Qui, dove siamo ora, Grozny è solo un luogo lontano. Il ristorante è a due passi da piazza di Spagna. Roma all’ora di pranzo è rumore di forchette e piatti, di gente che parla ad alta voce e di camerieri che muovono i passi veloci. Milana Terloeva ha 27 anni e guarda questa città senza tempo con la calma di chi ha già vissuto un paio di vite. Quattordici anni di guerra, macerie, fughe, fame e violenza sono un peso che non passa. Milana è una patriota cecena. Non è una terrorista. Non ama gli integralisti islamici, li considera furbi, egoisti, fanatici, gente che parla di Dio e brama il potere assoluto. Non si fida di Putin. E non smetterà mai di sognare una Cecenia libera e indipendente. Milana ha studiato alla Sorbonne, a Parigi, ma è tornata a Grozny per non arrendersi. Lei combatte con le parole e con un libro: Ho danzato sulle rovine (Corbaccio).
Milana conta i morti, i compagni di studio finiti nei campi di filtraggio e finiti nelle discariche della morte. Ricorda cosa diceva il generale Makarov: «È un popolo parassita, voi sapere cosa fare con i parassiti». E ha ancora negli occhi l’odio sbronzo dei soldati russi. «Ma se c’è una cosa che non perdono a Putin - dice - è di aver trasformato la Cecenia in un covo di Al Qaida». Lei si sente caucasica e occidentale. Si muove e si veste come una qualsiasi studentessa francese. «In Cecenia la religione non è mai stata sinonimo di integralismo. Non ci sono donne con il velo. Ma la resistenza ora è in mano a un pugno di fanatici. Ed è la nostra disfatta. Putin ha fatto fuori leader moderati come Gelaev e ha lasciato tranquilli jihadisti e wahabiti. Perché? Aveva bisogno di una scusa per giustificare il terrore russo davanti all’Occidente».
La guerra, lei, l’ha incontrata a quattordici anni. Racconta: «Era il 1994. Vivevo ancora a Orechovo, il mio piccolo paese di campagna. Mi stavo preparando per il ballo della scuola, quello di capodanno. Guardavo il vestito da principessa che mi aveva regalato mia madre. Mi sentivo un’eroina di Tolstoj o di Lermontov in un salone di San Pietroburgo. Ma quel vestito non l’ho mai messo. Non c’è stato nessun ballo. Sono arrivati i russi». Milana aveva 14 anni e non aveva ancora ipotecato il futuro. «La guerra? Non avevo la minima idea di cosa potesse essere. Un evento di cui si parlava a volte in televisione, nomi sconosciuti: Kabul, Vukovar, Sarajevo. La nostra generazione non era preparata alla realtà della guerra. Non sapevamo a chi rivolgerci, a chi chiedere aiuto. Tutto nella guerra è orribile, ma la cosa peggiore, secondo me, è la solitudine immensa che ognuno sente dentro sé, anche quando si ritrova pigiato in una cantina di dieci metri quadrati insieme a una quindicina di persone».
Tutto era cominciato tre anni prima, nel 1991, quando l’ex generale dell'Armata rossa Giokhar Dudayev proclama l'indipendenza della Cecenia. Mosca non la prende bene, prima offre invano l’autonomia, poi manda i carri armati. La storia la conoscete. Si combatte per un po’ di anni, poi Eltsin firma la pace. Il 27 gennaio 1997 viene eletto presidente della Cecenia Aslan Maskhadov. Sembra tutto finito. E invece era solo il prologo, di una storia molto più dolorosa. «Arriva il 1999 - ricorda Milana -. In settembre avevamo assistito impotenti al moltiplicarsi di attentati a Mosca. Putin prometteva di inseguire i terroristi anche nei cessi. Noi sapevamo cosa voleva dire, dato che ogni ceceno, nella logica di un ex agente del Kgb, era un terrorista o un bandito. Sapevamo che le truppe federali si erano ammassate alla frontiera. Un abisso si è di nuovo aperto davanti ai nostri piedi. Grozny era una pozzanghera di sangue sotto un cielo di bombe. Un vecchio, in piedi davanti ai cadaveri di bambini chiese a un generale russo: "Sono questi i terroristi che Putin vi ha mandato ad ammazzare?". "Sono futuri terroristi", rispose l’ufficiale».
I ceceni si portano dietro i 360 morti della scuola di Beslan. È il loro marchio d’infamia. Quella tragedia li ha resi indifendibili. E questo lo sa anche Milana. È la sconfitta dei moderati, dei non integralisti, di quelli come lei. La Cecenia si è arresa a Putin. Combattere è diventato inutile. L’unica battaglia che questa ragazza di 27 anni può fare è testimoniare. Sta cercando di aprire un giornale indipendente a Grozny. Ma le parole nella sua terra sono ancora tabù. «Non ho paura per me - dice -. Ma qui si ragiona per clan. Il potere se non può colpire me, si vendicherà sulla mia famiglia. È sempre stato così». Milana guarda la sua città che cerca di risorgere dalle rovine. La pace comincia a farsi sentire. «Non siamo liberi, ma siamo meno poveri. Da Mosca sono arrivati i soldi per la ricostruzione. È una parte delle tasse che paghiamo. Si è tornati alla vita civile. Ho fiducia nel coraggio delle donne, che sono state l’ultima voce di resistenza quando i padri, fratelli e mariti venivano massacrati. Saranno loro, le donne, il loro orgoglio, il miglior antidoto contro la deriva integralista». Il futuro della Cecenia è ancora molto lontano.
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