Dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/03/2008, a pag.2-3, l'intervista ad Aharon Appelfeld di Davide Frattini, le opinioni dello storico Benny Morris e del romanziere Etgar Keret.
AHARON APPELFELD:
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — La voce di Aharon Appelfeld si abbassa fino a scomparire, quando deve ripetere la parola che è stata scagliata tra le bombe di Gaza. «Quello che sta succedendo è peggio di un Olocausto» condanna Abu Mazen. «È increscioso che Israele abbia usato questo termine, bandito per oltre sessant'anni » continua il presidente palestinese. Dalla Siria, Khaled Meshal, uno dei capi di Hamas, parla di «vero Olocausto» e accusa lo Stato ebraico di usare «ciò che è successo nella Seconda guerra mondiale come pretesto per ricattare il mondo».
Lo scrittore di Gerusalemme fatica ancora di più ad accettare che il primo a pronunciare «Shoah» parlando delle operazioni militari a Gaza sia stato un leader israeliano. Lo indigna, non lo stupisce. Il portavoce di Matan Vilnai ha precisato che il viceministro della Difesa, laburista, ha usato la parola «nell'accezione corrente di catastrofe, la traduzione è stata fuorviante. Il senso era: i palestinesi rischiano di attirare su di loro un disastro ancora peggiore di quelli che hanno conosciuto ». Per Appelfeld la distinzione fa poca differenza, perché Shoah «è diventata un'espressione svalutata, sfruttata in malo modo proprio dai nostri politici. Non si può usarla per riferirsi a una catastrofe, per quanto grande. L'Olocausto è il genocidio del popolo ebraico».
I riferimenti all'Olocausto sono già stati usati nello scontro politico in Israele. Pochi mesi prima che il premier Yitzhak Rabin venisse assassinato, manifestanti dell'estrema destra avevano sfilato esibendo dei poster che lo mostravano in divisa nazista. Benjamin Netanyahu era stato accusato dalla sinistra di evocare slogan da Terzo Reich quando durante la campagna elettorale del '99 usò il motto «un leader forte per una nazione forte». «I politici pensano agli slogan, non al vero contenuto delle parole — commenta lo scrittore, 76 anni —. Non si chiedono quale sia il significato, quali memorie evochino o che cosa provochino nell'anima. Non cercano la delicatezza, vogliono solo lasciare una forte impressione».
Quand'era un bambino Aharon Appelfeld è sopravvissuto per 4 anni («come un animale», dice) nascondendosi nei boschi dell'Ucraina, dove era stato deportato dal villaggio di Czernowitz in Romania. Da solo si è salvato, da solo ha compiuto il viaggio che l'ha portato in Israele nel '46: nei suoi trenta libri ha voluto conservare la memoria di quel passato. «Il cuore ha dimenticato molto — scrive in Storia di una vita, ripubblicato in Italia da Guanda — soprattutto luoghi, date, nomi di persone, ma malgrado ciò sento quei giorni con tutto il mio corpo. Ogni volta che piove, fa freddo o soffia un forte vento, torno nel ghetto, nel campo di concentramento o nel bosco dove ho trascorso molti giorni».
Dalla memoria di quei giorni, riparte per spiegare: «Quello che è successo durante la Seconda guerra mondiale è così mostruoso da non poter essere confrontato con nessun altro evento. Il conflitto che stiamo conducendo contro i palestinesi non ha nulla a che vedere con l'Olocausto. È uno scontro tra due popoli, per il controllo di un territorio. Né gli israeliani né i palestinesi intendono costruire campi di concentramento. La parola Shoah andrebbe sempre usata nel contesto di quel che avvenne allora. Riconosco la tragedia di Gaza. Ma noi siamo un popolo che è stato sradicato dalle sue case e non possiamo accettare ancora una volta di venire cacciati dalle nostre città sotto la minaccia dei razzi». Anche Abraham Yehoshua — in un'intervista ad Haaretz prima dell'operazione a Gaza — ha respinto qualunque paragone con i nazisti. «Durante 4 anni della seconda Intifada — spiega lo scrittore — uno degli eserciti più sofisticati e potenti al mondo ha affrontato i miliziani: 4.000 palestinesi e 1.000 israeliani sono stati uccisi. Questo è nazismo? I nazisti avrebbero ucciso 4.000 persone in un minuto».
Appelfeld è pronto a rievocare il nome Hitler per Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano. «È una situazione completamente differente. Abbiamo il leader di uno Stato che dichiara di voler eliminare un altro Stato, la nazione del popolo ebraico. Ahmadinejad ha un progetto. La sua non è retorica, le sue parole devono far suonare l'allarme, c'è il pericolo di un nuovo Olocausto».
BENNY MORRIS
Le organizzazioni di militanti palestinesi nella Striscia di Gaza sfidano da ormai sette anni la forza militare israeliana lanciando razzi Qassam contro le città e i villaggi israeliani limitrofi. I razzi artigianali, con testate esplosive di piccole dimensioni, sono estremamente imprecisi e soltanto occasionalmente hanno provocato gravi danni o vittime. Ciononostante, sono riusciti a stringere gli insediamenti di confine israeliani in una morsa di terrore. Israele ha risposto con operazioni mirate contro i lanciatori di razzi, i loro fornitori e i laboratori dove vengono assemblati. Ma la pioggia di razzi non è cessata. E, in questi ultimi mesi, i fondamentalisti di Hamas e Jihad islamica sono riusciti a potenziare la loro gittata e forza esplosiva. Così, cresce di ora in ora la pressione dell'opinione pubblica sul governo Olmert affinché soffochi la minaccia invadendo la Striscia con reparti di fanteria e mezzi blindati e, nel giro di poche settimane, soppianti Hamas e i suoi alleati, imponendo ai palestinesi un alto prezzo di sangue. Tutto ciò, forse, fermerebbe i razzi. La gran parte degli osservatori militari, tuttavia, sostiene che l'invasione della Striscia potrebbe significare un enorme numero di vittime tra le forze israeliane e i civili palestinesi, con la conseguente pressione dei Paesi occidentali a interrompere l'offensiva.
Una minoranza della popolazione israeliana, che gode tuttavia di crescente sostegno, sta facendo pressioni sul governo affinché intraprenda una via alternativa: negoziare un accordo di pace o un cessate il fuoco con Hamas. L'idea di una pace è irrealistica, perché Hamas ha inciso nella sua carta costitutiva l'obiettivo di distruggere lo Stato ebraico. La questione del cessate il fuoco è più complessa. In questi ultimi anni, infatti, i portavoce di Hamas hanno espresso la volontà di negoziare con Israele una tregua di lungo termine ma a determinate condizioni (ritiro israeliano dalla Cisgiordania, accordo sul ritorno dei profughi palestinesi). Anche se Hamas rinunciasse a tali precondizioni, è indubbio che l'organizzazione sfrutterebbe la futura calma per rafforzare le sue milizie. D'altro canto, gli abitanti di Sderot — e ora di Ashkelon — e dei kibbutz limitrofi sarebbero ben lieti di una tregua degli attacchi missilistici, anche solo per un anno o due.
Alla luce dell'escalation di violenze in questi ultimi giorni il governo Olmert — rimasto dolorosamente scottato in Libano, nell'estate del 2006 una sfida analoga all'Hezbollah — darà probabilmente nei prossimi giorni la sua risposta ad Hamas, e al mondo intero. Paradossalmente, l'esperienza libanese potrebbe servire sia da stimolo a rompere gli indugi e invadere Gaza sia da invito alla cautela e freno inibitore.
Traduzione di Enrico Del Sero
ETGAR KERET
La pagina iniziale del mio computer è un sito di notizie e ieri mattina, sabato, ogni volta che mi avvicinavo allo schermo per controllare l'ora non potevo non notare che il numero dei morti nella Striscia di Gaza in seguito all'operazione militare israeliana continuava a progredire a ritmo regolare e desolante, proprio come i minuti dell'orologio. Dopo un quarto d'ora e altri 6 morti non ce l'ho fatta più e ho portato mio figlio di due anni a fare una passeggiata nel nostro quartiere di Tel Aviv. Il sole che splendeva aveva fatto uscire molti altri bambini e genitori equipaggiati con occhiali da sole, tricicli e passeggini per bambole. Che strano, ho pensato, nonostante Tel Aviv non sia molto distante da Ashkelon e da Sderot, e neppure da Gaza, non riesco a sentire boati di razzi Qassam che cadono sulle città israeliane o il rombo dell'incursione delle forze armate ma solo il cinguettio di uccellini in un'altra giornata primaverile arrivata con un po' di anticipo. Quando sono tornato a casa lo schermo del mio computer proclamava che 35 palestinesi, 7 dei quali bambini, erano morti, e che Hamas aveva lanciato più di cento razzi sulle città israeliane. Quei 35 morti garantiranno forse la sicurezza delle città israeliane? Ne dubito. E i cento razzi lanciati da Hamas assicureranno la libertà al popolo palestinese? Ipotesi ancora più assurda. Perché allora le due parti continuano su questa via? Hamas spara razzi per dimostrare ai suoi sostenitori che è attiva, piena di coraggio e di energia di fronte al nemico israeliano. Olmert reagisce aggressivamente per mostrare al pubblico dei suoi elettori che non se ne sta con le mani in mano mentre città israeliani vengono bombardate.
Tutti questi eventi, terribili e insensati, mi ricordano una barzelletta in cui un poliziotto vede un ubriaco che si trascina sotto la luce di un fanale. «Che cosa sta facendo? » gli domanda. «Cerco una moneta che ho perso» risponde l'ubriaco. «E dove l'ha persa esattamente? » insiste il poliziotto. «Sull'altro lato della strada» spiega l'ubriaco. «E allora perché la cerca qui?» si stupisce il poliziotto. «Perché qui c'è luce» replica l'ubriaco con un sorriso trionfante.
E io mi domando quanta gente dovrà ancora morire prima che i nostri leader, ubriachi di potere, comincino a cercare la moneta dove c'è buio, nel punto in cui entrambi i popoli l'hanno persa da tempo, e non alla luce di razzi e ordigni esplosivi che non ci portano da nessuna parte e che non garantiranno la nostra sicurezza nemmeno di poco.
Traduzione di Alessandra Shomroni
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