" Un muro per dividerci e poi la pace " è il titolo dell'intervista a A.B.Yehoshua sulla STAMPA di oggi, 08/03/2008 a cura di Fabio Galvano. La tesi dello scrittore insraeliano non è nuova, e altamente condivisbile. Ma una cosa è pronunciare un desiderio, altra cosa è avere i mezzi per realizzarlo. Non a caso è il condizionale il tempo più usato da Yehoshua nell'intervista. Se un paese confinante con l'Italia lanciasse da alcuni anni missili su, mettiamo, Bolzano, commettesse stragi ad opera di terroristi sul nostro territorio nazionle, persino un paese pacifico come il nostro avrebbe già reagito, con la comprensione internazionale. Ma ad Israele ciò non è consntito. Come dice Massimo D'Alema, lo stato ebraico deve trattare con chi lo aggredisce, con chi nemmeno lo riconosce e agisce per distruggerlo. Sta poi per arrivare a galla il problema del rapporto con gli arabi israeliani, come ha dimostrato l'identità dell'autore della strage di studenti alla Yeshiva di Merkaz HaRav, un israeliano che abitava a Gerusalemme, non a Gaza.
Accanto all'intervista, la cronaca di Francesca Paci, ma il tutto viene impaginato in modo < equidistante >, come direbbe D'Alema. Si riportano le notizie sull'attentatore, ma accanto le < colpe > di Israele, come se Israele commettese stragi di bambini palestinesi a freddo, come fanno i terroristi con i civili israeliani. Il < doppio standard > viene seguito dalemianamente, senza mai dire che le postazioni dei lanci dei missili vengono apposta piazzate in mezzo alle abitazioni civili, in modo da causare vitime fra la popolazione. L'immagine di Israele viene così manipolata e sui media internazionali viene vista sullo stesso piano dei terroristi. Non uno stato che cerca di difendersi, ma un < aggressore > che usa la violenza dei suoi stessi nemici.
Ecco l'intervista:
Non dobbiamo cadere, dopo quest'ultimo gesto di terrorismo, nella psicosi del nemico che vive alla porta accanto. Dopo tutto, non è passato molto tempo da quando anche Gaza era una porta accanto». Cerca di sdrammatizzare, Avraham Yehoshua; ma si sente che l'ultimo attentato lo ha scosso. Proprio quando le cose sembravano sul punto di avvicinarsi alla strada da lui sempre invocata - due stati distinti, palestinesi da una parte e israeliani dall'altra - il riacutizzarsi del problema della sicurezza nel cuore della capitale Gerusalemme potrebbe creare un nuovo motivo di disturbo agli sforzi che entrambe le parti, a suo dire anche i palestinesi di Abu Mazen, stanno facendo.
Siamo di fronte all'ennesima escalation della violenza?
«Sinceramente non lo so, ma è un fatto che ormai siamo abituati a vivere con questo genere di pericolo. Il ragazzo che ha sparato nella scuola, chiaramente per vendicare la recente incursione israeliana a Gaza che ha provocato molte vittime, è un arabo israeliano, cioè uno che viveva nella sezione araba di Gerusalemme, con carta d'identità israeliana, con libertà di movimento anche se non di voto. E questo è un problema che ci trasciniamo da quando Israele pensò di complicare le cose annettendosi la parte araba di Gerusalemme».
C'è un modo per uscire da questa logica di violenza?
«Direi che occorrono tre cose. Primo, un efficace e reale cessate il fuoco a Gaza, un armistizio con Hamas. Secondo, la costruzione di più muri per separare le due comunità: dove sono stati eretti, molti problemi sono scomparsi. E' una necessità della quale si sono resi conto persino gli egiziani, che pure condividono con i palestinesi la religione e, in parte, le origini. Terzo, una maggiore cooperazione della polizia palestinese».
La politica di Abu Mazen, nella ricerca del dialogo, non è stata sufficientemente incisiva?
«Abu Mazen ha fatto molto, ma deve fare di più. Ha fatto del suo meglio, per porre freno al terrorismo. Condannandolo, agendo attraverso i canali privilegiati di cui dispone. Ma anche lui ha bisogno di un maggiore aiuto da parte del governo di Gerusalemme per poter avere veramente la possibilità di controllare più fermamente la situazione».
Questo può essere vero per Gaza, ma per l'enclave araba di Gerusalemme?
«Fa tutto parte di un problema unico, che occorre risolvere nel suo insieme. La verità è che, nella divisione delle due comunità, non sono ancora stati stabiliti dovunque confini precisi e sicuri. Mi riferisco sempre a quella che è probabilmente la vera soluzione del problema, cioè il ritorno alla linea del 1967. Una linea che non può essere fissata unilateralmente, ma che deve essere negoziata fra il governo d'Israele e Abu Mazen. Voglio ripeterlo: da quando ci sono i muri la situazione è migliorata, per il terrorismo palestinese è molto più difficile agire contro di noi. E sono convinto che, con un'intensificazione di quella politica, il terrorismo possa essere debellato completamente, o quasi».
Prima accennava al muro degli egiziani. Un muro che però, come si è visto nelle scorse settimane, non è stato molto solido.
«Il Cairo fa bene a essere pragmatico, e questo significa essere elastico quando è necessario. Il ruolo dell'Egitto non va sottovalutato in questo frangente. Il Cairo può certamente aiutare nella ricerca della pace. Può fornire garanzie, con la certezza di essere ascoltato dai palestinesi molto più di quanto possa esserlo il governo di Gerusalemme. Al limite potrebbe anche assumere un ruolo attivo a Gaza, con un nucleo di forze con funzioni di polizia. Se lo facesse, penso che quello potrebbe davvero essere un momento decisivo».
Ma intanto il terrorismo continua. E viene, come in questo caso, dalla porta accanto.
«Lo ripeto: tutto è una porta accanto. Anche i territori, prima del muro, erano una porta accanto. Conviviamo con il terrorismo da troppi anni perché un fatto come quest'ultimo, per quanto tremendo, possa cambiare l'atteggiamento di chi, come me, crede che la pace sia possibile».
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