Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Il dissenso in Iran, i finanziamenti delle missioni militari italiane editoriali di Pierluigi Battista e Angelo Panebianco
Testata: Corriere della Sera Data: 17 marzo 2008 Pagina: 28 Autore: Pierluigi Battista - Angelo Panebianco Titolo: «Se Teheran prostesta con lo shopping - Finanziare le missioni»
Dal CORRIERE della SERA del 17 marzo 2008, un editoriale di Pierluigi Battista sull'Iran:
Nell'Iran oscurantista degli ayatollah, riferisce un reportage del Foglio, i guardiani della rivoluzione sono allarmati per la funesta critica dissolvitrice al regime racchiusa nei frivoli capi di abbigliamento che non rispettano il rigore del codice islamico. Tra i giovani di Teheran, infatti, dilaga la tentazione di «stivali e tacchi a spillo», di foulard di ricercata eleganza, di creme di marca pregiata, di cosmetici all'avanguardia, di scarpe di foggia occidentale, di abiti scollati, jeans attillati, accessori griffati da esibire nella «sfera privata delle feste», nel rifugio delle pareti domestiche, dove i poliziotti del pensiero e dell'apparire, i foschi pasdaran dell'intransigenza rivoluzionaria non riescono a esercitare il loro tentacolare controllo. Vestiti costosi e trucchi appariscenti come forme di resistenza passiva alle ingiunzioni del verbo totalitario: e noi che ci lamentiamo per il senso di vuoto indotto nelle società occidentali dal consumismo compulsivo, dallo scintillio snervante di un benessere materiale così spiritualmente insulso. Prigionieri delle nostre stanchezze, esausti, divorati dal senso di colpa di vivere in un mondo dove il predominio dell'«avere» ha soppiantato l'importanza dell'«essere », non riusciamo nemmeno a immaginare la carica di ribellione compressa nello shopping di protesta così inviso ai custodi della purezza avvolti nei loro lugubri pastrani, ossessionati da ogni centimetro di pelle femminile sottratto ai divieti del velo. Facciamo finta di non capire la lezione di quelle donne descritte da Nazar Afisi in Lolita a Teheran che si riunivano nelle case per leggere i loro libri prediletti e proibiti, truccate, con indosso gli abiti ostracizzati, le acconciature leziose non tollerate negli spazi pubblici ispezionati con fanatica vigilanza dagli irsuti guardiani della fede. Facciamo finta di non ricordare l'invasione dei negozi e delle boutique di Berlino Ovest da parte dei tedeschi dell'Est comunista dell'89 i quali, dopo aver demolito festosamente il Muro dell'apartheid, sciamavano storditi nella città dell'Occidente alla famelica ricerca di negozi e merci da sempre negati. Facciamo finta di sorvolare sul nesso inscindibile che, agli occhi e nella mente di chi ne è dolorosamente deprivato, lega l'immagine della libertà a uno «stile di vita» che non demonizza il benessere, la tutela dei piaceri privati affrancati dal controllo di Stato, costumi più sciolti e meno asfissianti. L'angoscia della comparazione, la percezione tormentosa che al di là di un muro o a poche ore di aereo si viva una vita fortunata ma non consentita a chi ha invece la sventura di vivere in un mondo oppressivo, è un sentimento che a noi, oramai sazi e immersi nella fantasmagoria dei consumi, finisce per sfuggirci completamente. La difesa del nostro «stile di vita» appare un esercizio insensato, e persino ignobile se a quello «stile di vita» associamo il disvalore di una società vacua e materialista. E non ci potremmo certo abbassare fino al punto di identificare in un paio di jeans o in un set di cosmetici il simbolo di una vita che a noi sembra senza significato ma tra i giovani di Teheran è percepita con invidia, e con un senso di mancanza che ha qualcosa di struggente.
E uno di Angelo Panebianco sul finanziamento delle missioni militari italiane:
Gli osservatori che lamentavano con rassegnazione l'assenza dei temi di politica estera dalla campagna elettorale sono stati serviti. Con l'intervento dell'ex ministro della Difesa Antonio Martino, critico del nostro impegno in Libano, le successive precisazioni di Berlusconi, e le conseguenti polemiche, un aspetto cruciale della politica estera italiana, quello relativo alle missioni militari all'estero, ha fatto irruzione nell'agenda elettorale. Se si continuerà a discutere di politica estera e della difesa, naturalmente, c'è da scommettere che ciò avverrà nel modo approssimativo e propagandistico che è tipico delle campagne elettorali. Proviamo allora a richiamare alcuni fatti. Nel passaggio dal governo Berlusconi al governo Prodi ci furono alcuni (pochi, anche se importanti) cambiamenti di sostanza anche se le maggiori discontinuità furono di tipo retorico- ideologico. I cambiamenti riguardarono la presenza italiana in Iraq e l'atteggiamento verso il conflitto israelo-palestinese. Sull'Iraq pesava il fatto che l'intero centrosinistra aveva dato un giudizio negativo sia dell'intervento americano sia della nostra successiva partecipazione. Ne seguì il ritiro della missione militare. L'altro punto di vera discontinuità riguardò Israele. Bisogna ricordare che il governo Berlusconi aveva innovato rispetto alla tradizione italiana: aveva schierato nettamente l'Italia al fianco di Israele. Con il governo Prodi, e soprattutto con l'azione del ministro degli Esteri Massimo D'Alema, l'Italia tornò all' antico, alla politica, di andreottiana memoria, di prevalente sostegno alla causa palestinese. In vari momenti, quella politica ha assunto, nelle parole del ministro, si trattasse dell'azione israeliana di contrasto a Hezbollah o delle ritorsioni contro Hamas, una forte connotazione anti israeliana. Casi Iraq e Israele a parte, la principale differenza fra il governo Berlusconi e quello di Prodi stava nel fatto che il primo rimase unito sulle principali questioni internazionali e della sicurezza, mentre il secondo dovette fare i conti con forti divisioni interne. Ricordiamo che il governo Prodi, per aver voluto mantenere gli impegni assunti (Afghanistan, base di Vicenza) dovette sfidare fortissime turbolenze parlamentari e inciampò anche, nel 2007, in una crisi di governo. Che cosa aspettarsi nel caso di un nuovo cambio della guardia? Ci sarebbe almeno un mutamento di sostanza e riguarderebbe Israele. Un nuovo governo Berlusconi archivierebbe il neo andreottismo. In fondo, anche la polemica sulla missione in Libano sembra avere avuto come bersaglio proprio quella politica. Ci si dovrebbero aspettare poi cambiamenti sul piano retorico-ideologico. A differenza del governo Prodi, un eventuale futuro governo Berlusconi non dovrebbe fare i conti con una componente interna antiamericana. Ciò lo renderebbe più libero di ribadire in ogni momento la propria solidarietà con gli Stati Uniti nelle varie crisi (sull'Iran, ad esempio). Su tutto il resto è difficile fare previsioni. Di sicuro, né in Libano né in Afghanistan (le due missioni di cui si discute), chiunque vinca le elezioni, ci saranno cambiamenti non preventivamente concordati in sede Onu (Libano) o in sede Nato (Afghanistan). Forse, come afferma Berlusconi, verranno modificate le regole d'ingaggio dei nostri militari in Afghanistan ma difficilmente ciò potrà avvenire senza un coordinamento con Francia e Germania e senza che il governo coinvolga nella scelta anche l'opposizione (sinistra estrema esclusa). Molte cose non dipendono da noi e su molti aspetti della politica estera una certa continuità c'è sempre stata e ci sarà in futuro. C'è un punto però su cui la campagna elettorale dovrebbe fare chiarezza. Non si può discutere di impegni militari all'estero senza parlare di risorse. Il problema è stato sollevato dal ministro della Difesa Arturo Parisi ( Il Resto del Carlino, 15 marzo), il quale ha ricordato che, all'epoca del governo Berlusconi, l'allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti colpì duramente il bilancio della Difesa portandolo dai 19,8 miliardi del 2004 ai 17,8 del 2006 con danni per l'operatività delle Forze Armate. Il ministro osserva anche che la successiva opera di recupero ha solo in parte rimediato ai danni in precedenza prodotti. Ecco un bel tema per la campagna elettorale. Le missioni militari sono un aspetto centrale della nostra presenza internazionale. Non sarebbe male quindi se, anziché prendere posizioni affrettate su questioni (come il nostro ruolo in Libano o in Afghanistan) che non dipendono solo da noi ma dalla nostra concertazione con altri Paesi, ci concentrassimo su ciò che sicuramente dipende solo da noi: quanti soldi il prossimo governo sarà pronto a impegnare per la sicurezza nazionale?
Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera cliccare sul link sottostante