Una lettera pubblicata dal CORRIERE della SERA del 10 marzo 2008, seguita dalla risposta di Sergio Romano. Segue una replica di Danielle Sussman:
Non sono un esperto di politica americana, ma ritengo ragionevole prevedere che se Barak Obama sarà il candidato democratico alla presidenza, il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà sicuramente il repubblicano McCain. Per un motivo molto semplice. Obama ha tra i progetti del suo programma, preannunciato sul Medio Oriente, iniziative in stretto contrasto con la tradizionale politica americana come, ad esempio, una conferenza dedicata al futuro della Regione con l’intervento determinante del presidente dell’Iran e della Siria, le cui posizioni integraliste, filoterroriste e spesso deliranti sono ben note. Naturalmente Israele ha subito replicato che questa linea politica non è né realistica né accettabile. Le risulta che un presidente americano sia mai stato eletto contro il parere della lobby (in senso buono) ebraica di quel Paese?
Sergio Matarasso
Caro Matarasso, Nella politica americana il voto ebraico (circa il 5% dell’elettorato in alcuni Stati) non è compatto. Esistono elettori «liberal» che scelgono generalmente il partito democratico (forse la maggioranza) ed esistono elettori repubblicani. Sulla questione palestinese la divisione è soprattutto generazionale. I più vecchi sentono il dovere di sostenere Israele anche quando la sua politica è maggiormente contestabile; i più giovani sono spesso critici del governo di Gerusalemme. Le voci più esplicitamente e polemicamente filo- israeliane sono quelle delle grandi istituzioni ebraiche che intervengono spesso, soprattutto alla vigilia delle elezioni, per sottoporre i candidati a una sorta di esame di passaggio sulle questioni (sostegno di Israele, condanna di Hamas e di altri movimenti islamici) che fanno parte della loro costante agenda politica. Accade così che anche candidati più distaccati e neutrali si vedano sollecitati a esprimersi pubblicamente e subiscano talvolta forti pressioni in questo senso. Il problema di Barak Obama ha due nomi. Il primo è quello del Reverendo Jeremiah Wright, ministro della United Church of Christ, la chiesa di Chicago dove Obama avrebbe avuto il suo incontro con la fede. Secondo alcuni organi della stampa ebraica degli Stati Uniti, Wright è antisemita. Il secondo nome, molto più importante, è quello di Louis Farrakham, vecchio seguace di Malcolm X e fondatore di un movimento nero («The Nation of Islam») che ha fatto dure campagne contro il razzismo della società americana e l’influenza ebraica negli Stati Uniti. Il fatto che Farrakham (un «Hitler nero», secondo i suoi nemici) sia un sostenitore di Obama ha costretto il candidato democratico a prendere le distanze dal suo «patrono». Nel corso di un incontro a Cleveland ha cercato di tranquillizzare un gruppo di influenti rappresentanti della comunità ebraica. Qualche giorno dopo, nel Texas, ha detto: «Nessuno è mai stato in grado di puntare il dito su mie dichiarazioni o prese di posizione contrarie agli interessi israeliani di lungo termine o che possano in qualsiasi modo sminuire i rapporti speciali che noi abbiamo con quel Paese ». I suoi collaboratori, d’altro canto, sostengono che le accuse mosse a Obama sono il frutto di una campagna di disinformazione organizzata dai consiglieri più spregiudicati di Hillary Clinton. Circolano email in cui si afferma che Obama ha frequentato una scuola islamica durante gli anni trascorsi in Indonesia e che il suo giuramento, quando divenne senatore degli Stati Uniti, fu prestato sul Corano. La fotografia, scattata in Kenya qualche anno fa, nella quale Obama indossa un abito indigeno e un turbante, ha fatto il giro della stampa internazionale ed è stata maliziosamente presentata come una prova del suo cripto-islamismo. Come vede, caro Matarasso, anche negli Stati Uniti le campagne elettorali possono essere sporche. Suppongo che molti ebrei americani siano imbarazzati dal modo in cui il loro voto viene disputato a colpi di calunnie, insinuazioni e umilianti autogiustificazioni.
Caro Romano,
nella sua risposta al lettore su “Obama e il voto ebraico: calunnie ed insinuazioni”, lei conclude supponendo che molti ebrei “siano imbarazzati dal modo in cui il loro voto viene disputato a colpi di calunnie, insinuazioni e umilianti autogiustificazioni”. Ma perché dovrebbero gli ebrei americani essere imbarazzati – tanto meno responsabilizzati - dal bailamme spregiudicato che si innesta tra i candidati presidenziali durante le elezioni americane? Voglio sperare che non ritenga gli ebrei, responsabili! Un altro discorso riguarda le lobbies: lei sa perfettamente che le lobbies negli Stati Uniti sono legittime – e tutte agguerrite - e che non vi sono solo lobbies ebraiche, ma anche italiane, portoricane, afroamericane, e…più potente di tutte le lobbies politiche, quella saudita che ha stanziato dal 2002, 20 milioni di dollari annui per influenzare i media, i campus universitari e il voto. In aggiunta, ci sono le ancor più potenti lobbies delle industrie. Ovviamente, ogni lobby pesa e valuta i candidati presidenziali, sostenendo il più idoneo ai propri interessi. Di certo, nessuna lobby ebraica – democratica o repubblicana che sia - sosterrà mai un candidato pericoloso per l’esistenza di Israele. E non saranno le insinuazioni e/o calunnie a determinare il voto ebraico ad un candidato, ma i suoi progetti politici, le sue affermazioni. Obama ha affermato che si rivolgerà ad Iran e Siria per risolvere il conflitto mediorientale. D’altronde, i programmi, sono già conosciuti in Israele dalla primavera del 2007, grazie alle interviste rilasciate dai candidati. Lei afferma che, tra gli ebrei americani, “I più vecchi sentono il dovere di sostenere Israele (…), i più giovani sono spesso critici del governo di Gerusalemme”. Sia anziani che giovani sostengono Israele. Se mai, i giovani sono più propensi ad una linea più dura del governo di Gerusalemme…più Repubblicana. E’ solo questa, quando c’è, la differenza di vedute. Cordialmente, Danielle Sussmann