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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
03.03.2008 Hussein di Giordania, dalla sconfitta nella guerra dei Sei giorni del 1967 alla pace separata del 1994
un articolo di Benny Morris

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 03 marzo 2008
Pagina: 0
Autore: Benny Morris
Titolo: «L’arabo che invidiava Israele»

Pubblichiamo un articolo a firma Benny Morris intitolato "L’arabo che invidiava Israele" apparso sul Sole 24 Ore domenica 2 marzo.

Una biografia di Hussein di Giordania, dalla sconfitta nella guerra dei Sei giorni del 1967 alla pace separata del 1994. Il re aveva riconosciuto che lo Stato ebraico era troppo forte.

Un rapporto dei servizi segreti israeliani risalente agli anni Ottanta descriveva Hussein bin Talal – re di Giordania dal 1953 alla sua morte, nel 1999 – come "un uomo intrappolato su un ponte che sta bruciando su entrambi i lati sotto cui scorre un fiume infestato dai coccodrilli: non può andare avanti, non può tornare indietro, non può saltare giù".

Era una descrizione appropriata, di certo almeno per gran parte del suo regno. In fin dei conti, la Giordania era una zona depressa – persino rispetto agli standard del Medio Oriente -, un Paese piccolo, povero, sotto popolato (nel 1953 aveva un milione di abitanti), senza risorse degne di menzione e, dopo la perdita della Cisgiordania e di Gerusalemme Est nel 1967, privo di ogni importanza strategica e politica. Guardando i semplici dati statistici, sarebbe stato ben difficile considerarlo un protagonista di rilievo delle scenario mediorientale. Ed era incuneato tra un potente Israele, un’inquieta popolazione palestinese e due grandi vicini arabi generalmente ostili, la Siria e l’Arabia saudita. Tuttavia, pur avendo uno spazio di manovra così limitato, Hussein (un discendente del profeta Maometto e un rampollo della dinastia hashemita che aveva governato la Mecca e Medina prima del 1925 e, per diversi periodi, la Siria e l’Iraq) riuscì a fare un numero di passi che, di fatto, vennero a cambiare il corso della storia del Medio Oriente. Li ricostruisce Avi Shlaim nel suo libro sullo scomparso re di Giordania

(Lion of Jordan, the life of King Husein in War and Peace, Allen lane/Penguin, Londra 2007, pagg. 698, £30,00)

Prendiamo la Giordania e la guerra dei Sei giorni del giugno 1967 alla quale Shlaim dedica un lungo capitolo (uno dei migliori del suo libro): Hussein, un leader molto coraggioso anche se non sempre cerebrale, giocò d’azzardo entrando nella coalizione guidata dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, aprì le ostilità contro Israele e, di conseguenza, perse la Cisgiordania e Gerusalemme Est per mano delle Forze israeliane di difesa (Idf), dando l’avvio alla rinascita del nazionalismo arabo-palestinese e segnando l’inizio di decenni di occupazione che ancora infiammano il Medio Oriente.

La descrizione del 1967 presentata da Shlaim è corretta e accurata, e contribuisce significativamente a correggere le assurdità propinate nel recente libro di Tom Segev, 1967, che dà la colpa dello scoppio di quella guerra alla paranoia, al fanatismo ideologico e all’espansionismo israeliani.

Shlaim sottolinea eccessivamente l’importanza della rappresaglia lanciata dalle Idf nel novembre 1966 sul villaggio cisgiordano di Samu’a come uno dei fattori che fecero precipitare la situazione. Egli, tuttavia, prosegue affermando, correttamente, che "tra le cause principali della guerra ci furono la presunzione degli arabi e il loro continuo gioco al rialzo……e che il fattore decisivo nell’innescare la crisi che condusse al conflitto furono le rivalità interarabe" (con cui si riferisce alle critiche arabe che spinsero Nasser a mandare il proprio esercito nella penisola del Sinai). Nasser "non pianificò la guerra e non la desiderava", ma la sua "politica del rischio calcolato….si spinse ben oltre il limite", scrive Shlaim; e ciò costrinse Israele a lanciare il suo devastante attacco contro l’Egitto la mattina del 5 giugno 1967.

E poi arrivò Hussein ad aggravare ulteriormente l’errore di Nasser. Quella mattina, Israele gli mandò "tre" messaggi, attraverso l’Onu e gli Stati Uniti, chiedendogli di tenersi fuori dal conflitto israelo-egiziano; "non attaccateci, e noi non vi attaccheremo". Ma il suo esercito, la Legione araba, aprì il fuoco contro i quartieri ebraici di Gerusalemme Ovest, i sobborghi di Tel Aviv e la base aerea di Ramat David, nella valle di Jezrel. Verso mezzogiorno, la fanteria giordana lanciò un assalto contro il "Palazzo del governo", il quartier generale dell’Onu, situato sulla biblica "Collina del cattivo consigli", nella zona meridionale di Gerusalemme. Israele contrattaccò e, con una campagna lampo di sessanta ore, conquistò la Cisgiordania e Gerusalemme Est, con al centro la Città vecchia.

Quindi Israele fece un costoso e prolungato errore, e qui sono almeno parzialmente d’accordo con Shlaim: si tenne stretta la Cisgiordania (e la Striscia di Gaza) e si mise a spadroneggiare sulla popolazione palestinese, che divenne progressivamente sempre più stanca del dominio militare straniero. Il 19 giugno 1967, il Gabinetto israeliano decise in segreto di restituire la penisola del Sinai all’Egitto e le alture del Golan alla Siria in cambio di accordi bilaterali di pace e trasmise questa offerta attraverso Washington al Cairo e a Damasco. Ma il Gabinetto guidato dal Partito laburista – e che includeva il partito di destra Gahal (Herut) e il Partito nazionale religioso – non riuscì a trovare un accordo sulla restituzione della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est. La Lega araba rispose all’unanimità nel mese di settembre con i famosi "tre no" pronunciati a Khartoum: "no al riconoscimento", "no ai negoziati" e "no alla pace" con Israele.

Ciò che rimaneva sul tavolo era la possibilità di un accordo bilaterale di pace separato tra Israele e la Giordania. Ma a Hussein Israele non seppe offrire nulla di più del "piano Allon", secondo il quale gli israeliani avrebbero dovuto mantenere Gerusalemme Est, la parte occidentale della valle del Giordano e il Blocco di Etzion tra Betlemme ed Hebron, mentre la Giordania si sarebbe ripresa il resto. Hussein rifiutò.

In ogni caso, quell’offerta non venne mai avanzata e Israele finì per trovarsi come controparte e sedicente interlocutore un ‘Organizzazione per la liberazione della Palestina chiusa pregiudizialmente a ogni accordo, con una situazione turbolenta in Cisgiordania (e nella Striscia di Gaza) che sarebbe infine esplosa nelle due rivolte – o "Intifade" – palestinesi (nel 1987-91 e nel 200-04), e senza una via d’uscita o una prospettiva di pace in vista.

Ma nel frattempo, dopo aver abbandonato la speranza di rientrare in possesso della Cisgiordania e aver lasciato perdere i palestinesi (di cui aveva schiacciato le forze militari nella sanguinosa guerra civile giordana- il "Settembre nero" – nel 1970-71), Hussein fece il suo secondo salto storico e firmò una pace separata con Israele nel 1994. Ma la pace, in se stessa, non fu un semplice caso fortuito o un’anomalia storica, come Shlaim spiega chiaramente. Fin dall’inizio della sua carriera, il giovane Hussein aveva infatti accettato la conclusione che il suo nonno e mentore, re Abdullah, aveva già raggiunto negli anni quaranta, e cioè che Israele era troppo forte per essere sconfitto e che gli arabi avrebbero dovuto raggiungere un accordo con esso. Inoltre, Hussein nutriva un’invidiosa ammirazione per Israele e una certa simpatia per l’avventura sionista (fu sempre consapevole dell’Olocausto e di come avesse lasciato un segno sulla psiche israeliana). Il libro si chiude con un commovente capitolo sull’ultimo anno di vita del sessantatreenne Hussein, morto per un inguaribile cancro mentre stava aiutando il presidente Clinton a raggiungere un accordo di pace israelo-palestinese e mentre stava cercando di garantire una tranquilla successione al trono hashemita. Shlaim racconta gli intrighi bizantini consumatisi nella corte corrotta, con il capo della polizia segreta giordana, Samih Batikhi, che istigò Hussein contro suo fratello, il principe ereditario Hassan, infine, con l’incoronazione del figlio di Hussein, Abdullah II.

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