Ma che pretese, Israele ( e Stati Uniti) Sergio Romano difende Hamas e Iran
Testata: Corriere della Sera Data: 27 marzo 2008 Pagina: 51 Autore: Sergio Romano - Lorenzo Cremonesi Titolo: «Negoziare con Hamas, timori, sospetti e pretese - La non violenza ? Non paga Potremo usare i kamikaze»
Ma cosa pretende Israele ? Che Hamas cessi di uccidere i suoi civili e riconosca il suo diritto all'esistenza ? Non sia arrogante, e accetti piuttosto di cedere territori, capitale e forse anche equlibrio demografico e carattere ebraico dello stato in cambio non già della "pace", ma di una tregua. Cioè dell'intervallo, più o meno lungo, tra due guerre.
Gli Stati Uniti, allo stesso modo, concedano agli iraniani la " revoca dell'embargo, la cancellazione del loro Paese dalla lista degli «Stati canaglia »" e inoltre "attrezzature per l'industria petrolifera, aeroplani civili, parti di ricambio per gli impianti comprati in America all'epoca dello Scià e gli impegni per la sicurezza collettiva della regione a cui probabilmente aspirano" in cambio, forse, della sospensione dell'arricchimento dell'uranio. Poco importa che la via del negoziato e degli "incentivi" sia stata a lungo tentata, senza successo, dall'Unione europea e persino dalla Russia, senza ottenere risultati e concedendo tempo al regime degli aytollah per realizzare i suoi piani.
Per Sergio Romano, sul CORRIERE della SERA del 27 marzo 2008, violenza terrorista, disconoscimento del diritto all'esistenza dell'altro e minacce nucleari sono legittime carte negoziali per organizzazioni terroristiche e stati canaglia di fronte alle "grandi potenze".
Ecco il testo:
Parlando del problema palestinese e della necessità di un coinvolgimento di Hamas nelle trattative per una pace duratura con Israele, lei alla obiezione che Hamas non riconosce a Israele il diritto di esistere ha risposto dicendo che essendo appunto ciò materia del contendere non poteva essere preteso prima. Apparentemente logico ma complicato sul piano formale. Perché ciò possa avvenire, Israele dovrebbe rimettere in gioco il suo diritto a esistere, diritto riconosciuto dall'Onu e da tutti gli Stati democratici del mondo. Israele non può farlo e quindi la palla ripassa ad Hamas in un circolo vizioso dal quale temo lo stesso Hamas non voglia uscire. Luigi Nale
Caro Nale, La sua lettera mi ha ricordato uno scambio di battute con John McCain al Forum Ambrosetti di Cernobbio l'anno scorso, quando il senatore repubblicano non era ancora candidato del suo partito alle elezioni presidenziali americane. McCain aveva attaccato duramente la politica nucleare iraniana e sostenuto che occorreva rispondere alle minacce di Ahmadinejad con sanzioni più severe. Se gli iraniani vogliono dare una prova di buona volontà, aggiunse, devono anzitutto rinunciare all'arricchimento dell'uranio. Intervenni allora nella discussione per osservare che l'arricchimento dell'uranio non era stato proibito dal Trattato di non proliferazione e che era la principale materia del contenzioso fra Stati Uniti e Iran. Mi sembrava difficile, quindi, immaginare che gli iraniani sarebbero stati disposti a cedere, ancora prima di cominciare il negoziato, sul suo punto più importante. Con quali armi e argomenti avrebbero potuto ottenere dagli Stati Uniti la revoca dell'embargo, la cancellazione del loro Paese dalla lista degli «Stati canaglia », le forniture di cui avevano maggiormente bisogno (attrezzature per l'industria petrolifera, aeroplani civili, parti di ricambio per gli impianti comprati in America all'epoca dello Scià) e gli impegni per la sicurezza collettiva della regione a cui probabilmente aspirano? McCain mi rispose che le mie osservazioni erano «senza senso» (nonsense) e io decisi che era giusto lasciare all'ospite straniero l'ultima parola. Ma la sua risposta mi confermò che le grandi potenze amano i negoziati squilibrati, quelli in cui l'altro viene «disarmato» ed è messo in condizioni d'inferiorità ancora prima dell'inizio delle trattative. Anche la Gran Bretagna, tanto per fare un esempio recente, avrebbe voluto che l'Ira (l'esercito repubblicano irlandese) smantellasse pubblicamente i suoi arsenali prima della tappa conclusiva degli accordi del Venerdì Santo. Ma quale può essere il peso negoziale di una organizzazione armata se rinuncia subito alle sue armi? Credo che le stesse considerazioni valgano per Hamas. L'organizzazione ha proposto una tregua e ha dato più volte la sensazione di accettare pragmaticamente l'esistenza dello Stato d'Israele nei suoi confini del 1967. Ma non intende rinunciare alle sue posizioni più radicali e smobilitare psicologicamente in una situazione nella quale nulla le garantisce che Israele sia veramente disposto a fare concessioni sui punti ancora irrisolti: confini dello Stato palestinese, statuto di Gerusalemme Est, problema dei palestinesi cacciati dalle loro terre. Vi sono punti, come quello dei profughi, su cui Israele ha il diritto di difendere fermamente le proprie posizioni. Ma ve ne sono altri su cui ha interesse a negoziare. Senza chiedere ai suoi interlocutori di arrivare nudi al tavolo delle trattative.
Aggiungaimo una considerazione. Ci si potrebbe chiedere: quali sono i costi per l'ordine internazionale di un atteggiamento come quello predicato da Romano: considerare la violenza una legittima carta negoziale e premiarla politicamente ? Sottolineiamo: i costi per l'ordine internazionale, non quelli per i paesi direttamente colpiti dal terrorismo. Lo spiega bene l'intervista che segue, pubblicata sempre dal CORRIERE Chi premia la violenza, e ignora le ragioni di chi non ne fa uso, incoraggia la violenza:
DHARAMSALA (India) — Non subito. Magari tra qualche anno. Però potrebbe giungere il momento per il movimento di resistenza tibetano di adottare la via dei kamikaze già in voga nel mondo musulmano. Attentati suicidi a Lhasa: sembra contraddire tutto ciò che da mezzo secolo caratterizza la figura del Dalai Lama e la lotta del suo popolo contro l'occupazione cinese. Ma per Tsewang Rigzin, da quattro mesi presidente del Congresso giovanile tibetano, si tratta di «uno sviluppo più che possibile». «Tutto è aperto. È un fatto che la non violenza predicata dal Dalai Lama non ci porta da nessuna parte. Anzi, ha permesso ai cinesi di espellerci dalla nostra Patria e di continuare nel genocidio delle nostre tradizioni culturali e religiose. Dunque potrebbe presto arrivare l'ora di cambiare strategie di lotta», sostiene nel suo ufficio sulle colline alberate di Dharamsala, dove si trova anche il governo tibetano in esilio. Nato in India nel 1971 da genitori profughi, trasferitosi 12 anni dopo negli Stati Uniti, da un anno Rigzin ha lasciato moglie e due figli per dedicarsi alla sua missione di guidare il più forte movimento tibetano tra quelli non legati al Dalai Lama. Il vostro obbiettivo? «Ridare l'indipendenza al nostro Paese, a ogni prezzo. Ma dobbiamo fare in fretta. Ogni giorno che passa allontana la nostra meta, specie da dopo la costruzione della ferrovia che dal 2006 collega più facilmente Pechino al Tibet». Il Dalai Lama minaccia le dimissioni nel caso continuino le violenze anti-cinesi. «Lo ha già minacciato altre volte. È bene tenere conto che le manifestazioni iniziali, il 10 marzo, furono pacifiche. La polizia cinese ha infiltrato agenti tra la folla per screditare il movimento. Sono stati loro a fomentare le violenze». Cosa risponde a chi sostiene che la simpatia mondiale per la vostra causa è dovuta soprattutto alla non violenza? «Rispondo che il pacifismo ci ha condotto su di un binario morto. Di noi si parla solo in modo episodico, limitato. Siamo dimenticati dalla comunità internazionale. Tante belle parole e poi il nulla. Guardiamo invece come si fanno sentire i palestinesi e gli attivisti in Iraq grazie agli attentati suicidi. L'attenzione dei media mondiali è tutta per loro». Sì, ma attenzione non significa sostegno. «Noi siamo in una situazione disperata. Se la non violenza fosse vincente significherebbe che anche la nostra causa lo è. Invece stiamo perdendo». Nel mondo crescono le voci di chi vorrebbe boicottare la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici. «Speriamo che siano in tanti a seguire l'esempio del presidente Sarkozy. Ma sarebbe meglio che i Giochi venissero boicottati tout court». La Cina vi accusa di razzismo nei confronti dei suoi civili a Lhasa. «Mi spiace che civili siano coinvolti nello scontro. Ma la responsabilità è del governo cinese, che spinge la sua popolazione ad occupare le nostre terre. Alla fine dovranno andarsene, solo così noi potremo riavere il nostro Paese e la pace»
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