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La Stampa Rassegna Stampa
27.03.2008 Israele alla Fiera del libro, trentatreesima puntata
un intervento della scrittrice e giornalista Geraldine Brooks

Testata: La Stampa
Data: 27 marzo 2008
Pagina: 40
Autore: Geraldine Brooks
Titolo: «Quando parlano le armi gli scrittori non devono tacere»
Da La STAMPA del 27 marzo 2008:

Come corrispondente estera incaricata di coprire il conflitto israelo-palestinese, ho dormito per terra nelle affollatissime baracche dei profughi di Gaza e della Cisgiordania. Sono mezza soffocata per i gas urticanti, mentre madri agitatissime, prese in mezzo al fuoco incrociato, cercavano invano di trascinare al sicuro i loro bambini. Ho aspettato sotto il sole cocente nelle lunghe code ai posti di blocco, mentre giovanissimi soldati israeliani vessavano e umiliavano i palestinesi che andavano ai loro malpagati lavori. Come membro del consiglio di una Fondazione che offre borse di studio universitarie a profughi palestinesi dotati ma poveri, ho fatto sterili pressioni per tirar fuori studenti innocenti da quella prigione che è Gaza sotto il blocco israeliano.
Eppure io non boicotterò la Fiera del Libro di Torino e sono dispiaciuta che così tanti scrittori arabi abbiano invece deciso di farlo. Dicono di agire per protesta contro il presunto omaggio della Fiera ai sessant’anni dello Stato israeliano. Non si ottiene però nulla dall’assenza proprio di quelle voci che più ardentemente possono sostenere la causa araba. Perché scegliere il silenzio rispetto al dibattito? Il ritiro rispetto all’impegno? In questo atto di negazione e di assenza, io sento l’eco dei tanti errori che nei decenni hanno costellato la tragedia israelo-palestinese.
Se il protetto di Hitler Haj Amin Al Husseini e i suoi alleati non avessero combattuto la spartizione nel 1948, se il capo della Lega Araba, Azzam Paha, non avesse chiesto a gran voce una «guerra di sterminio e un colossale massacro», oggi i palestinesi potrebbero celebrare i sessant’anni di un loro Stato pacifico e prospero. Se il vertice arabo di Khartoum non avesse risposto con i tre «no» (al riconoscimento di Israele, alla trattativa, alla pace) all’offerta israeliana di negoziare la restituzione della terra dopo la Guerra dei sei giorni, le colline della Cisgiordania non sarebbero state schizzate di insediamenti israeliani incontrollati, le sue falde acquifere prosciugate e il suo accesso spezzettato dalle strade israeliane. Se Arafat non avesse voltato le spalle agli Accordi di Camp David del 1979, i palestinesi non sarebbero dove sono ora, ingabbiati come animali dal potere militare israeliano, mentre il nichilismo di Hamas minaccia di condannare un’altra generazione all’oppressione e alla sofferenza.
Gli scrittori arabi dovrebbero portare le loro voci eloquenti e poetiche a Torino. Se, come sostengono, la scelta di Israele come ospite d’onore è pura propaganda, allora controbattano. Facciano sentire le loro ragioni. Rifiutino le bugie, se vengono raccontate; raccontino le storie dei dimenticati e degli invisibili. Il cambiamento arriva dal rumore, non dal silenzio. Mostrino al mondo una faccia cortese e pensosa, anziché quei visi esaltati di estremisti in festa per l’assassinio di civili che sono diventati l’immagine corrente dei palestinesi. In un conflitto dove le armi e le bombe parlano più forte, facciano sentire invece la letteratura e la poesia.
Il poeta israeliano Aaron Shabtai, che si è unito al boicottaggio, dice che «non c’è motivo per celebrare» i sessant’anni di esistenza di Israele. Eppure Israele ha prodotto una vitalissima cultura letteraria, facendo pure rivivere una lingua morta. Questo non merita una celebrazione? La letteratura di Israele è autocritica e dissidente. Questo non merita una celebrazione? E se non lo meritano loro, lo merita quella libertà di coscienza che consente a Shabtai di esprimersi senza timore di una rappresaglia di stato. Quando, negli Anni 80-90, lavoravo come giornalista in Medio Oriente, Israele mi concedeva la piena libertà di aggirarmi per i Territori occupati e intervistare chi volevo. Invece per andare nei campi profughi palestinesi della Giordania dovevo avere un permesso speciale del governo ed essere accompagnata da un uomo dell’apparato di sicurezza, la cui presenza tratteneva i palestinesi dal parlare liberamente. In Egitto, dove vivevo, mi si mentiva in continuazione e mi si ostacolava quando cercavo di avere notizie, soprattutto sulla germogliante popolarità dei movimenti islamici. Se gli scrittori palestinesi, egiziani o giordani non riescono a fare causa comune con gli scrittori israeliani che sono critici verso la politica del loro governo e la brutalità dell’occupazione, chi sanerà la spaccatura? Se gli artisti, le cui opere formano il pensiero delle società, non possono incontrarsi e conversare su un terreno neutro, che opportunità di farlo possono avere i politici?
Io celebro la sopravvivenza di Israele ma insieme deploro la sua brutale occupazione. Boicottate in tutti i modi la Fiera del libro di Torino se non desiderate la soluzione dei due Stati, se non avete la speranza che uno Stato israeliano e uno Stato palestinese possano un giorno prosperare in pace, fianco a fianco, sui loro stretti frammenti di terra. Se invece sperate in questo esito, allora il dialogo fra artisti e scrittori è il prerequisito indispensabile.
Sono stata invitata a Torino a parlare del mio romanzo, I custodi del libro, che segue le tracce di un manoscritto ebraico attraverso secoli di guerre e terrore. Il romanzo mi è stato ispirato da un libro vero, la Haggadah di Sarajevo. Questo libro di preghiere, prodotto in Spagna intorno al 1350, quando musulmani, cristiani ed ebrei vivevano fianco a fianco in spirito di accettazione reciproca e scambio intellettuale, è il frutto di influenze culturali incrociate. In quei giorni, eruditi musulmani lavoravano a fianco di ebrei e cattolici nei «Padiglioni del libro», traducendo in arabo o in ebreo o in latino i trattati scientifici e filosofici delle Accademie di Baghdad o del Cairo. La Haggadah, almeno due volte venne salvata dalla distruzione grazie a mani musulmane. La storia di questo libriccino mi ha ispirata perché mostra che anche in tempi in cui la maggior parte della gente viene trascinata in una frenesia di demonizzazione della «alterità», ci sono sempre stati individui che seppero vedere attraverso la vuota retorica della propaganda e capire che quanto ci unisce in quanto esseri umani è sempre più di quanto ci divide.
Torino potrebbe essere un «Padiglione dei libri» dei giorni nostri, dove israeliani, arabi e chiunque sia preoccupato per l’esito del conflitto si incontrano per argomentare, discutere, ascoltare e imparare gli uni dagli altri. Un boicottaggio non realizzerà nulla di tutto ciò.

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