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Europa Rassegna Stampa
04.03.2008 Coinvolgere Hamas nel negoziato
è la formula magica di Janiki Cingoli, da riproporre sempre e comunque

Testata: Europa
Data: 04 marzo 2008
Pagina: 1
Autore: Janiki Cingoli
Titolo: «Il dilemma di Israele»

Trattando con Hamas, ammette Janiki Cingoli su EUROPA del 4 marzo 2008, Israele rischierebbe di dare ad Hamas l'opportunità di rafforzarsi e tornare ad attaccare quando lo riterrà più conveniente.
Nonostante questa ammissione, e nonostante il fatto che Cingoli sappia perfettamente che per Hamas Israele deve essere distrutto, alla fine dell'articolo riemerge la ricetta di sempre: coinvolgere Hamas nel negoziato.
Una tesi che non viene nemmeno più argomentata. Anzi, si possono persino esporre con candore gli elementi di fatto che la contraddicono. Forse si tratta di un dogma, cui credere anche contro l'evidenza.

Ecco il testo: 

Israele si sta ritirando da Gaza, ma è probabile che la massiccia operazione (con oltre cento vittime palestinesi, fra cui civili e bambini), non sia l’ultima.
Nelle scorse settimane Hamas aveva effettuato una escalation drammatica, utilizzando anche razzi iraniani di maggiore portata (fino a venti chilometri), che erano arrivati a colpire anche la popolosa città di Ashkelon, con oltre centomila abitanti. Una minaccia su vasta scala, di fronte a cui il governo Olmert non poteva restare inerte, anche per la crescente pressione dell’opinione pubblica.
È evidente tuttavia che operazioni di questo genere sono soltanto dei palliativi, per quanto sanguinosi e forieri di pesanti reazioni internazionali e arabe. Incapaci di risolvere stabilmente il problema dei razzi, come l’esperienza ha ampiamente dimostrato.
Non che il moltiplicarsi degli attacchi mirati contro i leader militari di Hamas non abbia duramente falcidiato l’organizzazione, ma dal punto di vista politico è questa a cantare vittoria, di fronte al ritiro israeliano.
La stessa condanna espressa da Abu Mazen, con la sospensione dei negoziati con gli israeliani, può essere valutata più come un’espressione di debolezza che di forza. Né può essere sottovalutato l’impatto emotivo delle immagini delle vittime, continuamente ritrasmesse dai canali arabi: sono in molti, dentro Al Fatah, ad accarezzare la speranza che lo stato ebraico faccia per loro il lavoro sporco, abbattendo il governo imposto da Hamas su Gaza, e riconsegnandolo al più o meno legittimo governo dell’Anp, o almeno affidandolo al controllo del consiglio di sicurezza dell’Onu.
Israele si trova oggi di fronte a due opzioni, ugualmente drammatiche: effettuare una completa rioccupazione della Striscia, con l’inevitabile corollario delle previste e pesanti perdite militari, oltre che dell’altissimo numero di civili palestinesi che sarebbero travolti dai combattimenti (per non parlare delle possibili ritorsioni di missili sulle città israeliane) e tornare a sopportare il peso di questa rinnovata occupazione, a cui Israele aveva cercato di sottrarsi con il ritiro unilaterale dell’estate 2005.
Oppure trattare una tregua di lungo periodo con Hamas (come ripetutamente proposto da questa organizzazione islamica), accompagnato da un consistente scambio di prigionieri che includa la liberazione del soldato Shalit. Una tregua bilaterale, che non includa solo Gaza ma anche le operazioni mirate contro gli esponenti islamici in Cisgiordania. Il rischio è che Hamas utilizzi come già altre volte questo periodo di respiro per riprendersi dalle perdite e per rafforzarsi.
Inoltre, un negoziato diretto con Hamas scavalcherebbe Abu Mazen, che se ne sentirebbe indebolito e emarginato. E questo mentre Olmert interdice al presidente palestinese ogni contatto con l’organizzazione islamica, minacciandolo in caso di ripristino degli accordi della Mecca e di rinnovata formazione del governo di unità nazionale palestinese di troncare la trattativa sul Final Status, avviata con la conferenza di Annapolis (trattativa che peraltro già prima della sospensione palestinese si trascinava in maniera sostanzialmente inconcludente).
Abu Mazen, d’altronde, vuole attendere, prima di riprendere i contatti con Hamas (come richiestogli dai maggiori stati arabi), di aver concluso qualcosa al tavolo negoziale, in modo da presentarsi a quell’incontro più forte e non come un perdente senza prospettive.
Tuttavia è evidente che il coinvolgimento anche indiretto dell’organizzazione islamica nel meccanismo diplomatico e nello stesso governo dell’Anp appare essenziale per garantire una qualche credibilità agli esiti dello stesso negoziato.
Hamas ha dimostrato anche in questi giorni che può, se vuole, provocare un’impennata della tensione e far deragliare lo sviluppo del processo di pace.
È questo meccanismo di veti e di ricatti incrociati che la comunità internazionale, in stretto collegamento con il mondo arabo e specificamente con Egitto e Arabia Saudita, dovrebbe impegnarsi a smantellare (come richiesto anche in questi giorni dal parlamento europeo), innescando un processo inverso: favorendo la ricomposizione interna interpalestinese, rimuovendo la minaccia di boicottaggio contro il governo che ne potesse scaturire, appoggiando l’Egitto nei suoi sforzi per favorire la tregua tra Hamas e Israele e lo scambio dei prigionieri, imprimendo un nuovo e forte impulso ai ristagnanti negoziati sul Final Status.
Né va trascurata la ripresa dell’opzione siriana, che potrebbe dare un contributo potente a disinnescare le rinascenti tensioni a Gaza e in Libano.
Se la comunità internazionale si dimostrasse incapace, e i protagonisti locali venissero lasciati soli, alle prese con i loro riflessi condizionati, lo sviluppo degli avvenimenti è annunciato: tra qualche settimana, quando Israele si sentirà pronto militarmente e avrà completato la sua preparazione, Gaza verrà rioccupata, molto sangue correrà per le sue strade, e la finestra apertasi ad Annapolis sarà richiusa.

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