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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Zdena Berger Raccontami un altro mattino 29/02/2008
Raccontami un altro mattino                                          Zdena Berger
Baldini Castoldi Dalai, pagg. 315, euro 18,50


All´amico Oskar Pollak, compagno di scuola al ginnasio, il 27 gennaio di più di un secolo fa, Kafka scrive press´a poco così: bisogna leggere soltanto i libri che «mordono e pungono». Se il libro che leggiamo non ci sveglia «con un pugno sul cranio», a che serve? Oskar non sarà così ingenuo da leggere un libro «perché ci renda felici»? Quanto a sé, Franz non ha dubbi: va in cerca di libri che agiscano «come una disgrazia che fa molto male, come la morte, come un suicidio». E in modo perentorio conclude: «Un libro dev´essere la scure per il male gelato dentro di noi. Questo credo». Siamo nel 1904. Kafka non poteva leggere questo romanzo di Zdena Berger che ho sotto gli occhi - Raccontami un altro mattino (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 315, euro 18,50), uscito in America nel 1961. Ma sono certa che gli avrebbe procurato quell´emozione.
A me tremava il cuore leggendo e più volte ho smesso, sono uscita per strada per respirare. Ma allora accadeva una cosa strana; non smettevo di leggere. O meglio, il romanzo mi abitava la mente, mi frugava nel cuore. Per un coinvolgimento morboso nella vicenda? per una identificazione smodata? Fatto sta che ero lì con Tania e Ilse e Eva. E con Zdena Berger, la quale semplicemente racconta, non accusa nessuno. E proprio per questo, tanto più irreparabile e profonda si mostra l´offesa; a chi chiedere conto? a quale potere presentare reclamo? quale giustizia risponderà di tale scandalo? Non so niente di questa scrittrice; mi colpisce però la pudicizia delle note autobiografiche, che nel post scriptum trasformano il romanzo in una lettera. Tiene a dirci che vive sulla costa settentrionale della California, tra le sequoie, con marito e gatto; che ancora si vede con le amiche Ilse e Eva, di cui narra. E a farci sapere che quel che accade alle tre ragazze del romanzo è tutto vero.
Tiene a dirci che, scampata ai campi di Terezin, Auschwitz e Bergen-Belsen, dove si trovava nell´aprile 1945, quando l´esercito britannico arrivò a liberare quanti restavano, in quello stesso aprile tornò a Praga dopo quattro anni di prigionia. Aveva compiuto nel campo vent´anni. E ora tornando alla città dov´era nata, scoprì un´estraneità sradicante, che la spinse altrove. Prima a Parigi, poi in California. In quella distanza il libro cominciò a crescere dentro di lei: aveva bisogno di raccontare.
Noi sappiamo bene che cosa significa. Ce l´ha spiegato un nostro grande scrittore, Primo Levi. Il superstite giustifica, diciamo così, il peccato di essere sopravvissuto trasformandosi in testimone. Allo stesso modo Zdena si trasforma in Tania, racconta di sé attraverso quella ragazza che è lei e non è lei. Zdena ha bisogno di essere e non essere quello che è stata.
È la grande prova alchemica della letteratura. Se l´operazione negromantica riesce, se si riesce a scrivere un romanzo con la materia nuda e cruda di un´esperienza così tremenda, non che si guarisca, ma si diventa scrittori. Altrimenti, si depositano nelle pagine di un libro le spoglie inerti dei propri ricordi. Forse ci si solleva di un peso, ma non si raggiunge nessuno.
Nel suo bel saggio su Primo Levi, Le virtù dell´uomo normale (Carocci, 2003), Robert Gordon, studioso inglese di letteratura italiana, indaga sul profondo legame tra letteratura ed etica. Un rapporto c´è, non potrei essere più d´accordo. Per questo leggo, vi confesso, perché ho sempre più bisogno di una parola dove convivano verità e rettitudine. Ho sempre più bisogno di riconoscere in chi parla il senso della propria responsabilità alla lingua.
Ritrovo questo tono in Raccontami un altro mattino: nella sua semplicità e potenza, un piccolo capolavoro, come tale accolto quando uscì. Ma non salì in vetta a nessuna classifica. Non diventò un bestseller. Venne dimenticato. Dopo mezzo secolo, eccolo risorgere in America; e ora comparire in italiano per la traduzione di Marina Premoli. È bene che sia così, è giusto che non si dimentichi questo romanzo, che porta inscritto nel suo cuore la virtù della memoria, e nella sua stessa trama la forza, non certo trionfante, ma dolente, della sopravvivenza.
Tania, Ilse e Eva sono tre ragazze poco più che adolescenti che nei campi tedeschi dove si fabbricavano cadaveri, affrontano il viaggio nel cuore della tenebra. Lì non muoiono. Sopravvivono, anche se nel loro caso il termine è impreciso; perché fanno di più, durano a vivere nelle condizioni più estreme. E se questo accade è perché mai si spegne in loro l´energia degli affetti. Non la speranza dell´evasione - troppo immateriale, troppo astratta; ma il legame di affetto concreto, quotidiano, le salva.
Man mano che la scrittrice racconta, la sua lingua cresce di forza e di intensità. Non c´è bisogno di nessuna retorica, se non apofatica - per narrare l´orrore. È asciutto il racconto; in stile Hemingway, quando il protagonista è Nick Adams, il giovane in posizione iniziatica.
Anche questo è un romanzo iniziatico. Avvicina al mistero del male. E strazia. Mai in questo romanzo - è la sua bellezza - si gioca con le Benevole. Qui si affrontano le Erinni davvero, senza schiamazzo mediatico. E nell´unica posizione giusta, retta, da cui si può conoscere il male: dalla posizione della vittima.
«Raccontami un altro mattino», chiede il bambino febbricitante a Tania. È la domanda di immaginazione che dà il titolo al libro: perché l´estro della fantasia trasporti il povero bimbo fuori dal campo, e gli permetta di sopportare un attimo ancora, un istante di più. Tania diventa in quel momento la principessa Shahrazad che col suo racconto allontana la morte. Diventa l´icona parlante dell´infinita misericordia femminile, che sempre vuole accogliere nel grembo, anche in quello della mente, chi ha bisogno di tenerezza.
Ma una domanda tremenda, ingiusta, a cui nessuno dovrebbe mai più rispondere, rimbomba fragorosa nel libro e ci assorda: davvero l´immaginazione serve? O meglio: si può, si deve continuare a immaginare nel campo? Non è vero piuttosto che riuscirà a sopravvivere proprio chi ha scarsa immaginazione, chi spende l´intelligenza nella quotidiana furbizia di procurarsi un pezzo di pane in più? Ma chi si adatta e nel farlo rende la possibilità di vivere nel campo reale, non si allea così facendo con il proprio torturatore?
Crescere, innamorarsi, conoscere nel campo i baci e le carezze è possibile, accade. Ma Tania si rifiuta: ha paura di diventare disumana. Paura che prevalga la pura e semplice spinta a vivere, sempre e comunque, a ogni condizione. Anche Eva ha paura: «Se non faccio quello che fanno loro, sono libera» - dice. Con quel loro intende le altre donne del campo, che si sposano, perfino, davanti al Consiglio degli anziani. E nascono dei bambini. Ma allora perché non il suicidio? perché donne e bambini corrono a ripararsi dalle bombe? perché non vanno incontro alla morte come a una liberazione?
Forse perché la speranza è l´ultima a morire? No. Il romanzo ci consegna un´altra verità: è proprio perché vogliono morire, che non si sottraggono alla morte. Darsi la morte, cercarla, sarebbe sottrarsi alla vita che intanto gli aguzzini trasformano in tortura. I quali aguzzini sono atroci proprio perché tolgono alla vittima non solo la possibilità di vivere, ma quella di morire. Perché morire torni a essere un atto umano; ecco perché Tania, Ilse, Eva non si arrendono.
Sì che alla fine del romanzo, viene voglia di contraddire Levi, quando dice che nei campi «i migliori sono morti tutti». So che cosa intende. È giusto che ci educhi a pensare che non furono gli eletti, né i predestinati a sopravvivere. È giusto che ci insegni la sconcertante casualità del bene, accanto alla banalità del male. È giusto che ricordi la vergogna del sopravvissuto; perché coloro che non ce l´hanno fatta non sono certo i colpevoli, sono semplicemente coloro le cui virtù li rendevano i meno adatti. E proprio perciò paradossalmente i più "umani".
Ma mai per un momento dobbiamo dimenticare - e questo romanzo non ce lo permette - che i veri non umani sono gli altri: gli impiegati solerti della fabbrica nazista. Che l´uomo porti in sé le stimmate dell´inumano lo testimoniano coloro che non provarono vergogna. I torturatori sono apparsi incapaci di testimoniare, osserva Giorgio Agamben in Quel che resta di Auschwitz (Bollati Boringhieri, 1998).
È straziante, fa male, ma è accaduto: c´è stato un momento della nostra recente storia in cui l´azione di vivere e morire furono sottoposti a tale prova. È in effetti tremendo perfino pensarlo. Eppure, è accaduto. (Ma non si sentì, mi pare, la voce di nessun papa alta e chiara a difendere la vita). E a ben guardare accade ora, mentre scrivo. Nei campi profughi, nelle prigioni, nella foresta della Colombia, c´è chi toglie senso e significato alla vita. (Ma le urla di chi difende la vita a colpi di moratorie assordano le orecchie di chi vorrebbe ascoltare le vittime).
Nadia Fusini
da La Repubblica

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