattano molto bene i somali. Tuttavia, quando si tratta di noi, è diverso. E’ colpa del razzismo”. “Tutti i paesi arabi appoggiano il governo del Sudan: il nostro problema è con la Lega Araba” dice Yassin scuotendo la testa, pensando al dramma della sua gente. Dopo aver assistito al massacro di quasi tutta la sua famiglia durante un attacco della milizia al suo villaggio, fuggì per rifugiarsi in Egitto, ma presto fu costretto ad andarsene. Yassin decise che le cose non potevano andare peggio sul versante israeliano del confine, nonostante l’indottrinamento anti israeliano introiettato col latte materno in Sudan. “In patria il governo controllava tutti i media – spiega Yassin – Le stazioni televisive, la radio, i giornali, tutti erano molto ostili verso Israele. Lo descrivevano come uno stato nemico pieno di assassini, e la causa di tutti i problemi del mondo”. Yassin e i suoi amici hanno formato Bnei Darfur e hanno avuto un successo incredibile nella missione di creare una comunità auto-sufficiente “che non rappresenti un salasso per la società israeliana”. Ogni profugo ha un lavoro, una casa e l’accesso all’assistenza medica. “I soli senza lavoro sono quelli appena arrivati, e ce ne occupiamo al più presto”, dice Yassin. I bambini sono stati inseriti nelle scuole israeliane, dove imparano l’ebraico. Molti israeliani hanno sposato la causa darfuriana, Israele ha provveduto alla gente di Yassin “come nessun paese arabo avrebbe fatto”, un fatto per cui è eternamente grato. Esiste un precedente glorioso alla fine degli anni Settanta. Menachem Begin, alla vista di vietnamiti che lasciavano il loro paese a bordo di imbarcazioni precarie, ordinò che decine di loro fossero accolti in Israele. L’assorbimento di quella comunità fu coronata dal successo. I figli dei profughi vietnamiti sono orgogliosi cittadini israeliani. “E’ un gesto naturale per noi” annunciò Begin, che aveva perso tutta la famiglia nell’Olocausto. “Ricordiamo la nave di 900 ebrei, la St. Louis, che lasciò la Germania poche settimane prima della Seconda guerra mondiale e fu rifiutata. Era naturale che come primo atto da primo ministro garantissi un rifugio a queste persone”.
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