Ma che bella democrazia l'Iran un'incredibile intervista a Massoumeh Ebtekar, esponente "riformista" del regime
Testata: Il Manifesto Data: 15 marzo 2008 Pagina: 6 Autore: Marina Forti Titolo: «L'Iran e la sua faccia democratica»
Con un'intervista a una esponente del regime, Il MANIFESTO del 15 marzo 2008 ci racconta che in Iran sarebbe in vigore la democrazia, che l'assenza di "separazione tra chiesa e stato" non rende automaticamente il sistema teocratico. Opportunamente, nessuna scomoda domanda su temi come la condanna a morte degli omosessuali e delle adultere turba questa immagine propagandistica della Republica islamica.
Ecco il testo:
Massoumeh Ebtekar mi riceve nel suo ufficio di capo del dipartimento all'ambiente della municipalità di Tehran, nel vecchio palazzo del governo municipale affacciato su uno dei più antichi parchi cittadini, piccola oasi verde nella parte bassa e più affollata della città. Può sembrare una posizione defilata per una che ha avuto alti incarichi di stato. Durante i due mandati del presidente Mohammad Khatami, quando l'Iran ha conosciuto una stagione di riforme democratiche, Masoumeh Ebtekar era una di due vicepresidenti (la prima donna in Iran) e ministra dell'ambiente. Ecco dunque un'esponente riformista che, dopo la sconfitta politica delle scorse elezioni, è rimasta impegnata nella politica concreta, e nei suoi aspetti più sociali e innovativi (la gestione ambientale di questa metropoli soffocata dal traffico e dai palazzinari non è cosa ovvia). Insieme a un gruppo di giovani femministe, Ebtekar dirige inoltre una rivista di women's studies (Farzaneh Journal, farsi-inglese: www. farzanehjournal.com) e tiene un weblog. La storia politica della signora Ebtekar però risale al 1979, ai mesi tumultuosi che seguirono la cacciata dello Shah e la nascita della Repubblica islamica, quando un gruppo di «studenti rivoluzionari» occupò l'ambasciata degli Stati uniti tenendovi in ostaggio 63 diplomatici per più di un anno (da allora gli Usa non hanno relazioni diplomatiche con Tehran). Lei allora era tra i leader di quel gruppo, la portavoce. Quando le chiedo come è passata dall'occupazione dell'ambasciata alla vicepresidenza della repubblica, lei ride: «Alcuni pensano che sia un paradosso: rivoluzionaria nel '79 e riformista nel '97. Invece penso che sia stata un'evoluzione naturale. La nostra era una rivoluzione per la libertà, l'indipendenza e la dignità. Come tutti i movimenti di studenti, sentivamo che il futuro della nostra rivoluzione era minacciato. La storia ci dava molti esempi di rivoluzioni socialiste e nazionali sconfitte da interferenza imperialiste, e quando gli Stati uniti hanno deciso di concedere asilo politico al deposto Shah, per noi è stato il segno che Washington avrebbe cercato di destabilizzarci. Eravamo un paese giovane, con una situazione instabile e minacce militari. Pensavamo di dover difendere la rivoluzione facendo qualcosa di drastico, che facesse rumore e bucasse l'isolamento: i media internazionali avevano steso un velo sull'Iran, i canali diplomatici erano tutti chiusi. Pensavamo che occupare l'ambasciata fosse un'azione non violenta ma forte, e pensavamo che la legalità internazionale fosse già stata sospesa quando gli Stati uniti avevano cominciato a interferire in Iran nel 1953 . Così abbiamo fatto. Anni dopo ho scritto le mie memorie su quell'occupazione, Take Over in Tehran: in inglese, per i lettori americani ed europei. Di quel gruppo qualcuno è andato al fronte ed è diventato martire, qualcuno ha ripreso gli studi, qualcuno è entrato in politica. Molti sono tra coloro che hanno dato vita al movimento riformista. Perché? Perché crediamo che per preservare i principi fondamentali della rivoluzione siano necessarie riforme profonde, correggere le molte deviazioni avvenute nel corso del tempo. Non è un paradosso, vede. Nel governo Khatami eravamo in tre.
Si è molto parlato della posizione dell'attuale presidente Mahmoud Ahmadi Nejad: c'era o no, ad occupare l'ambasciata americana? No, lo ha detto. Lui era nel gruppo che non era d'accordo: pensava che bisognasse occupare l'ambasciata russa, che la minaccia alla rivoluzione islamica venisse dall'Unione sovietica. Direi che quello è stato l'inizio della frattura tra i nostri gruppi.
Ha detto «deviazioni» dei principi della rivoluzione. Ad esempio? Negli anni sono stati abbandonati valori come la legalità, l'idea che la legge sia uguale per tutti e che nessuno è al di sopra, che sia un semplice cittadino o una figura di potere. Poi le libertà politiche: la repubblica islamica propugnata da Khomeini è fondata sui pilastri dell'islam e della democrazia, inscindibili. La repubblica islamica è basata sul volere del popolo, o almeno così era intesa: le libertà democratiche sono parte intrinseca della rivoluzione islamica. La sovranità popolare si garantisce attraverso un sistema trasparente, libere elezioni, un governo che rende conto. Con partiti liberi di esercitare la critica e partecipare equalmente nella competizione elettorale, e poi libertà d'espressione per ogni cittadino. Libertà politica significa anche una società civile organizzata forte abbastanza da avere voce. Erano questi gli obiettivi del governo Khatami, e almeno in parte li abbiamo realizzati, almeno per ciò che riguarda la società civile. Quando ho cominciato come ministra dell'ambiente esisteva una ventina di ong ambientali; 8 anni dopo erano oltre 600. Idem su molti temi sociali, culturali: sono nate molte ong di donne, giovani. Una società civile organizzata e forte resta il fondamento della democrazia.
Oggi però la società civile è sotto attacco... Nel 1997 il governo riformista ha sostenuto le organizzazioni della società civile mantenendo però la distanza, perché fossero indipendenti: a noi spettava eliminare gli ostacoli legali e politici perché potessero svilupparsi, e basta. L'attuale governo ha radicalmente cambiato atteggiamento. Vede nelle ong indipendenti gli agenti di una sorta di «rivoluzione arancione» per rovesciare il regime. Una minaccia. Le più forti però sono ancora vive. Qui nel consiglio municipale, ad esempio, nell'assessorato all'ambiente abbiamo istituito un subcomitato per lo ong, che chiamiamo regolarmente a consultazione, a intervenire nella formazione delle decisioni, a partecipare.
Cos'è in gioco in queste elezioni? Penso che il prossimo Majlis rappresenterà un arco di tendenze politiche più ampio di quello uscente: sono convinta che i «fondamentalisti» non avranno più la maggioranza assoluta che hanno avuto nella legislatura passata - anche se probabilmente saranno ancora maggioranza, poiché la partecipazione dei riformisti è stata limitata. In ogni caso, penso che dovranno far fronte a numerose sfide interne. Sul piano internazionale, credo che il prossimo parlamento cercherà di migliorare le relazioni con il mondo, in termini di investimenti e relazioni economiche. Il governo attuale ha chiuso molte delle porte che avevamo aperto durante la presidenza Khatami, e c'è una generale convinzione che sia necessario recuperare, migliorare le relazioni internazionali. I riformisti ne sono convinti, in ogni caso. L'Iran continuerà a essere un importante protagonista nella regione e sulla scena internazionali. E poi, l'Iran viene da un periodo di eccezionale crescita e le possibilità di investimento attraggono i mercati, nonostante le sanzioni. Il problema resta l'occupazione, il prossimo Majlis dovrà occuparsene seriamente. Il governo attuale ha risposto con misure populiste, l'inflazione ne è conseguenza. Credo che questo governo ci abbia dato un grande aiuto per mobilitare gli elettori. Tutti ricordano bene cos'era il governo Khatami e hanno potuto fare il confronto. Penso che molti, nelle classi medie urbane, abbiano compreso che tirarsi fuori non è più un'opzione.
Intanto però la competizione sembra tutta in campo conservatore, e all'interno del clero. Diciamo che i fondamentalisti sono divisi in una fazione più radicale rappresentata dal presidente Ahmadi Nejad, quelli che si definiscono «fedeli ai principi»: populisti in economia, protezionisti sul piano sociale, chiusi alle libertà politiche, repressivi verso la società civile. Poi c'è un gruppo guidato dal sindaco di Tehran che si vuole più aperto e moderno, si definiscono fondamentalisti progressisti. Tutte queste divisioni si riflettono nel clero. C'è una spaccatura tra quanti considerano i valori democratici intrinsechi alla rivoluzione islamica e uno come l'ayatollah Mezbah Yazdi, che non ha mai creduto nella democrazia: pensa che la repubblica islamica sia stato un compromesso dell'epoca ma propugna uno stato islamico, gerarchico, imposto dall'alto. Mezbah Yazdi non c'era nei difficili anni della guerra. Ora viene a parlare di un islam che non ha nulla a che vedere con il progetto democratico della repubblica islamica.
Ma non c'è una contraddizione intrinseca tra istituzioni elettive, democratiche, e l'istituto di un'autorità suprema? Nella nostra idea di repubblica islamica tutti sono eletti, non ci sono poteri assoluti. Il leader è eletto dal Consiglio degli esperti, che sono eletti a suffragio universale : un'elezione indiretta. Il ruolo del leader è definito dalla costituzione: ha ampi poteri, ma non assoluti, ed è soggetto a controllo. Se il Consiglio degli esperti funzioni, è un altro discorso: è la sfida che abbiamo davanti. Tutte le istituzioni sono elette, direttamente o indirettamente. C'è un equilibrio e interazione tra autorità religiosa e valori democratici. E' un esperimento nuovo, un modello che non è il sistema laico di separazione tra chiesa e stato, ma non è neppure teocratico.
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