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La Stampa Rassegna Stampa
16.03.2008 Massacro in Tibet, Barbara Spinelli attacca l'America e Israele
la "disfatta morale" è la sua

Testata: La Stampa
Data: 16 marzo 2008
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «Disfatta morale»
La STAMPA del 16 marzo 2008 pubblica in prima pagina un articolo di Barbara Spinelli intitolato "Disfatta morale"

Nessuna occasione deve andare persa quando si tratta di attaccare gli Stati Uniti. Nemmeno... la repressione cinese in Tibet.
Il rinchiudersi delle peggiori dittature "in sovranità assolute" di "Leviatani aggressivi" dipenderebbe infatti secondo Barbara Spinelli dalla politica neoconservatrice di esportazione delle democrazie.
Trascurabile il particolare che stati falliti e totalitarismi teocratici o rivoluzionari avevano,  prima della formulazione della dotrina Bush, prodotto la violenza devastante dell'11 settembre.
Non manca l'elogio di Barack Obama che "critica una politica filo-israeliana «schiacciata sul Likud»." Pura allucinazione, dato che al governo in Israele c'è Kadima, partito scelto dagli elettori per completare il piano di disimpegno unilaterale di Sharon, reso però impossibile dalla vittoria elettorale e dai razzi di Hamas dopo l'esperimento di Gaza. In realtà l'espressione "politica filo-israeliana «schiacciata sul Likud»" non è che un codice per indicare una concreta attenzione alle esigenze di sicurezza di Israele: quando è attaccata, Israele si difende, ed'è questo che non va bene a chi è disposto a sostenerla solo in teoria, sul piano delle enunciazioni di principio che non costano nulla, ma non quando combatte per la sua esistenza e la sua sicurezza.

Ecco il testo:


Cinque anni di guerra in Iraq e una guerra afghana che nessuno osa riesaminare hanno cambiato il mondo radicalmente, danneggiando in misura non ancora calcolabile la sicurezza, la forza d'attrazione, la robustezza economica, infine la potenza morale dell'Occidente. Non siamo solo alle prese con la «fine della magia americana», descritta dal ministro francese Kouchner in una conferenza parigina dell'11 marzo. La magia che aveva sedotto lui e molti europei - a cominciare da Berlusconi nel 2001-2006 - ha avuto e continua ad avere effetti durevoli, che non scompaiono con l'evaporare dell'incanto e sui quali gli ex ammaliati tacciono, come ignorassero che questo tacere è un ennesimo, scandaloso peccato di omissione.

Ovunque sulla Terra, la politica neo-conservatrice ha alimentato un sospetto deleterio: che qualsiasi nazione toccata dall'Occidente diventi fatalmente uno Stato fallimentare. Che la democrazia sia qualcosa di malato, di temibile. Che libertà, laicità, pluralismo siano da posporre, sempre, ai ben più essenziali imperativi di sicurezza. Quel che accade in Tibet negli ultimi giorni non è disgiunto dalla magia infranta: ne è il lascito, catastrofico. La carneficina di monaci buddisti a Lhasa (i tibetani in esilio parlano di 100 uccisi) è responsabilità cinese ma è stata facilitata da America ed Europa, che non a caso reagiscono con voce pallida, e sguardo cieco. Quel che essi non hanno visto è la lezione che gran parte degli Stati ha tratto dalla politica di Bush. Una lezione che possiamo riassumere così: per meglio difendersi dalle insipienze Usa, gli Stati hanno tutto l'interesse a presentarsi come Leviatani aggressivi, chiusi in sovranità assolute.

Sovranità generalmente ingannevoli (tutti siamo immersi nell'economia-mondo), ma anche l'inganno è effetto delle guerre antiterroriste: dalle menzogne non si esce che con altre menzogne. I grandi profittatori dei conflitti odierni non sono solo i produttori petroliferi e le compagnie fornitrici di soldati che hanno contribuito a privatizzare le guerre. Tutti gli Stati che scelgono la forza - Cina, autocrati arabi o asiatici - sanno che la strategia Usa, al momento, non produce che failed states, incapaci di monopolizzare violenza e territori. Che l'America esca spezzata da tale esperienza è tragicamente confermato dalle stragi cinesi, dalla forza con cui i conservatori islamisti si presentano al voto iraniano. Basta guardare alla stupefacente coincidenza dei giorni. L'insurrezione tibetana comincia lunedì 10 marzo: da tempo ardeva nell'ombra. Nonostante questo il Dipartimento di Stato esce poche ore dopo, l'11 marzo, con un rapporto sui diritti umani che denuncia le lentezze della Cina ma la cancella dalla lista dei trasgressori. Le timide reazioni americane ed europee alle stragi tibetane testimoniano molto più di un'incongruenza: testimoniamo una rotta morale dell'Occidente.

Una potenza imperiale che pretende fondarsi sulla democrazia non può ignorare gli effetti morali di quel che fa: è suo tratto distintivo, e proprio questo tratto è andato svanendo. La guerra in Iraq fu iniziata per mostrare la superiorità delle istituzioni libere - la democrazia avrebbe generato Stati stabili, plurali - ed è avvenuto il contrario. Dopo l'aumento di truppe deciso da Bush, i soldati Usa sono più sicuri ma la violenza resta. Non ce ne accorgiamo più, perché non apparendo in video sembra inesistente. Il premio Nobel Joseph Stiglitz ricorda nel suo ultimo libro che le tv accendono i riflettori solo quando gli attentati fanno più di 25 morti (The Three Trillion Dollar War, Norton 2008). Né sembra accorgersene il candidato repubblicano alla successione di Bush: pur di persuadere i neo-conservatori, McCain annuncia: «Se riusciamo a ridurre i nostri morti possiamo restare anche cento anni in Iraq. A me va benissimo». Né l'Iraq è divenuto più vivibile, con poche ore di elettricità al giorno e quasi 5 milioni di sfollati (2,5 dentro e 2 fuori, in Siria e Giordania) Ecco il cataclisma occultato per anni dalle bende della magia: l'America voleva esportare democrazia, e ha esportato invece insicurezza, violenza, immoralità. La sua posizione è talmente indebolita che non può reagire agli eventi cinesi. Anche per questo fanno tanta impressione i dibattiti elettorali italiani: un ex ministro del campo berlusconiano consiglia addirittura di tornare in Iraq, quasi non sapesse com'è diventato il paese nel quinto anniversario della guerra.

Il cataclisma morale non viene fabbricato solo col cinismo, con la spudorata violenza di politiche avventate. Lo si fabbrica anche con questo non-sapere, quest'ignoranza singolarmente militante. È incompetenza tecnica, politica, militare. È l'ignoranza che nel vecchio dizionario Tommaseo viene distinta dall'inscienza: quest'ultima è di uomini che non sanno quello che fanno, mentre la prima è ignoranza colpevole, ignora quello che saremmo tenuti a sapere, è «crassa, rozza, indolente, superba». Fu ignoranza superba lanciare guerre senza conoscere i paesi occupati. È ignoranza superba la politica verso la Cina. Nell'amministrazione Usa, un gruppetto di finti esperti ha giocato col mappamondo alla maniera di Chaplin-Hitler nel Grande dittatore. Sarebbe bastato uno sguardo in terra per vedere che la violenza cinese si sarebbe abbattuta sul Tibet, incoraggiata dal rapporto pronto al Dipartimento di Stato da mesi.

L'idea di Bush era semplice, dopo gli attentati del 2001: si trattava d'inventare una politica assolutamente nuova. Interessi e valori avrebbero coinciso, come nei sogni o nelle magie. Clinton stesso in fondo aveva provato, in Kosovo: con un certo successo, anche se contaminato dal veleno dei nazionalismi etnici. Ma l'Iraq non era il Kosovo, la Freedom Agenda dei neo-conservatori concerneva il pianeta e non una minuscola provincia. L'ultimo rapporto della Fondazione Carnegie (Nuovo Medio Oriente, 2008) sostiene che la Freedom Agenda è stata un totale fallimento: ha rafforzato l'Iran, regalandogli un Iraq turbolento ma ideologicamente fedele. Ha incoronato Ahmadinejad. Raccomandando infine una democrazia numerica (conta chi raccoglie maggioranze e non l'imperio della legge né l'equilibrio tra poteri, ambedue anteriori alla democrazia), ha aiutato non i pochi laici ma gli islamisti, ovunque e soprattutto in Palestina. A ciò si sono aggiunte condotte statunitensi accettate da parecchi governi dell'Unione Europea: le torture a Abu Ghraib, il trasferimento di prigionieri in centri di tortura europei oltre che arabi. Come dice l'ammiraglio William Fallon, appena dimesso dal Comando centrale Usa, ha prevalso la peggiore delle strategie: «l'imprevedibilità con gli alleati, la prevedibilità con gli avversari».

Uscire da simili disfatte è difficile. McCain e Hillary Clinton quasi sembrano non scorgerne la natura. La scorge meglio Obama, forse perché conosce le diversità del mondo: soprattutto quando critica una politica filo-israeliana «schiacciata sul Likud». O lamenta il deteriorarsi mondiale dell'immagine Usa: «Per colpire pochi fondamentalisti (al massimo 50.000)», ha detto in un incontro con le comunità ebraiche a Cleveland, il 24 febbraio, «abbiamo provocato un disastro, trascurando 1,3 miliardi di musulmani».

La questione morale è al centro. Accanto al disastro economico-strategico della guerra irachena (Stiglitz indica un costo di 3000 miliardi di dollari, pagato solo col deficit), c'è questo disastro etico: non meno esiziale. Un'etica che fallisce così miseramente è terribilmente simile al comunismo - e non sorprende che fra i neo-con ci siano tanti eredi del '68 marxista-cinese. Alla fonte l'ideale comunista è buono, ma i risultati sono tali che etica e ideale ne escono lordati irrimediabilmente. Lo stesso accade per le guerre etiche, così come son state imposte dagli esorcisti neo-con d'America ed Europa.

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