domenica 24 novembre 2024
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Storia
Intervista a Georges Bensoussan: Il sionismo, una storia politica e intellettuale

Pubblichiamo un'intervista di Lanfranco di Genio allo storico  Georges Benoussan

Il termine sionismo ha molto spesso una connotazione negativa e, come lei dice all’inizio del saggio, suona quasi come un insulto.
Il termine sionista riveste questa connotazione peggiorativa, in quanto lo stato d’Israele, per una parte dell’opinione pubblica, rappresenta il male ed è associato molto spesso agli Stati Uniti, ma non necessariamente, nel senso che, senza identificarlo con gli Stati Uniti, lo stato d’Israele è percepito come una nazione malefica, che racchiude tutte le immagini del male: spoliazione, repressione, oppressione e usurpazione. Tutto avviene come se, progressivamente, in questi 60 anni d’esistenza d’Israele, l’insieme delle rappresentazioni antigiudaiche, cristallizzatesi nel mondo occidentale, e precedenti alla nascita della nazione israeliana, si siano trasferite e siano "emigrate" verso il nuovo Stato. Da popolo maledetto si è trasformato in nazione e stato maledetto. Si è in presenza di una specie di statalizzazione dell’antisemitismo tradizionale e, poiché il sionismo costituisce la realizzazione dell’indipendenza del popolo ebraico, lo sguardo si focalizza sulla sua rappresentazione materiale, e cioè Israele, lo stato ebraico. Dall’altro canto la prosecuzione del conflitto israelo-palestinese o meglio giudeo-arabo, un conflitto che dura da più di un secolo, aggravatosi dopo la guerra dei sei giorni del 1967, ha contribuito ad esasperare la giudeo fobia, nel mondo arabo e in particolare nel mondo arabo europeo.

Ci spieghi le origini del sionismo. Nacque anche come reazione ai pogrom e all’antisemitismo?

Il sionismo non è nato come reazione o risposta all’antisemitismo. Si è nutrito dopo la nascita del movimento nel 1897 dell’antisemitismo ma non è sorto in quanto reazione all’antisemitismo.

L’idea di creare una nazione ebraica è nata nel XIX° secolo, tra il 1860 e il 1880. E’ nata in Europa orientale dove viveva la stragrande maggioranza della popolazione ebraica europea, all’interno del mondo askenazi, che parlava lo yiddish. Ciò non significa che non vi sia stata un’idea di nazione anche tra le comunità ebraiche balcaniche e sefardite dei paesi arabi, in particolare tra gli ebrei marocchini, all’epoca la più grande comunità ebraica del mondo arabo. Quest’idea precede la dichiarazione di Theodor Herzl del 1897 ed è, occorre sottolinearlo, profondamente legata alla terra di Israele. La terra d’Israele è centrale nei testi, nelle feste, nel calendario, nel cuore e nell’immaginario del mondo ebraico. Israele è quindi inseparabile dal mondo ebraico. Inoltre, la lingua ebraica è inseparabile dal mondo ebraico ed è altrettanto inseparabile dalla terra d’Israele, dal momento che la lingua è nata da questa terra. La geografia, la toponomastica di questa terra è ebraica. I luoghi della terra d’Israele, della Palestina sono luoghi ebraici, perché derivano dalla lingua ebraica. La terra d’Israele è al centro dell’immaginario ebraico, nonostante gli ebrei non vi vivano da lungo tempo. Gli ebrei vivono lontano dalla Palestina, eppure la terra è come se li abitasse sempre. E’ questo l’aspetto cruciale che tante persone fanno fatica a capire. Nel corso del XIX secolo la terra d’Israele, pur essendo gli ebrei dispersi in diversi paesi, continua ad abitarli. Ed è proprio per questo, che nella seconda metà dell’800, in seguito alla secolarizzazione del mondo occidentale, che vede un allontanamento della società dalla sfera religiosa, ciò che comunemente chiamiamo la morte di Dio, anche il mondo ebraico si secolarizza e laicizza, interrogandosi sulla propria giudeità privata dell’aspetto religioso. L’idea sionista nasce quindi all’interno della secolarizzazione del mondo occidentale. Come essere ebreo senza più credere in Dio? Inoltre, in questi anni centrali dell’800, in Europa si assiste alla nascita dei movimenti nazionali cui il mondo ebraico, occidentale anche lui, partecipa. C’è un forte nesso, per esempio, tra il movimento risorgimentale italiano e il sionismo, e questo per una semplice ragione: i primi sionisti associarono, quasi naturalmente, Roma a Gerusalemme. Uno dei padri del sionismo, Moses Hess, amico di Karl Marx pubblicò, già nel 1862 un saggio dal titolo " Roma e Gerusalemme ". Ispirandosi al Risorgimento italiano immaginò la seguente ipotesi; come gli italiani, discendenti dei romani, erano riusciti, grazie a Cavour e Vittorio Emanuele II, ad avviare il processo dell’unità d’Italia ( siamo ancora nel 1862, agli albori dell’unità d’Italia ) anche gli ebrei avrebbero potuto far " risorgere " Gerusalemme. Questo legame stretto fra sionismo e Risorgimento italiano emergerà nel corso dei decenni successivi, in particolare nella corrente di destra sionista, capeggiata da Zeev Jabotinsky, il quale rimarrà molto legato a Roma, anche perché gran parte dei suoi studi li aveva svolti in Italia. Sappiamo anche che Mussolini, almeno fino ai primi anni ’30, appoggiò Zeev Jabotinsky e consentì a gruppi sionisti di allenarsi nella base militare di La Spezia. Ci sono stati dei legami tra il movimento fascista italiano e la corrente sionista di destra, mentre invece i sionisti di sinistra non hanno avuto alcun contatto con i fascisti italiani.

Secolarizzazione della società e nascita dei movimenti nazionali in Europa, in particolare il Risorgimento italiano, costituiscono dunque le fondamenta del movimento sionista. Entrambi, però, sono inseparabili dalla Torah, poiché la Torah per i sionisti non è solo un libro religioso, della rivelazione ma anche un libro di storia, che racconta la storia del popolo ebraico. L’esilio, il regno di Giuda, ecc. rappresentano per i sionisti la storia del proprio popolo. E’ così che essi leggono ed interpretano la Torah, in contrasto totale, ovviamente, con la lettura che ne fa e ne ha sempre fatto un rabbino ultraortodosso. Il sionismo nasce, è bene sottolinearlo, come rottura col mondo religioso ortodosso ebraico, e tuttavia è inseparabile dal mondo religioso, perché è inimmaginabile concepire un’identità ebraica separata dalla Torah. La Torah, ripeto, non come parola di Dio, ma come libro di storia. Vi è quindi implicita, nell’idea sionista, sin dagli inizi, una contraddizione. Pur presentandosi come rottura nei confronti del mondo religioso, non può separarsi dalla religione, o almeno non lo può fare interamente, in quanto rischierebbe di perdere il proprio senso e rischiare di auto annullarsi. Ciò spiega l’ambivalenza costante del sionismo e dello stato d’Israele, ancor oggi presente, in bilico tra laicità e radici religiose. Ancor oggi infatti è impossibile operare un taglio netto. Israele, è uno stato laico o teocratico ? Possiamo dire che non si tratta di una teocrazia, ma di uno stato laico, poiché per dirimere un conflitto di ordine religioso si fa appello alla Corte suprema e non al tribunale rabbinico. Ciò ci consente di dire che non si tratta di una teocrazia. In Iran per esempio è il tribunale islamico ad avere l’ultima parola.

Il sionismo in ogni caso ha sempre dovuto convivere con questa contraddizione poiché non ha mai potuto separarsi completamente dalla Torah.

Dalla sua ricerca si evince che le prime migrazioni verso la Palestina iniziaronoo molto prima della dichiarazione di Theodor Herzl

I primi pionieri arrivano in Palestina verso il 1880. Si tratta di ebrei russi e orientali laici convinti di gettare le basi per la rinascita di una comunità ebraica in Israele e risolvere così la questione ebraica europea. Oltre agli ebrei europei si trasferirono, in questo periodo, in Palestina diverse comunità ebraiche yemenite, fenomeno questo poco conosciuto.

Le motivazioni di questi primi pionieri, non sono religiose ma laiche. Le generazioni successive saranno composte invece da giovani atei socialisti completamente estranei alla religione, che, una volta arrivati in Israele, non andranno neanche a vedere il Muro. Si tratta della generazione di Ben Gurion.

Quali sono state le reazioni dell’ebraismo religioso di fronte all’idea sionista?

Il mondo religioso è stato complessivamente, sin dall’inizio antisionista. Solo una piccola minoranza ha aderito al movimento sionista.

Il mondo religioso ha respinto l’idea sionista per due motivi: il primo è legato al credo e alla fede. Secondo il credo religioso ortodosso ebraico non è consentito agli umani anticipare artificialmente l’arrivo del Messia. La redenzione avverrà quando Dio vorrà. Sostituirsi al Messia costituisce un insulto a Dio.

Il secondo motivo è di tipo psicologico. Il mondo ortodosso si era reso perfettamente conto che il sionismo, essendo un movimento laico e secolare, avrebbe comportato, alla lunga, la fine del monopolio ortodosso rabbinico. La fine del proprio mondo e del proprio potere. Non avevano torto. La loro reazione è dunque comprensibile.

L’idea sionista è stata osteggiata anche da diversi ebrei laici.

Il sionismo non ha mai ottenuto l’adesione incondizionata di tutto il mondo ebraico. Anzi. I primi antisionisti sono stati proprio gli ebrei. Oltre agli ortodossi, a cui abbiamo appena accennato, ci sono stati diversi antisionisti ebraici, che ritenevano che il sionismo fosse una chimera, un’utopia o una follia. Possiamo distinguere tre correnti dettate da contesti e retroterra ideologici diversi. Coloro che pensavano che ci si dovesse completamente integrare nelle nazioni di appartenenza e che la propria fede non fosse altro che una mera e insignificante caratteristica individuale. Per queste persone il sionismo rischiava di mettere in pericolo il processo d’integrazione se non addirittura di far apparire gli ebrei come dei cittadini poco affidabili, in quanto in bilico tra due appartenenze. L’altra corrente era costituita dai socialisti rivoluzionari i quali pensavano che la tentazione nazionalista fosse una impasse ideologica. Per loro l’unica soluzione risiedeva nella lotta di classe. Il trionfo del socialismo avrebbe sconfitto definitivamente l’antisemitismo. Questa corrente rivoluzionaria la troviamo tra i socialisti russi e tedeschi come per esempio Rosa Luxembourg.

Una terza corrente era costituita dai socialisti del Bund polacco, i quali ritenevano che la comunità ebraica orientale esistesse e vivesse già come nazione: avevano la loro lingua, lo yiddish, i loro costumi e le loro organizzazioni. Possedevano tutte le caratteristiche e le potenzialità di una nazione a sé stante. Per il Bund polacco non occorreva andare in Palestina per creare la propria nazione, dal momento che la si poteva benissimo costruire in Polonia dove viveva la maggioranza degli ebrei europei. Essi coltivavano l’idea di chiedere un’autonomia alla Polonia e alla Russia. Non erano integrazionisti come gli ebrei occidentali.

Il sionismo, come abbiamo appena visto, non fece mai l’unanimità nel mondo ebraico.

Ci fu un antisionismo di principio in quanto in Palestina si andavano a ledere i diritti di un’altra popolazione, creando i presupposti per un nuovo conflitto, dato che l’avventura sionista poteva apparire di tipo coloniale?

Questa corrente critica ci fu ma fu esigua e marginale. Il termine colonialismo appare raramente all’epoca, dato che l’arrivo degli ebrei in Palestinesi non fu vissuto come un’impresa colonialista. Innanzitutto perché ogni operazione coloniale presuppone una metropoli, che in questo caso non c’era. In secondo luogo la colonizzazione presuppone la dominazione della popolazione locale, che anche in questo caso non ci fu. Gli ebrei comprarono le terre e le coltivarono senza sfruttare la popolazione araba locale. La critica avverrà quando dei nuovi sionisti, appena sbarcati, si accorgeranno del conflitto nascente tra gli ebrei sionisti e la popolazione locale araba. Essi si rendono conto che si va verso una guerra, che la popolazione araba è comunque maggioritaria su questa terra; gli arabi hanno paura di essere spogliati delle loro terre e, di conseguenza, la guerra sarà inevitabile. Per queste persone sarebbe meglio abbandonare il progetto sionista, visti i pericoli soggiacenti e difficilmente risolvibili. Questa corrente critica sionista optò per due soluzioni: alcuni rientrarono in Europa, altri vi rimasero, pensando di costruire uno stato binazionale. Tra questi ultimi troviamo dei nomi celebri, quali Martin Buber. Per loro bisognava rinunciare alla creazione di uno stato ebraico e pensare invece alla creazione di uno stato binazionale. Non era la soluzione ideale, ma la meno peggio.

Un’idea utopica, questa.

Certamente. Creare uno stato binazionale è un’idea utopica essenzialmente per due ragioni: la prima, per il semplice fatto che gli ebrei volevano creare uno stato nazionale, seppur in un fazzoletto di terra, per poter essere finalmente maggioranza nel proprio paese. Creando uno stato binazionale gli ebrei non sarebbero mai stati maggioranza, dal momento che la popolazione araba sarebbe sempre stata largamente maggioritaria nella regione. La seconda ragione è che quest’idea è sempre stata veicolata da ebrei europei, e mai da ebrei arabi, i quali conoscevano sulla propria pelle, a differenza degli europei, che nel mondo arabo l’ebreo aveva sempre dovuto sottostare allo statuto di " dhimmi ", cioè di sottomesso, di semplice tollerato. Gli ebrei arabi sapevano, che la loro condizione nel mondo arabo non era idilliaca, e, pogrom a parte, non si viveva così bene come in Europa. Nonostante l’odio e il disprezzo patiti in Europa orientale, nei paesi arabi l’ebreo non era considerato al pari degli altri uomini, ma come un essere inferiore. La condizione dell’ebreo appare chiaramente nei testi arabi dell’epoca: l’ebreo è una femminuccia, un codardo, un essere spregevole. Era di conseguenza inconcepibile per un arabo accettare di condividere su un piede di parità politica lo spazio e la gestione della res publica con un ebreo. L’idea di uno stato binazionale con parità di diritti tra ebrei ed arabi era una folle utopia. Quest’idea proveniva dalle menti di sionisti europei tedeschi che ignoravano completamente il mondo arabo. Ignoravano la condizione degli ebrei nei paesi arabi dal Marocco all’Iran. Se ne fossero stati a conoscenza si sarebbero resi conto di quanto fosse demenziale la loro idea di stato binazionale.

I sionisti non sono mai riusciti a trovare degli interlocutori arabi disposti a dialogare e a cercare una soluzione condivisa in questi anni tra il 1880 e il 1940?

Le persone disposte sono state rarissime. Qualche intellettuale, ma si possono contare sulle dita di una mano. In ogni caso il rifiuto assoluto, in blocco del sionismo è stato tale che furono costretti a tacere. Le violenze purtroppo sono iniziate subito. Ci sono stati dei deboli passi almeno per tentare di capire. Il rifiuto di accettare o perlomeno tentare di comprendere il sionismo, non è dovuto a una resistenza "anticoloniale", – anche se in seguito gli arabi hanno approfittato di questo termine e di questo concetto – ma si spiega per la condizione ebraica in terra araba che risale all’avvento dell’Islam. La condizione del dhimmi, e cioè di un essere inferiore, costantemente umiliato. E’ di conseguenza inimmaginabile che questo essere inferiore possa non solo diventare un nostro pari ma addirittura costruire uno stato sovrano su di una terra che è solo araba e musulmana. Il mondo arabo nei riguardi del sionismo ha un atteggiamento assolutamente negazionista in quanto nega qualsiasi legame storico o origine ebraica presente su questa terra. Per il mondo arabo gli ebrei non costituiscono un popolo e non hanno alcun diritto storico su questa terra. Si tratta però di una doppia menzogna: per prima cosa, nessuno può arrogarsi il diritto di stabilire chi è un popolo e chi non lo è, e in secondo luogo la terra e la lingua ebraica presente nella toponomastica prova in maniera inconfutabile che Israele è una terra ebraica. Se gli ebrei dicessero agli arabi che non sono un popolo, li accuserebbero di essere colonialisti. Tuttavia gli arabi si avocano il diritto di affermare che gli ebrei non costituiscono un popolo, ma solo una religione, e di conseguenza non avrebbero diritto, secondo loro, ad avere un proprio stato. Questo sì che è un atteggiamento colonialista, ma da parte degli arabi nei confronti degli ebrei. Considerandoli come esseri inferiori, sottomessi e umiliati, decidendo in nome loro cosa dovrebbero essere, si assume un atteggiamento colonialista.

Esiste un profondo conflitto culturale tra ebrei e arabi, che impedisce di trovare una soluzione?

La figura del dhimmi, essendo presente nei testi arabi, ci mostra quanto sia forte il conflitto culturale. La comprensione del conflitto culturale è necessaria per capire il conflitto politico. Se si trascura la dimensione culturale del conflitto, la dimensione politica risulta monca e incompleta. Sebbene si tratti di un conflitto politico e territoriale, la dimensione culturale è soggiacente, nascosta, che non si svela apertamente. Nell’immaginario arabo, benché lo statuto del dhimmi sia stato abolito, l’ebreo è ancora un essere inferiore, vile e spregevole. Ancor oggi, nei testi attuali, nella letteratura, e in particolare nel mondo arabo iraniano e sciita, l’ebreo resta ed appare come immondizia, come un essere inferiore, impuro e essere spregevole. Per esempio in Iran, fino al 1930, un ebreo non poteva affittare una casa ad un musulmano, poiché era diventata impura. Questa immagine culturale, veicolata fino ai giorni nostri, è estremamente importante per tentare di capire il conflitto israelo-palestinese. L’immagine dell’ebreo, come essere inferiore, presente in tutto il mondo arabo, rende impensabile l’esistenza dello stato d’Israele. L’israeliano indipendente, emancipato e vincitore sconvolge letteralmente lo schema culturale classico arabo. E’ inconcepibile, per il mondo arabo, che anche gli ebrei possano avere dei diritti. Siamo in presenza di un vero e proprio autismo arabo a livello storico. Lo stesso avviene nei riguardi del Muro del Tempio e della spianata delle moschee. Per il mondo arabo esiste solo la loro presenza. E’ per questo che le radici del conflitto sono molto più profonde.

Negli anni ’20 e ’30 l’atteggiamento dell’Europa e dell’Inghilterra, riguardo alla creazione di uno stato ebraico, è stata ambigua?

Molto ambigua. L’Inghilterra, appoggia, con la dichiarazione Balfour del 1917, la creazione di uno stato ebraico, per ragioni di opportunismo politico. A causa della guerra mondiale in corso l’Inghilterra ha bisogno del sostegno degli ebrei. L’antisemitismo imperante di quegli anni, in questo caso svolge un ruolo benefico in quanto induce gli inglesi a ritenere gli ebrei detentori di chissà quali poteri…. Ciò spiega la dichiarazione Balfour. Sennonché, appena finita la guerra gli inglesi si pentono della loro promessa, senza però poter far marcia indietro. Di conseguenza tutta la loro politica, dagli anni ’20 in poi, sarà tesa a sabotare e annullare progressivamente la dichiarazione del 1917, per rallentare o addirittura impedire l’emigrazione verso la Palestina. La dichiarazione Balfour si rivelerà uno dei più grandi errori della diplomazia britannica. Nel 1939 il libro bianco annulla la Dichiarazione Balfour dato che blocca l’immigrazione fissando un tetto massimo di 15.000 persone per 5 anni, e questo in un periodo cruciale della storia ebraica. L’Inghilterra all’epoca era favorevole alla nascita di uno stato arabo ma non di uno stato israeliano.

Sarebbe potuto nascere in quel momento uno stato palestinese?

E’ difficile da dire. Sicuramente sarebbe scoppiata una guerra tra arabi e israeliani. Non è neanche detto che gli stati confinanti avrebbero favorito la nascita di uno stato palestinese indipendente. Ci sarebbe stato un bagno di sangue,

Perché dopo la dichiarazione dell’ONU del 1947, che prevedeva la nascita di due stati non è sorto negli anni successivi lo stato palestinese?

Una domanda cui nessuno osa rispondere, perché scomoda. Nel 1949 dopo la guerra, vinta da Israele, pur essendosi allargati i confini israeliani, rispetto a quelli sanciti dall’ONU, esiste un territorio in cui sarebbe dovuto nascere lo stato palestinese. Perché questo stato non è stato creato? Questo interrogativo, in particolare la sinistra europea, che ha tanto a cuore la questione palestinese, nessuno se lo pone. L’Egitto amministra la striscia di Gaza e il regno di Giordania annette i territori orientali tra cui Gerusalemme est. I primi a violare l’indipendenza dello stato palestinese non sono solo gli israeliani ma i vicini arabi, per impedire la nascita dello stato palestinese. Perché questo stato non fu creato quando ciò era possibile? Tra il 148 e il 1967 hanno avuto a disposizione 19 anni per crearlo, ma non l’hanno mai fatto. Perché? Nessuno vuole ricordare questa storia, a nessuno fa comodo ricordarla, è meglio rimuoverla e tenerla nascosta. La verità è che nessuno voleva creare lo stato palestinese ma semplicemente annettersi i territori e tentare di cancellare Israele con la forza.

Ancora oggi c’è chi si definisce antisionista. Cosa significa secondo lei?

Ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole. E’ del tutto legittimo criticare la politica d’Israele, ma se questa critica sottintende una delegittimazione, un non riconoscimento dello stato israeliano ci troviamo di fronte a qualcosa di molto grave. Negare o non riconoscere l’esistenza di uno stato significa aprire la strada ad un genocidio. Cosa significa la fine di uno stato? Significa una tragedia, un massacro. Non esiste una fine pacifica di uno stato. Bisogna essere consapevoli del peso delle parole. Essere contro uno stato significa correre il rischio di creare le condizioni per un genocidio. Inoltre, significa operare una totale discriminazione. Gli ebrei sarebbero l’unico popolo di questa terra a non avere diritto ad un proprio stato. Tutti i popoli avrebbero diritto all’autodeterminazione tranne gli ebrei. Chi pensa che gli ebrei non siano un popolo, in nome di chi parlano? Spetta agli ebrei e solo a loro dire se sono un popolo o meno. Rifiutare loro questo diritto significa ancora una volta assumere un atteggiamento colonialista che consiste nel arrogarsi il diritto di pensare al posto di altri, per mantenerli in uno stato di sottomissione. Chi riconosce lo stato d’Israele non può essere antisionista.

pubblicata originariamente sulla rivista "Una Città di Forlì"


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