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Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.03.2008 Il processo Slanski e l'antisemitismo nel blocco sovietico
una ricostruzione storica di Sergio Romano

Testata: Corriere della Sera
Data: 26 marzo 2008
Pagina: 0
Autore: Sergio Romano
Titolo: «NELL'EUROPA COMUNISTA LE PURGHE DEGLI ANNI '50»
Come gli orologi guasti dicono l'ora esatta due volte al giorno, così anche a Sergio Romano capita di scrivere il vero.
Appartiene all'orologio guasto che due volte al giorno dice giusto la risposta data da Romano a un  lettore sul CORRIERE della SERA del 26 marzo 2008.
Ecco il testo:

Condivido la sua tesi sul «professionismo della memoria» che purtroppo interessa qualche storico.
Ma ritengo giusto non dimenticare episodi storici di antisemitismo «coperti» ancora oggi da altre motivazioni. In particolare, i tanti processi farsa che hanno avuto per imputati ebrei illustri, come il caso di Rudolf Slansky che, esponente di primo piano del partito comunista e del governo cecoslovacco, venne condannato a morte e impiccato insieme ad altri colleghi di partito con l'accusa di sionismo anche se mascherata da altre calunnie. In tali sentenze forse è giusto indagare se a prevalere era lo spirito politico o religioso ed etnico; se la sentenza di morte era scritta perché questi personaggi intralciavano la politica di Stalin o se poggiava su ragioni di antisemitismo.

Andrea Sillioni
sillioni@alice.it Caro Sillioni,
I l processo Slanski e quelli che vennero celebrati in altri Paesi del sistema sovietico ebbero molte motivazioni. La prima fu certamente il regime nazionalcomunista della Jugoslavia di Tito. Mosca temeva che il titoismo contagiasse i satelliti e creasse una pluralità di «vie nazionali al comunismo». Il timore era esasperato, nella mente di Stalin, dalla convinzione che i dirigenti dei Paesi «liberati» fossero troppo esposti alle tentazioni dell'Occidente (dove molti di essi avevano ricevuto la loro formazione politica) e comunque inclini ad approfittare del potere per allentare i legami con la casa madre.
La prima risposta fu il duro ammonimento indirizzato ai due maggiori partiti comunisti occidentali (il Pc italiano e quello francese) durante la riunione costitutiva del Cominform a Szklarska Poreba, nei pressi di Breslavia, alla fine di settembre del 1947. La seconda fu l'estromissione della Jugoslavia dal Cominform il 28 giugno 1948. La terza fu la caccia ai titoisti veri o presunti nell'apparato politico- amministrativo dei Paesi satelliti.
Dopo il processo di Budapest contro il ministro degli Esteri Laszlo Rajk (il primo della serie), l'operazione venne condotta con lo stile e i metodi delle grandi purghe che Stalin aveva orchestrato in Unione Sovietica durante la seconda metà degli anni Trenta. Occorreva individuare qualche esponente di alto grado. Occorreva accusarlo di simpatie per il regime jugoslavo, ma anche e soprattutto di essere al soldo dei servizi americani (negli anni Trenta il «colpevole» era generalmente accusato di essere in combutta con i tedeschi). E occorreva ottenere una confessione. Nella sua «Storia delle democrazie popolari dopo Stalin», pubblicata da Vallecchi in una collana curata da Renato Mieli, François Fejtö scrive che gli imputati «vennero percossi e maltrattati al punto che parecchi di essi credettero di essere caduti in mano ad aguzzini fascisti». Il medico della prigione cecoslovacca dove venne incarcerato Slansky (si chiamava Sommer e si suicidò nel 1968, durante la primavera di Praga) «somministrò agli accusati diversi farmaci: mescalina, actevron ecc. che li mettevano in uno stato di indolenza euforica, confondendo il loro pensiero e indebolendone la resistenza ». Non fu difficile, con quei metodi, ottenere che Slansky e i suoi compagni di sventura recitassero a memoria «le confessioni preparate dai poliziotti cechi, rivedute e corrette dagli esperti russi». Nel 1968 si calcolò che i «purgati » (uccisi, imprigionati, internati) erano stati in Cecoslov acchia non meno di 136.000.
Non creda tuttavia, caro Sillioni che Rudolf Slansky, benché innocente dei reati che gli furono contestati, fosse estraneo a questo tipo di procedure. Era un uomo duro, autoritario, rotto ai metodi del partito in cui era cresciuto. La sua maggiore preoccupazione, dopo il processo di Budapest, fu quella di trovare «un Rajk cecoslovacco» con cui avviare una grande purga per ripulire il partito dalle sue scorie. Fu lui che lanciò la rete in cui avrebbero dovuto cadere i traditori titoisti, e fu lui uno dei primi a cadervi. Il fatto che fosse ebreo fu per Stalin, Berija e gli apparati stalinisti dei Paesi satelliti, un «valore aggiunto». Erano antisemiti o, nella migliore delle ipotesi, profondamente convinti che la lealtà degli ebrei, soprattutto dopo la creazione dello Stato ebraico, fosse riservata a Israele. Nel suo editoriale del 24 novembre 1952, il quotidiano comunista cecoslovacco Rude Pravo
scrisse che il sionismo era «il nemico numero uno della classe operaia».

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