Quello che in Italia non si capisce sulla guerra in Iraq un editoriale di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 26 marzo 2008 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Come Omaha Beach»
Da Il FOGLIO del 26 marzo 2008:
C’è una cosa che in Italia non è stata spiegata bene sulla guerra in Iraq. E’ questa. Nessun altro avrebbe potuto fare quello che hanno fatto i quattromila soldati americani morti laggiù. Nessun altro appartiene come loro a uno sforzo militare così grande e così organizzato; nessuno come loro aveva un senso così alto di sé e della propria missione; nessuno come loro ha vissuto, lavorato e combattuto a un livello di dignità così alto sul resto delle cose che in America gli avversari politici e i critici più duri dell’Amministrazione Bush e della guerra inorridiscono giustamente soltanto all’idea di offendere l’esercito. Eppure qui i giornali raccontano l’opposto, raccontano di una generazione perduta di soldatini ventenni cascati per sbaglio dentro un errore così più grande di loro, un’operazione militare che secondo i piani si doveva concludere entro pochi mesi e invece si è trasformata in un vortice, in un tritacarne, che risucchia vite di civili e di soldati mese dopo mese, anno dopo anno, attentato dopo attentato. Raccontano di reclute fresche e bisognose, che magari vengono da Portorico o dal Messico e vanno a combattere soltanto per conquistarsi la cittadinanza americana, o sono già americane ma nella vita non hanno più vie d’uscita – anche se hanno soltanto vent’anni – e il modo più veloce per fare dollari passa attraverso il centro di arruolamento più vicino. Raccontano di soldati che muoiono senza avere capito perché stanno combattendo. In realtà sono i giornali a non aver afferrato molto di che cosa succede in questa guerra. Basta dire che pochi giorni fa, all’anniversario del quinto anno, il Corriere ha scritto che i morti civili in Iraq sono più di un milione; e ieri invece il bravo Mario Calabresi su Repubblica, che pure non può essere accusata di simpatie marziali per la missione in Iraq, scriveva “novantamila vittime”: e poi che qualcuno “arriva perfino a parlare di mezzo milione”. Novantamila, mezzo milione, più di un milione. I due più grandi quotidiani italiani non sono d’accordo fra loro sul numero dei morti civili. Eppure se c’è un conflitto trasparente è quello in Iraq (quando la quota simbolica dei quattromila caduti è stata raggiunta le redazioni lo hanno saputo in tempo reale). I soldati americani in guerra sono diversi dal tipo descritto dai giornali, perché un tipo soltanto non c’è: ci sono tutti. C’è tutta l’America. S’incontrano soldati capaci di discutere mezz’ora se l’Economist sia una rivista migliore dell’Atlantic Monthly o se il New Yorker non batta invece tutti e due, mentre sotto di loro il blindato ballonzola sulle piste attorno ad Arab Jabour. S’incontra il parà dell’Airborne che ha mollato il lavoro di pilota civile d’aerei – e un sacco di dollari – per venire in Iraq. S’incontra il laureato in Storia appassionato di baseball e il gangsta latino di Los Angeles che mangiano con le mani a una tavola di poliziotti iracheni. Ci sono pure i soldati freschi da Portorico, in divisa per ottenere la cittadinanza? Sì, in genere sono quelli più contenti di essersi arruolati, c’è tutto, “facciamo anche un corso di lingua”, e dentro l’esercito sono già americani a tutti gli effetti. A Ramadi, nell’ex capitale in mezzo al deserto della guerriglia sunnita, c’è il capitano dei marine Kopka, che si occupa di rimettere in funzione il tribunale della città. Prima di arrivare a Ramadi era avvocato a Boston, la città più snob d’America. Che cosa pensano del paese? Tutti i militari sono ossessionati dal programma di ricostruzione SWET : Sewages, fogne, Water, acqua, Electricity, elettricità e Trash, la raccolta dei rifiuti. “Prima facciamo il lavoro, prima torniamo in famiglia”. I giornali non raccontano il tipo di guerra che si combatte in Iraq: uno schema diabolico. Dentro e fuori. I civili iracheni dentro, a tentare di ricominciare una vita normale all’interno di un perimetro sorvegliato vasto come un quartiere, come una città o come una provincia; e fuori i piccoli gruppi di fanatici, diretti da altri paesi, da capi arabi, egiziani, tunisini, che tentano di infiltrarsi per fare strage con le autobomba, i cecchini, i mortai. In mezzo, in cima al muro di guardia o sotto a pattugliare le strade, i soldati americani e iracheni, unica barriera di separazione tra la vita normale e la morte improvvisa. I quattromila che sono morti in questi cinque anni non sono il risultato imprevisto di uno sbaglio degli analisti di Washington. Non erano geopolitica maldestra. Erano professionisti – affrontavano rischi studiati per tutto il periodo del loro addestramento – e sono stati perduti nella guerra contro squadroni paramilitari della morte che fanno strage di civili. Se non ci fossero stati, nessun altro avrebbe combattuto al loro posto, e con le loro capacità, questa battaglia. Su altri fronti, ci sono soltanto lo stato di Israele e la Gran Bretagna, Europa, ma isolana.
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