Pubblichiamo un’intervista molto interessante ad Ayaan Hirsi Ali apparsa sabato 8 marzo su
La Repubblica
delle Donne a firma Anais Ginori.
Minacciata di morte. Hirsi Ali è una donna in fuga. Che qui si racconta. Tra polemiche, protezioni, politica, religione, Europa e Islam.
Ayaan ha gli occhi stanchi. Scruta i volti delle persone che vengono a testimoniarle solidarietà e concede un sorriso breve. Si muove con circospezione, nel salone dell’hotel che la ospita, in questa gelida mattina parigina. Perché il suo assassino potrebbe nascondersi ovunque.
“Ci si abitua, purtroppo. E la paura è diventata parte di me”. Ayaan Hirsi Ali è una donna in fuga, diventata bersaglio mobile da quando un fanatico islamico uccise il suo amico Theo Van Gogh, sgozzato e abbandonato in un canale di Amsterdam. Sul petto del regista olandese l’assassino lasciò infilzata una lettera diretta a lei. “La prossima sei tu”. Quel pazzo estremista, figlio di immigrati marocchini apparentemente integrato nella società occidentale, fu poi arrestato. E processato. Ma il Paese del multiculturalismo e della tolleranza non si è ancora ripreso da quello shock. Era il 2 novembre 2004. E lei – sacrilega autrice del film Submission che affrontava il tema dell’oppressione delle donne mussulmane – si è dovuta trasferire negli Stati Uniti, abbandonando così l’Olanda che l’aveva accolta dalla Somalia, concedendole asilo politico. Fino all’elezione in Parlamento, dov’è stata la paladina dei diritti femminili contro l’infibulazione, i crimini d’onore, i matrimoni forzati. “Quando arrivai”, ricorda oggi
la Hirsi
Ali
, “nessun politico aveva il coraggio di pronunciare la parola Jihad o Islam. Il dibattito era bloccato. Tutti chiudevano gli occhi, in nome del rispetto per le differenze culturali e religiose”.
Perché è dovuta scappare dall’Olanda?
“Sarò sempre grata agli olandesi che mi hanno regalato la libertà e l’istruzione. In Olanda ho imparato che cos’è l’Europa e ho conosciuto il suo passato, l’Europa delle idee, dell’Illuminismo. Ho cominciato a dare valore alla libertà di espressione, a parlare contro l’ingiustizia, e capire che si può rischiare la propria vita per difendere un’idea. Ma dopo l’omicidio di Theo, il governo si è mostrato insofferente alle mie critiche all’Islam e, di pari passo, mi hanno fatto capire di non essere più in grado di garantire la mia sicurezza”.
Dove ha vissuto in questi ultimi anni?
“Nei primi mesi ho cambiato domicilio quasi tutti i giorni. Dormendo in caserme, basi aeree, sedi diplomatiche. Quando finalmente le autorità mi hanno trovato una casa, i vicini hanno sporto denuncia temendo per la loro incolumità. E il giudice mi ha obbligato a traslocare di nuovo. Sono stata costretta a partire per gli Stati Uniti. A Washington, dove lavoro, ho trovato un rassicurante anonimato anche se circondata dalle guardie del corpo”.
Il problema però è chi paga questa protezione.
“Nonostante gli impegni presi, il governo olandese ha deciso di non pagare più. Gli Stati Uniti, che mi hanno dato la carta verde e un lavoro, per ragioni legali non possono accollarsi la sicurezza di cittadini stranieri. Il contratto con la società privata che mi dà la scorta costa due milioni di euro all’anno: una cifra impossibile da sostenere per un singolo cittadino. In questi ultimi mesi, sono stata costretta a raccogliere donazioni. Molti amici mi hanno aiutato, ho elemosinato qui e là soldi per tirare avanti”.
Cosa pensa dell’idea di ottenere la cittadinanza francese come richiesto da Bernard-Henry Levy al presidente Sarcozy?
“Sono stata molto lusingata dall’appoggio di alcuni intellettuali francesi, come delle belle parole che su di me ha scritto Salman Rushdie. Sono stati gesti spontanei e per questo ancor più commoventi.
La Francia
per me rimane il simbolo dell’Illuminismo, di Voltaire, rappresenta il modello di cultura a cui mi ispiro. So però che la naturalizzazione è un processo lungo, e per adesso mi mancano alcuni requisiti come saper parlare il francese. Mi metterò a studiare, ma ogni giorno che passa per me è più rischioso”
Si è parlato anche di un fondo europeo per proteggere intellettuali come lei minacciati dai fondamentalisti.
“Non voglio morire. Amo la vita. E il mio unico crimine è quello di parlare liberamente. Non credo che esista principio più radicato nella cultura europea. L’idea è di creare un fondo, simile a quello garantito dall’Italia per i pentiti di mafia, che serva a finanziare la protezione di intellettuali minacciati di morte. La portata e il significato dell’iniziativa vanno al di là della mia vita o della mia morte. Perché purtroppo esiste una piccola minoranza che minaccia e intimidisce intellettuali in tutta l’Europa”.
Non crede che, di fronte a questi estremisti, anche lei dovrebbe moderare di più i toni? Lei ha detto per esempio che il Profeta era un “tiranno” e un “pervertito”.
“Ho sempre parlato contro l’oppressione delle donne nel nome dell’Islam, che una volta era la mia fede, e non mi pento di questo. Si può non essere d’accordo con la mia analisi, e forse pensare che sono dura verso l’Islam o che mi esprimo in uno stile troppo controverso. Ma nessuno può contestare che io abbia usato solo mezzi pacifici per difendere i miei argomenti: articoli, libri, discorsi e un solo film”.
Lei ha detto anche che l’Islam non è compatibile con le democrazie occidentali.
“In effetti, la sharia, l’insieme dei principi dell’Islam applicati alla vita quotidiana, non è conciliabile con l’idea che l’Occidente ha del rispetto delle libertà individuali. Anche il cristianesimo non è compatibile con la democrazia ma le società cristiane hanno da tempo stabilito la separazione tra Stato e Chiesa”.
Alcuni suoi lontani parenti hanno detto che lei non è mai stata infibulata o costretta a un matrimonio combinato. Altri suoi detrattori sostengono che lei ha mentito per ottenere l’asilo politico.
“Sì, nel 1992 ho mentito alle autorità olandesi dicendo che fuggivo dalla guerra in Somalia, anche se in realtà la mia famiglia si era già trasferita in Kenya. Fu un mero trucco amministrativo, alcuni politici olandesi hanno deciso di diffondere la notizia molto tempo dopo soltanto per diffamarmi. Quando mio padre mi propose di sposare un cugino accettai, ma unicamente perché vivevamo una logica di clan, non avevo scelta. Sull’infibulazione non saprei come rispondere: dovrei allargare le gambe? Il 99 per cento delle donne somale subisce la mutilazione genitale”.
In politica ha iniziato come parlamentare laburista, poi è passata al partito conservatore. Ora lavora a una fondazione americana neocon. Qual è la sua vera fede politica?
“La sinistra mi ha deluso. E’ prigioniera del “politicamente corretto”. In nome della tolleranza e del rispetto delle comunità etniche e religiose ha rinunciato a difendere i principi democratici. La fondazione American Enterprise mi lascia completa libertà, nessuno impone cosa scrivere o dire. Mi considero una liberale, nel senso europeo del termine”.
A cosa sta lavorando adesso?
“Preparo un libro, Shortcut to Enlightment (“Scorciatoia per l’illuminazione”), in cui il Profeta Maometto si risveglia nella National Library di New York e dialoga con John Stuart Mill”.
Qual è il prezzo da pagare per questa sua battaglia?
“Mio padre e mio fratello non mi parlano più, si vergognano di me. Non ho ancora potuto costruirmi una famiglia, in queste condizioni come potrei? Sapevo ciò che mi aspettava quando iniziai la mia battaglia, non sono un’incosciente. Allo stesso tempo, ho anche ricevuto tante gratificazioni. Il successo dei miei libri, i premi per la difesa dei diritti umani. Ho la consapevolezza di aver contribuito ad aprire una riflessione, a far avanzare un po’ anche l’Islam. Ci sono tante donne mussulmane che mi scrivono ringraziandomi per il coraggio. Sono queste piccole cose che mi fanno dire che ne è valsa la pena”.
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