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La Stampa Rassegna Stampa
02.03.2008 Due pagine modeste sul quotidiano torinese
Che non spiegano chi è l'aggressore e chi l'aggredito

Testata: La Stampa
Data: 02 marzo 2008
Pagina: 4
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Diluvio di fuoco sulla Striscia, più di 60 morti»

Sulla STAMPA di oggi, 02/03/2008, a pag.4-5, due servizi della corrispondente Francesca Paci, che pubblichiamo. Il primo è un accurato reportage dalla città di Ashkelon, colpita dai razzi ,a più lunga gittata, come Sderot. Il secondo, da Eretz, la cronaca dei bombardamenti su Gaza, un articolo nel quale manca ogni accenno al perchè Israele colpisce Hamas. In questa guerra non c'è equiparazione delle parti, c'è uno stato che si difende,Israele, e una forza terrorista, Hamas, che lancia missili sul territorio israeliano. Se un giornalista non lo scrive chiaramente, ma si limita a registrare solo le conseguenze, non fa onore al prorio mestiere. E' quanto analizzava ieri sul CORRIERE della SERA Magdi Allam.

Sempre sulla STAMPA ci sono poi due pezzi che risparmiamo ai nostri lettori, Il primo,di Igor Man, che vorrebbe essere una analisi, mentre in realtà è un guazzabuglio di ricordi senili misti alle solite citazioni arabe. Il lettore,arrivato alla fine, si chiede che cosa ha letto. Il secondo, è una intervista a Bobby Baer, che ci viene presentato come " uomo di riferimento dei servizi CIA in Medio Oriente negli anni '80 e '90", non passato alla storia per altri meriti, se non  per aver scritto un libro portato sullo schermo da George Clooney. Il firmamento americano è ricco di ben altre firme. Curiosa e di basso profilo la scelta di Baer, un illustre sconosciuto.

Ecco i due articoli di Francesca Paci:

Razzi ad Ashkelon, non ci sono rifugi:

L’ospedale Barzilai di Ashkelon è a pochi metri da Nefti square, il cuore economico e politico della città, dove si affacciano il palazzo del Municipio, il mercato della frutta, Jeunesse Coiffeur, il parrucchiere degli impiegati comunali che non rinunciano alla messa in piega neppure in queste ore, anzi, scherza chez Uri, il titolare, ne fanno «un simbolo di resistenza ai colpi che arrivano da Gaza». Ieri mattina quando il Grad, il razzo di nuova generazione più potente dei vecchi Qassam, è esploso nel viale d’accesso al Barzilai, la gente con gli occhi al cielo ha seguito la traiettoria quasi fosse una stella cadente. «Mi è passato davanti, mai visto nulla di simile: il pavimento del mio ufficio, al quarto piano, ha sobbalzato», racconta Anat Wienstein Berkovits, portavoce della giunta provinciale. È rimasta al suo posto. Anche volendo, non avrebbe avuto scelta: il palazzo non ha un rifugio antiaereo. Nessun palazzo, nessuna casa, nessuna costruzione di questa città di 120 mila abitanti, uno dei principali porti israeliani, sede di una grande centrale elettrica e del più importante impianto di desalinizzazione del Paese, è attrezzato per il conflitto.
Ashkelon si sveglia vulnerabile come Sderot, la località del Negev al confine con Gaza, bersaglio storico della guerra a bassa intensità che si combatte da mesi nel nord della Striscia. Nelle ultime quarantott’ore gli abitanti hanno contato sette razzi, quattro feriti lievi, decine di persone ricoverate in stato di shock. I due militari israeliani morti ieri e i sei feriti durante gli scontri tra l’esercito e i miliziani di Hamas, a meno di venti chilometri da qui, diffondono un’eco sinistra sui giorni a venire. «Andiamo avanti, facciamo finta di vivere normalmente, il grande show deve continuare», commenta scuotendo il capo Dimitri, proprietario del negozio di scarpe Diva Shop, origini russe come la maggior parte dei concittadini. Accanto alla sua vetrina un manifesto appena affisso ricapitola cosa fare nei 15 secondi successivi al fischio della sirena: scendere dall’automobile, sdraiarsi in terra con le mani sulla testa, restare immobili per almeno cinque minuti.
«In realtà non è la prima volta», nota Ron Lobel, direttore generale dell’ospedale Barzilai, a lungo responsabile sanitario dell’amministrazione civile israeliana a Gaza, negli anni dell’occupazione. Nel computer ha i dati del 2006: 1496 razzi lanciati contro Israele, 26 alla periferia di Ashkelon, 8 in pieno centro. Lo stereo diffonde piano le note di Peter Gabriel: proibito coprire in alcun modo l’eventuale allarme.
«Ce l’aspettavamo, era solo questione di tempo, purtroppo arriveranno presto anche i morti», continua il dottor Lobel. I cinquecento posti letto del Barzilai sono già al completo, contusi e feriti di queste ore ma anche quindici palestinesi vittime del fuoco israeliano degli ultimi mesi. Ron Lobel vive in una villetta a Nativ Hasara, 300 metri da Gaza, dove ha mantenuto molti amici medici. Dal balcone vede nitidamente il lancio continuo dei Qassam. Racconta di aver impiegato settimane per trovare un idraulico che venisse a riparare la toilette guasta: una volta sentito l’indirizzo si tiravano tutti indietro. Ma lui continua a credere nel dialogo: «Dal canto mio penso che dovremmo parlare con chiunque, Hamas compreso. Eppure capisco che prendere una decisione politica è difficile, chi ci spara addosso si nasconde in mezzo alla popolazione, donne, bambini: in queste condizioni rispondere al fuoco significa necessariamente uccidere civili».
Ashkelon attende senza grandi speranze. Due giorni fa il ministro della Difesa Barak è atterrato in elicottero per rassicurare la città. «Il governo ci ha cacciato in questa situazione e ora deve tirarcene fuori, anche a costo di intavolare trattative con il diavolo», dice il vicesindaco Levi Sheffman, riprendendo un’affermazione del primo cittadino di Sderot, Eli Moyal.
Gaza è vicina e lontanissima da qui. «Non ci conosciamo più, israeliani e palestinesi non sanno più niente gli uni degli altri», osserva Herb Krieger, insegnante di 52 anni. Herb parla arabo fluentemente: fino al 2000, l’inizio della seconda intifada, organizzava programmi culturali per studenti palestinesi. Sembra un secolo fa. Nella sua scuola, a un paio d’isolati dal Municipio, gli studenti non hanno più voglia d’imparare la lingua del nemico: «Come si fa a costruire la pace con qualcuno negandone l’identità?». Gli abitanti di Ashkelon e della Striscia di Gaza, vittime della stessa guerra, s’incontrano ormai solo nelle corsie dell’ospedale Barzilai.

Diluvio di fuoco sulla Striscia, più di 60 morti:

Sto chiuso in casa da mercoledì sera, ho proibito ai miei figli di uscire, gli israeliani sparano a qualsiasi cosa si muova». La voce di Nafez Az-Zein arriva a tratti, s’interrompe, cade la linea. Nafez vive con la famiglia nella zona est del campo profughi di Jabaliya, la linea del fronte, il campo di battaglia tra i miliziani di Hamas e l’esercito israeliano che ieri ha raccolto almeno 60 morti, di cui secondo le fonti palestinesi almeno un terzo civili, inclusi 9 ragazzi tra i 13 e i 17 anni, un neonato di pochi giorni, e almeno tre donne. La rabbia degli abitanti è pesante come l’aria carica d’esplosivo. Il primogenito di Nafez, Mustafà, scalpita. Il padre ha impiegato tutta l’autorità d’un genitore d’altri tempi per tenerlo a freno: «Ha 16 anni, vuole andare a combattere». Le case, i vicoli sono una grande trincea.
Il mondo arabo si stringe intorno alla Striscia di Gaza. Libia, Libano, Egitto alzano la voce. Da Damasco il leader di Hamas in esilio Khaled Meshaal accusa Israele di «un vero e proprio Olocausto». Il presidente palestinese Abu Mazen ha deciso di sospendere i negoziati di pace con Israele, mentre fonti interne alla Muqata rivelano che il capo dei negoziatori palestinesi Abu Ala è pronto a rovesciare il tavolo delle trattative che da mesi divide ogni settimana con il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni. Ma la protesta di di Tripoli, Cairo, Ramallah, arriva ovattata a Gaza, un’eco impercettibile sommersa dai colpi degli oltre duemila militari israeliani penetrati oltre il confine e dalla risposta dei miliziani di Hamas, della Jihad Islamica, dei Comitati di resistenza popolare.
Gli ospedali di Gaza hanno allestito posti letto nei corridoi, all’ingresso, nel cortile. «Ci sono almeno 12 feriti destinati a morire», dice Halid Radi, portavoce del ministero della Sanità di Hamas. Ahmad, è infermiere al pronto soccorso di Shiva: «Il flusso da Jabaliya è continuo. Non abbiamo specialisti né farmaci, nelle ultime 24 ore sono arrivate più di mille persone, in molti casi possiamo solo guardarli spegnersi poco a poco».
Le televisioni sono tutte accese, a Gaza, a Jabaliya, a Khan Yunis. Lavorano i reporter della tv di Hamas e di al Jazeera ma i commentatori tacciono. Nessuno azzarda previsioni. Hamas si è detto più volte disponibile alla tregua anche attraverso lo scambio di prigionieri, il caporale israeliano Gilat Shalit, catturato nel 2006, contro una lista «negoziabile» di miliziani nelle prigioni israeliane. L’unica opzione per ora però, sembra quella militare. Israele «non ha fissato un limite di tempo» dell’esercito nella Striscia, dichiara il portavoce del ministro della difesa Ehud Barak, e promette: «L’operazione durerà finchè è necessario».
«Ascolto mia sorella Fatima che vive a Jabaliya e sento la guerra, mi affaccio alla finestra e vedo i nostri ragazzi, giovani come i figli, che lanciano Qassam, non finirà mai», ammette Mohammed Kaddaui, insegnante di Rafah. Dal suo punto di vista, al confine con l’Egitto, la battaglia è lontana. Eppure è sotto casa: «Prima o poi gli israeliani cominceranno a rispondere anche qui, ci invaderanno di nuovo, solo questione di tempo».
Al quartier generale di Hamas le bocche sono cucite e si affilano le armi, giunte numerose nelle settimane scorse attraverso la frontiera del Sinai. Ieri sera, durante un’incursione israeliana, è stata uccisa la guardia del corpo di Mahmoud al-Zahar, ex ministro degli esteri di Hamas. I raid aerei marcano stretto il partito islamico ma a farne le spese, in queste ore, sono i civili. Due sorelle di 13 e 17 anni, Salwa e Samah Zedan sono state colpite mentre erano in salotto, lontano dalle finestre, lontano dai razzi. Nelle strade le moschee diffondono a volume altissimo versi del Corano, per due giorni sarà lutto nazionale. Le urla dei funerali e i tamburi di guerra fanno da colonna sonora alla conta dei morti.

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