Le lettere da Auschwitz di Janusz Pogonowski
traduzione di Augusto Fonseca
a cura di Franciszek Piper
Zane Editrice Euro 10
A lettura ultimata delle lettere di Janusz Pogonowski si rimane colpiti dall’intensità e dalla profondità di questi scritti, soprattutto se si pensa che provengono da un giovane arrestato all’età di 18 anni nel corso di una retata della polizia nazista e rinchiuso nel campo di concentramento di Auschwitz.
Il libro che raccoglie le missive del giovane alla famiglia, fatte uscire dal campo in modo clandestino, in un arco temporale che va dal luglio 1942 all’aprile del 1943, è arricchito da testimonianze di persone e familiari che hanno conosciuto e amato il giovane Janusz, oltre che da una straordinaria documentazione fotografica.
Grazie all’impeccabile traduzione di Augusto Fonseca e al quadro storico offertoci da Franciszek Piper, il lettore ripercorre il progetto criminale di Hitler che prevedeva lo sterminio degli ebrei ma anche la liquidazione dei polacchi, degli zingari e dei prigionieri di guerra sovietici.
“
La Polonia
sarà svuotata della sua popolazione e verrà ripopolata dai tedeschi” aveva affermato Hitler nel 1939.
In questo tragico ingranaggio di morte finisce anche Janusz Pogonowski. Il giovane che aveva aderito ad una organizzazione clandestina ed era stato inviato per motivi di sicurezza presso alcuni parenti in provincia di Kielce, ritorna a Cracovia impaziente di ricevere dalla madre informazioni circa il suo espatrio clandestino. Questa imprudenza gli sarà fatale perché il 7 maggio 1940 sarà catturato dai nazisti insieme ad altri passanti e rinchiuso prima nel carcere di Montelupi e poi in quello di Tarnòw, prima di essere trasferito nel giugno 1940 nel campo di concentramento di Auschwitz.
Dalle lettere che Janusz invia segretamente alla madre Eugenia Pogonowska, alla cognata Irena, al fratello Andrzej e alla zia tramite delle staffette del movimento di resistenza apprendiamo l’orrore che ha scandito la vita quotidiana dei detenuti nel campo di sterminio: le botte, le torture, la fame, le malattie e la morte ogni qualvolta qualche recluso tentava di evadere.
Assegnato al reparto dei rilevatori che uscivano dal campo, il giovane polacco riesce ad entrare in contatto con la popolazione civile e a trasportare clandestinamente nel campo medicinali e viveri per portare sollievo ai malati e rendere meno dura la vita dei detenuti.
Per due volte ammalato di tifo Janusz non si è mai perso d’animo e la sua incrollabile fede in Dio gli ha consentito di affrontare le mille traversie della vita nel campo di sterminio. Sono pagine struggenti, ricche di profonda umanità quelle che raccontano del suo travaglio interiore, del suo amore per la famiglia e dell’immensa nostalgia che prova per la lontananza dai suoi cari.
Il suo spirito non si piega alla logica nichilista del campo, al progetto dei nazisti di strappare ai reclusi la dignità, prima ancora della vita.
Sono pagine che riscaldano il cuore e trasmettono un profondo amore per la vita e rispetto per l’uomo quelle che descrivono la “scintilla” che scocca nel suo animo per una giovane ragazza “una persona fondamentalmente buona”, l’ingenua certezza di tornare presto in libertà, la pietà nei confronti di chi soffre, la gioiosa felicità per il matrimonio di Andrzej e Irena.
L’ultima lettera che i familiari ricevono è quella del 21 aprile 1943. Tre mesi dopo come reazione alla fuga di alcuni prigionieri, un gruppo di internati del reparto di rilevatori viene impiccato ad una forca collettiva dinanzi alla cucina del campo.
Janusz Pogonowski muore da eroe: già con il cappio al collo, dà un calcio al proprio sgabello lasciandosi penzolare dalla fune. Con quel gesto Janusz esprime il suo disprezzo per la ferocia nazista, per l’illegalità di quel verdetto che voleva attribuire un’impronta legale all’esecuzione, offrendo altresì ai suoi compagni un alto esempio di dignità e forza morale.
Il valore di questo piccolo gioiello letterario risiede non solo nell’unicità della testimonianza ma anche nell’ essere “parola”, “voce”, “incarnazione” per tutti coloro che non hanno potuto raccontare, né lasciare un ricordo di se alle persone amate e ai loro familiari.
Giorgia Greco