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Il Manifesto Rassegna Stampa
21.03.2008 La parola al regime siriano
il fascismo arabo non dispiace al quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 21 marzo 2008
Pagina: 9
Autore: Michele Giorgio - la redazione - Samir Aita
Titolo: ««Damasco è pronta a resistere se Israele dice no alla pace araba» - I giornalisti chiedono la liberazione dei colleghi detenuti nelle carceri di Assad - Quella breve primavera siriana interrotta dai boati della guerra»

Se Israele non cede senza condizioni ai ditat del "piano di pace arabo" il regime di Damasco è pronto alla "resistenza", cioè a continuare a sostenere il terrorismo, e forse a guerre di aggressioni.

La "primavera siriana" è stata interrotta dai "boati di guerra". Non fosse per Israele e Stati Uniti in Siria ci sarebbe la libertà.

A parte un breve trafiletto su giornalisti  e scrittori prigionieri della dittatura baathista, tutta pagina 9 del MANIFESTO è dedicata alla difesa del regime siriano e alla propaganda delle sue posizioni.

Che triste fine i comunisti: insultano Fiamma Nirenstein e difendono il nazismo arabo del Baath.

Ecco i testi:

È scattato il conto alla rovescia per il vertice arabo e a Damasco si stanno completando gli ultimi preparativi di un evento al quale la leadership siriana assegna grandissimo rilievo. Sul tavolo ci sono l'iniziativa di pace araba nei confronti d'Israele ma anche la crisi libanese - che vede una contrapposizione forte proprio tra Siria e Arabia saudita - e il tema di un fronte arabo unito. Di tutto ciò abbiamo parlato a Damasco con il ministro dell'informazione Muhsen Bilal, uno degli esponenti più in vista del governo siriano.
Ministro, l'iniziativa di pace araba approvata al vertice di Beirut del 2002 e riconfermata lo scorso anno a Riyadh sarà al centro anche di questo summit a Damasco. La stampa nelle scorse settimane ha parlato di novità importanti. Cosa c'è di vero?
La nostra iniziativa è estremamente chiara. L'intero mondo arabo ha offerto a Israele una pace totale in cambio del suo ritiro dai territori che ha occupato con la guerra dei Sei Giorni nel 1967. Lo ha fatto per permettere la nascita di uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e Gaza con capitale non l'intera Gerusalemme, ma solo la zona Est (araba) della Città Santa: un'offerta eccezionale, fatta in nome della pace. Ma Israele non l'ha raccolta. Perché non l'ha fatto? Perché Israele si considera uno Stato sopra la legge internazionale e perché gode del sostegno incondizionato degli Usa.
Quindi quale posizione assumerà ora il mondo arabo?
La Siria sta ancora aspettando che Israele faccia i passi necessari per completare il percorso avviato tanti anni fa. In sei mesi si potrebbero compiere (al tavolo delle trattative) quei progressi necessari per arrivare a una soluzione di pace ampia, che assicuri i diritti a tutte le parti coinvolte. Ma deve essere altrettanto chiaro che la Siria non può aspettare all'infinito.
Di fronte a una conferma dell'attuale atteggiamento israeliano non pronto a concludere la trattativa, la Siria potrebbe prendere in considerazione altre opzioni, tra le quali la resistenza. Abbiamo visto che la resistenza ha successo: quella libanese (Hezbollah) ha liberato il sud del suo paese e quella palestinese sta mettendo Israele in difficoltà. La via del negoziato però è aperta e sta solo a Israele percorrerla, tenendo presente che non può pretendere che la Siria e l'intero mondo arabo rimangano perennemente in attesa delle sue decisioni.
Il premier israeliano Olmert però qualche giorno fa ha parlato di una possibile ripresa del negoziato di pace, a condizione che la Siria interrompa il suo sostegno ad Hezbollah e Hamas.
Israele non ha il diritto di porre condizioni al nostro paese che chiede soltanto la liberazione di una parte del suo territorio, le Alture del Golan, occupato nel 1967. Piuttosto deve capire in fretta che la pace passa attraverso l'applicazione delle risoluzioni internazionali, la legalità e quindi per il suo ritiro alle linee del 4 giugno del 1967.
Lei parla di unità del mondo arabo mentre sono note difficoltà di rapporti, in particolare tra il suo paese e l'Arabia saudita sulla questione libanese. Si sono fatte insistenti le voci che vorrebbero al vertice di Damasco una partecipazione a basso livello non solo di Riyadh e del Libano, ma anche di altri paesi arabi.
Il vertice annuale è un appuntamento che riguarda tutto il mondo arabo e non solo la Siria. Per questo speriamo che tutti i leader arabi vengano a Damasco. Una partecipazione al massimo livello darebbe più forza alle decisioni che verranno prese.
Parliamo proprio della crisi interna libanese. Lei in una intervista ad ArabWeek ha detto che la Siria è pronta a stabilire in qualsiasi momento relazioni diplomatiche con il Libano.
E lo ribadisco. La Siria è disposta subito a stabilire piene relazioni diplomatiche con Beirut e a definire le frontiere e tutto ciò che è necessario per buone relazioni tra due paesi indipendenti.
Damasco però viene accusata di interferire nelle vicende interne del Paese dei Cedri, di frenare con le sue pressioni la nomina del nuovo capo dello stato libanese e di essere addirittura dietro gli assassinii politici di questi ultimi anni.
Sono accuse totalmente infondate che ci fanno Stati Uniti e alcune parti libanesi con un evidente scopo politico. Certo, nessuno può negare che la Siria abbia una influenza nelle vicende libanesi, ma anche altri paesi influenzano con le loro posizioni la politica interna libanese. L'Arabia saudita non ha forse un'influenza importante su Saad Hariri?(il leader dei partiti che formano la maggioranza di governo in Libano, ndr).
Tutti fanno sentire la loro influenza, non solo noi. La differenza sta nelle relazioni storiche, culturali e sociali che hanno Libano e Siria. Per noi il Libano non è un paese come un altro. Siamo la stessa famiglia che vive in due Stati indipendenti e i legami tra le due popolazioni sono fortissimi. E non può essere certo sottovalutato il dato che la maggioranza dei libanesi, e sfido chiunque dall'affermare il contrario, è favorevole a stabilire relazioni fraterne con la Siria.
Ma in Libano il negoziato tra maggioranza e opposizione è paralizzato. Quale strada, secondo la Siria, porta alla soluzione della crisi?
La scelta sta ai libanesi ma è evidente che senza un'intesa piena sui tre punti in questione - nomina del presidente, nuova legge elettorale e formazione di un governo di unità nazionale - quella crisi non verrà risolta.
Si riferisce in particolare al diritto di veto chiesto dalle forze di opposizione?
Credo che l'opposizione libanese che, in effetti, rappresenta la maggioranza della popolazione, abbia il sacrosanto diritto di far sentire la sua voce in un esecutivo di unità nazionale.
Damasco teme che i partiti dell'attuale maggioranza libanese intendano spostare il paese nell'orbita americana o firmare una pace separata con Israele?
La Siria non può accettare che il Libano diventi ostile nei suoi confronti, perché è un paese fratello con il quale ci sono legami fortissimi a tutti i livelli. Siamo la stessa famiglia e una famiglia deve vivere in armonia.

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In un comunicato pubblicato in Libano, 83 intellettuali e giornalisti arabi hanno esortato le autorità siriane a rilasciare «immediatamente» giornalisti e scrittori siriani dell'opposizione detenuti dal regime del presidente Bashar al Assad. «I nostri colleghi Akram al Bunni, Fayez Sara e Ali Abdallah vengono detenuti da quasi quattro mesi in violazione della loro libertà di espressione, oltre al giornalista Michel Kilo che sta scontando una condanna a tre anni di prigione», è scritto nel documento, pubblicato dal quotidiano «An Nahar». Nel testo si afferma che si tratta di persone arrestate «per il loro coinvolgimento in Siria in attività democratiche pacifiche, volte a stabilire il rispetto della legge e alla diffusione di valori come libertà e giustizia». Nel testo si afferma inoltre che «segni di tortura erano evidenti» sui detenuti, quando sono comparsi in tribunale il 28 gennaio scorso. «Denunciamo il vergognoso comportamento delle autorità siriane nei confronti di intellettuali siriani e chiediamo a tali autorità di rilasciare immediatamente i nostri colleghi e tutti coloro che vengono detenuti per le loro opinioni» scrivono i firmatari del documento.

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Le donne velate aumentano sempre più in Siria. Soprattutto tra le giovani. Le si vedono sedute ai tavolini che i tanti caffè, moltiplicatisi anch'essi in questi ultimi due anni, mettono sui marciapiedi. Bande di giovani, ragazzi e ragazze, velate e no; chi sorseggia un caffè, chi una birra. La discussione non è molto animata, a volte sembra banale. Si discute di arte e cultura, dei festeggiamenti di quest'anno: Damasco, nel 2008, è la capitale della cultura araba.
Uno dei giovani racconta che ha dovuto chiudere la sua piccola galleria d'arte. «Nell'attuale contesto non posso fare più nulla. I "nuovi ricchi" riciclano i soldi localmente non solo nell'immobiliare, ma anche nell'arte. Le loro gallerie d'arte chiedono l'esclusiva ai pittori proponendo guadagni un tempo inimmaginabili: da 10 a 20 mila dollari per ogni quadro». Un clima triste avvolge ora il discorso. «Il paese cambia molto rapidamente.
Ma non come avevamo sognato. Soprattutto perché non vogliamo né una follia come in Iraq, ma nemmeno un caos come in Libano. Tutto tranne questo. Ma non sappiano cosa ci prepara il futuro, con la storia dell'inchiesta e del tribunale sull'assassinio di Rafiq Hariri. Guardate di quanto è salita la tensione con l'uccisione (a Damasco) di Imad Moughniyeh avvenuta a due passi da tutte le sedi direttive dei servizi segreti. Sayyed Hassan (Nasrallah, il capo dello Hezbollah) ha promesso di vendicarlo. E mantiene le sue promesse. Allora, ricomincerà la guerra?».
La tristezza del gruppo si fa troppo pesante. A questo punto, meglio darsi tutti appuntamento dopo cena al «club», nella città vecchia. Lì, la sera tardi, come tutti i venerdì sera, bande di giovani narcotizzano l'angoscia ballando. Incredibile lo spettacolo offerto dai giovani siriani, falsamente rilassati, che ballano un languido tango nostalgico, comprese queste ragazze in jeans e camicetta, e il velo che copre testa e capelli. In alcuni momenti, l'ambiente si fa gioioso: Salsa, rumba...
La nuova gioventù siriana sogna fondamentalmente di partire, andarsene.... La vita costa molto, mentre i beni più moderni sono tutti a portata di mano: cellulari, vestiti di marca e auto di ogni tipo. Ma mangiare è diventato caro, e la situazione peggiorerà con la soppressione delle sovvenzioni su gasolio e prodotti di prima necessità. Quanto alla casa, il suo prezzo è ormai fuori controllo. Non solo la speculazione immobiliare ha rastrellato tutti i soldi rimpatriati dal Libano dopo la partenza delle truppe o portati dai rifugiati iracheni dopo l'invasione americana, ma non c'è neanche più regolazione degli affitti: «il proprietario si presenta ogni anno e chiede dal 30 al 50% di aumento, se non accetti vai via», spiega uno di loro. «Poi, per quanto riguarda i lavori saltuari, ci pensano i giovani (profughi) iracheni a rubarceli. Si fanno sfruttare in maniera indecente. Ma hanno bisogno di quei lavori per vivere, altrimenti le loro figlie sono obbligate a prostituirsi. Andate a vedere, la sera, nelle periferie come Al Tall e Mnin vicino a Damasco. C'è solo questo: prostituzione...». Ma allora è colpa dei rifugiati iracheni? Sul loro numero circolano le cifre più fantasiose: un milione, due milioni? praticamente il 10% della popolazione siriana. Alla periferia di Jaramana, nei pressi di Damasco, è sorta una piccola Bagdad, con gli stessi ristoranti celebri, e gli stessi «shawarma» giganteschi. «Non è detto», risponde uno dei giovani al tavolo, mentre fuma il suo «narghilè», «il problema nasce anche dalle politiche governative.
Si sono lanciati in un liberalismo sfrenato. Guardate la Ministra del Lavoro, baassista e sedicente socialista, racconta che il nuovo Codice del Lavoro che sta preparando «libererà il mercato»: il contratto di lavoro sarà un libero contratto tra le parti e il governo non se ne deve occupare. Neanche George Bush è così «liberal». Noi siriani non possiamo rifiutare i rifugiati iracheni, così come abbiamo fatto di tutto per accogliere e aiutare gli sciiti del sud del Libano durante la guerra dell'estate 2006.
Ma oggi i libanesi vi detestano; vogliono che riconosciate la loro indipendenza, pretendono di fissare il tracciato delle frontiere, chiedono che si apra un'ambasciata siriana a Beyrouth!. Su questo, è una ragazza con il velo che s'innervosisce e mi risponde. «Non abbiamo niente in contrario. Ma chi ha fatto crescere l'odio nei giovani libanesi? E chi chiede ora tutto questo, giusto dopo ogni visita dei neoconservatori del Dipartimento di stato: Welsh e Abrams? Gli stessi che si vedevano nei caffè di Damasco mentre aspettavano il loro turno per essere ricevuti dai capi del regime di qui?
E la politica in Siria allora? Che ne è di Khaddam, dei fratelli mussulmani, della dichiarazione di Damasco e della nuova stampa del paese? Prende ora la parola, un giovane, un po' più grande degli altri: «Parliamo prima di tutto della Primavera di Damasco. Abbiamo creduto al discorso d'investitura del nuovo presidente. È giovane come noi. Da quel giorno, quindi fin dall'autunno 2002, tutta la Siria ha cominciato a discutere del futuro... poi «loro» hanno deciso di mettere fine alla «primavera».
E, da allora, la vita politica si è praticamente spenta. Alcuni, rari, come Michel Kilo, hanno continuato a crederci...La discussione si anima un po' su Michel Kilo, da allora in carcere. Un altro ragazzo, più giovane, silenzioso all'inizio, dice ora timidamente: «Kilo si è mosso in modo intelligente. Ma lo hanno aspettato al varco, in attesa che commettesse un errore. E lo ha commesso. Quell'articolo ridicolo in cui mette a confronto i lutti della montagna alauita e di Damasco. Bisogna fare attenzione alle cose che possono dipendere dal confessionalismo. Che peccato...
E la dichiarazione di Damasco allora?... Lungo silenzio, poi il giovane più grande osa avventurarsi: «la prima dichiarazione è stata un atto di coraggio, nel momento in cui la gente cominciava a dimenticare la primavera (di Damasco). Ma c'è stata quella frase su «l'Islam religione della maggioranza», che ha rovinato tutto. Tutta questa gente è coraggiosa; alcuni hanno passato 12 o 15 anni in carcere proprio per difendere il diritto di pensare in modo diverso. Dopo, l'episodio è stato dimenticato nel caos degli avvenimenti che hanno fatto seguito all'uccisione di Hariri e al ritiro siriano dal Libano».
Fa un pausa, poi prosegue: «In seguito, lo scorso dicembre, c'è stato l'appello a riunirsi nuovamente, votare un nuovo testo di dichiarazione, eleggere una direzione. Non so bene; si sono riuniti forse in 200 e hanno eletto come loro capo una donna, che peraltro non appartiene veramente ad una delle tre formazioni politiche della «dichiarazione». Fare queste elezioni è stato un nuovo atto di coraggio. E lo hanno pagato caro: tribunali speciali e carcere». Un altro lancia dal fondo: «se fossi al posto di chi sta al potere non sarei contento che qualcuno voglia un "cambiamento radicale", anche se "con mezzi pacifici"»...
Così va la gioventù siriana in questi giorni. Non sogna grandi cambiamenti politici, né grandi serate. Sogna solo di poter riprendere il dialogo, anche su una melodia triste, con chi vuole ascoltarla. Vuole solo che si torni a suonare il Tango, perché sulle sue note si possa ballare, anche con il velo in testa.
*Responsabile delle edizioni arabe di Le Monde diplomatique

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