Euologia degli studenti uccisi a Gerusalemme un toccante articolo di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 12 marzo 2008 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Otto stelle per Israele»
Da Il FOGLIO dell'12 marzo 2008:
Non c’eravamo ancora abituati all’immagine della piccola Maria, otto anni, che accarezza la fronte del fratellino Yossi, steso a terra ferito gravemente da un razzo kassam. Quando è arrivata la strage di Gerusalemme. Hamas aveva rivolto un chiaro avvertimento agli studenti ebrei assassinati giovedì scorso al collegio di Mercaz Harav, fondato dal primo rabbino capo Avraham Yitzhak Kook e diventato il più grande centro mondiale del sionismo religioso. “Voi siete il nostro bersaglio, vi vogliamo morti” diceva il sito Internet del movimento terrorista. Poi un poster che raffigurava bambini ebrei rannicchiati durante un attacco a Sderot e quella scritta in inglese ed ebraico: “La morte sta arrivando”. Anche in ebraico, perché l’annuncio era rivolto al cuore di Israele, ai pupilli del Mercaz Harav. Gli studenti sapevano di essere un bersaglio prediletto. Alcuni di loro erano scampati già ad attacchi terroristici. Da quella scuola escono la maggioranza dei rabbini israeliani e molti capi delle unità combattenti dell’esercito. Il massacro di Mercaz Harav non era il primo contro i talmidim, gli studenti delle scuole rabbiniche in Israele con la loro bellezza pallida e inafferrabile intensificata da un vago disprezzo per la sicurezza. Cinque anni fa i terroristi erano penetrati nella yeshiva di Atzmona, uccidendo cinque studenti. A Otniel poco prima ne avevano assassinati tre, altri erano morti nella yeshiva di Itamar. Israele ha annunciato che lancerà una potente campagna contro Hamas, utilizzando le immagini della strage e i volti delle vittime. Il governo israeliano ha diffuso le foto scioccanti dell’attentato in tutto il mondo, incluse quelle con i testi sacri della biblioteca della scuola perforati dai proiettili e con il corpo del terrorista ucciso in terra. Perché in gran fretta gli otto nomi sono stati cancellati. Erano amici gli otto studenti uccisi mentre studiavano la Torah. Fra le foto del bar mitzvah di Avraham David Moses compare il volto di un’altra vittima, Segev Peniel Avihail. “Questi studenti erano il meglio del meglio, erano oro puro” ha detto al funerale il rabbino capo della yeshiva Ya’acov Shapira. Il rabbino Yerahmiel Weiss conosceva tutte le vittime. “Il mio cuore è morto questa notte orribile. Come possiamo fare l’eulogia non di uno, non di due o tre, ma di otto studenti? Oh Dio, hai preso otto santi”. Rav Weiss li ha pianti, uno ad uno. “Hai preso Yehonadav, la cui gentilezza, innocente perfezione, talento, forza mentale, semplicità e bellezza interiore lo rendono santo a te. Hai preso Yochai, studente diligente. Hai preso Segev, eccelleva nella Torah. Hai preso Yonatan, un ragazzo che amava sedersi in biblioteca. Hai preso Avraham, anima gentile che ci deliziava cantando la Torah. E hai preso Neria, il più giovane, veniva da una grande famiglia, la sua luce ci mancherà”. Ha parlato il rabbino capo sefardita, Shlomo Amar: “Guardiamo nei loro occhi santi, sono rose che hai colto”. E rivolto alle famiglie straziate: “Voi sapete, cari, che il dolore è di tutta la Casa d’Israele”. Ha portato il suo cordoglio anche il ministro della Difesa, Ehud Barak: “I terroristi non hanno scelto questo posto a caso, è un luogo di tremenda forza ebraica e sionista”. Il sindaco ortodosso di Gerusalemme, Uri Lupolianski, ha detto che “per molti anni i nostri nemici hanno cercato di rovinare le nostre vite, Gerusalemme ha pagato con il sangue, ora la lista si allunga con questi otto figli”. Fra gli eroi del massacro di Mercaz Harav troviamo Yehuda Meshi-Zahav, il capo di Zaka, i missionari del dolore che dopo ogni attentato devono recuperare ogni brandello delle vittime. Per cinquant’anni, Meshi-Zahav è rimasto barricato nelle sinagoghe di Mea Shearim, la comunità haredim e santa di Gerusalemme. Ora la gente i suoi uomini li chiama “angeli a due ruote”, i loro motorini arrivano sul posto prima delle ambulanze. E anche quel giorno alla yeshiva sono entrati per primi in biblioteca, trasformata in un “mattatoio”. Le fotografie li mostrano intenti a salvare ogni frammento di vita dispersa. “Pronto soccorso, rispetto per la morte, ricerca e salvezza” è il loro motto. Grazie a Meshi-Zahav i parenti delle vittime hanno avuto un corpo su cui piangere. “Nel 1989, un bus della linea 405 fu spinto giù per una scarpata, poco fuori Gerusalemme, da un terrorista palestinese” ha detto Zahav. I morti allora furono 17. “Accorsi sul posto con dei colleghi per aiutare nel recupero dei corpi, sfracellati sulle rocce, ma non eravamo preparati e fu uno shock. Solo la fede in D-o e la consapevolezza di adempiere alla mitzwà ‘chesed shel emet’ (traducibile, sommariamente, in “vera gentilezza”, ndr) ci hanno sostenuto in quel primo momento e in seguito. Queste scene terribili ci hanno fatto tornare con il pensiero alla Shoah”. Le vittime di Mercaz Harav sono state sepolte in cerimonie separate. Chi a Gerusalemme, chi a Shilo, chi negli insediamenti, il piccolo Moses a Kfat Etzion, fra Hebron e Gerusalemme, colpita lo scorso 24 gennaio. Una comunità dove alcuni sopravvissuti all’insurrezione di Varsavia furono uccisi armi in mano dagli egiziani che avanzavano sulla città santa. Yehonadav Haim Hirschfeld, 19 anni, proveniva da una delle più antiche famiglie di Kochav Hashachar, una comunità del consiglio regionale di Binyamin. La famiglia, alla notizia della strage, lo ha cercato per tutto il giorno. Soltanto alla sera un rabbino ha portato la terribile notizia. Yehodonav cinque anni fa era rimasto colpito dalla morte di una amica, Esther Galia, madre di sette bambini, uccisa in macchina dalle fucilate dei terroristi. Aveva fondato lei la comunità di Kochav Hashahar, oggi conta 200 famiglie e in ebraico significa “stella”. Yochai Lifschitz, 18 anni da Gerusalemme, “su tutto eccelleva nell’innocenza” hanno detto al funerale. “Desiderava sempre cercare la verità da solo, in sinagoga o nella preghiera del mattino o durante il servizio militare”. Il padre ha detto: “Grazie per tutto quello che ci hai dato in diciotto anni”. Suo cugino Yonathan ha concluso spiegando che “anche nella morte studiava la Torah”. Fu trovato riverso con un libro fra le mani. Aveva soltanto 15 anni Segev Peniel Avihail, era il più vecchio dei suoi quattro fratelli, figlio del rabbino di Telem e Ad-Olam e nipote di altri due grandi saggi. Il primo, Eliahu Avichail, è stato il più grande studioso delle “tribù perdute” d’Israele. L’altro, Yehoshua Zuckerman, è il fondatore del movimento El Ami. “Segev era un cuore puro, eccezionalmente diligente negli studi, amava i fratelli e il padre” ha detto lo zio Yair. “Cercava sempre il modo di rendere migliori le cose. Quando fu informato che era entrato nella yeshiva, era la persona più felice del mondo”. L’insegnante di Segev, Yaakov Weglein, racconta che tre anni fa era scampato a un attacco in auto con il padre rabbino, una pallottola aveva sfiorato la sua testa. “Avevano conosciuto il terrore, avevano sviluppato questa durezza”. Sua madre era una convertita al giudaismo. Segev aveva la stessa età di un’altra vittima, Neria Cohen, uno degli insegnanti lo descrive come “la luce di Dio, un’anima perfetta, un figlio della Torah”. Era cresciuto nel quartiere musulmano della Città vecchia di Gerusalemme. Neria trascorreva molto tempo nelle attività di assistenza ai poveri. Una delle grandi qualità degli ebrei ultraortodossi insieme alle donazioni di sangue. Yonathan Eldar veniva da Shilo e aveva 16 anni. E’ stato sepolto con la sua inseparabile copia del Talmud babilonese, ancora macchiata di sangue. “Era un ragazzo pieno di joie de vivre” ha detto il rabbino di Shilo. “Si sentiva vicino a Dio” hanno detto gli amici di Ro’i Roth, 18 anni da Elkana. “Tutti nella bet midrash potevano sentire il suo amen”. Doron Meherete, 26 anni di Ashdod, era arrivato in Israele nel 1991 nell’Operazione Solomone. Voleva diventare rabbino dopo aver servito due anni fa nella guerra contro Hezbollah. Doron era uno delle migliaia di ebrei figli di Salomone e della regina di Saba arrivati in Israele diciassette anni fa. Scendevano dagli aerei, molti piangevano, portati da Israele su ali d’aquila nella terra delle origini. Le autorità israeliane avevano abbassato le luci dell’aeroporto per non spaventarli. Non erano abituati alla modernità sfavillante. Avevano dato loro anche una bandierina biancoazzurra, avrebbero dovuto imparare in fretta a diventare israeliani. Doron era un modello del miracolo d’Israele, l’unico paese del mondo che ha deportato una popolazione di colore non per metterla in catene, ma per liberarla dal giogo della sottomissione. Alcuni di loro, anche Doron, baciavano la terra all’arrivo a Tel Aviv. Vestivano di bianco, il colore della festa, sembravano angeli. L’Operazione Salomone seguiva l’Operazione Mosè del 1984 che diede un poderoso impatto emotivo ad ogni ebreo del mondo e agli israeliani in particolare. L’ultima vittima di Mercaz Harav, Avraham David Moses, 16 anni da Efrat, è descritto come un “pio” dai genitori, immigrati dal New Hampshire, negli Stati Uniti. Al funerale hanno detto che era “come un angelo, di un’integrità sorprendente”. Dai primi di marzo anche ad Ashkelon è stata attivata la sirena dell’allarme antimissile “Zeva Adom” (colore rosso), che dà ai civili quindici secondi di tempo per trovarsi il migliore riparo dal prossimo qassam in arrivo. Ad Ashkelon vive Pircha Wiesel, un sopravvissuto alla Shoah. La paura di Pircha e la sorte degli allievi del Mercaz Harav sono intrecciate e dimostrano ancora una volta che la vita degli ebrei, nonostante la forza giusta e proporzionata del loro esercito, è terribilmente “disponibile”. Le fotografie della biblioteca del collegio ne sono la prova tangibile e terribile. Un kassam è esploso a 500 metri da casa dell’anziano sopravvissuto, due giorni prima che a Gerusalemme assassinassero gli otto talmidim. “Dopo l’invasione tedesca ho vissuto nel ghetto di Budapest. I nazisti hanno ucciso tutta la mia famiglia nei campi di concentramento, ma io sono riuscito a scappare e a sopravvivere”. Alla fine della guerra Pircha Wiesel ha iniziato una nuova vita in Israele, ha avuto due bambini. “Ho sei nipoti e due bisnipoti. Li ho cresciuti insegnando loro ad amare Israele. Ma ciò che sta succedendo adesso mi ricorda quello che ho passato durante l’Olocausto, questa senzazione di impotenza che non si esaurisce mai perché non c’è nulla che si possa fare per fermare i razzi. Quando ero giovane non sono potuto crescere come un ragazzo normale, perché dovevo lottare per la mia sopravvivenza. Durante quella guerra temevo per la mia vita e scappavo da un rifugio all’altro. Ma non sono più giovane e ora non so più dove scappare”. Non c’è stato spazio per l’odio al funerale delle otto giovani stelle. Perché come ha ricordato il rabbino Weiss, maestro delle vittime, “Satana non ha ancora creato la vendetta per il sangue di un bambino”. Come voleva il Talmud, Israele ha pianto i suoi figli accendendo candele, anziché maledire le tenebre. Le loro eulogie scevre di rancore e piene d’amore per la libertà sono come quel verso di Paul Celan: “Metti, nella notte, una stella”.
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