Nelle prigioni dell'Autorità palestinese un reportage, non privo di ambiguità, di Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 29 febbraio 2008 Pagina: 12 Autore: Francesca Paci Titolo: «In prigione a 12 anni nell’inferno palestinese»
Da La STAMPA del 29 febbraio 2008, un articolo di Francesca Paci sul sistema carcerario palestinese. Che non viene per alltro mai esplicitamente e direttamente indicato come tale, dall'inizio del testo fino alla retorica conclusione sulla bandiera palestinese che "sfida il vento".
Ecco il testo completo:
Hassan ha compiuto 13 anni a settembre, due mesi dopo essere entrato in carcere con l’accusa di omicidio. Ha festeggiato fumando la prima sigaretta insieme al padre Mahmoud e ai due fratelli maggiori che dividono con lui e altri cinque detenuti la cella di due metri per tre nel centro di detenzione di Qalqiliya, 54 mila abitanti, una ventina di moschee, storico frutteto della Cisgiordania oggi interamente circondato dal muro costruito da Israele contro gli attentati kamikaze. All’orizzonte, meno di trenta chilometri in linea d'aria, la foschia marina avvolge il porto alla moda di Herzilia. Hassan è uno dei 580 «delinquenti comuni» delle otto prigioni riconosciute dalla polizia civile dell’Autorità Nazionale Palestinese. Uno che non si è votato al martirio ma ha ammazzato il figlio del clan rivale in omaggio al gioco perverso delle faide familiari, quello che il comandante Omar Al Busur chiama «lo sport preferito di Qalqilya». Un’eccezione, comunque: 24 criminali ogni 100 mila abitanti sono meno di un quarto della proporzione italiana. Se la punta dell’iceberg facesse media. Perché con Hassan ci sono 11 mila palestinesi nelle carceri israeliane, non tutti per reati di terrorismo, e, soprattutto, un numero incalcolabile di «prigionieri politici» in mano all’intelligence di Jenin, Hebron, Gerico. Dieci giorni fa il ministero dell’Interno di Ramallah ha annunciato la morte dell’imam di Hamas Majed Barghouti arrestato una settimana prima dal «mukhabarat», i servizi segreti, e ufficialmente morto d’infarto. Gaza, dopo il golpe di Hamas, è out dalle statistiche nazionali. «La polizia palestinese parla di 8 mila arresti pendenti e chiede fondi per costruire più prigioni» spiega Marta Costantino, ex direttrice del carcere «progressista» di Saluzzo, incaricata dall’Unione Europea di monitorare Eupol Coops, il programma di supporto alla polizia civile palestinese. La missione, dotata di appena 800 mila euro messi a disposizione dai Paesi Bassi, ha un obiettivo strategico più che tattico: «Siamo qui per costruire un sistema penitenziario, quello esistente è assolutamente arbitrario». Nella cella accanto ad Hassan, identici plaid in pail infeltrito e alle pareti gli stessi poster delle Brigate al Aqsa, il braccio armato di Fatah, Mustafà attende da un anno il processo che per nove detenuti palestinesi su dieci è una chimera quanto l’identità nazionale. Anche lui ha ucciso per onore, anche lui trascorre i giorni giocando a tòula, il backgammon arabo: il centro di detenzione di Qalqiliya non ha cortile. Solo i detenuti con l’asma sono autorizzati a uscire sul retro una volta alla settimana. Gli altri respirano dalla grata che sostituisce la finestra. Per mesi, mesi, mesi. «E’ vero che in Svezia le persone vanno in prigione per guardare la tv satellitare e risparmiare l’elettricità?» scherza Khaled Abu Shaid, un solo braccio, 26 anni di cui gli ultimi tre nel carcere di Nablus, un vecchio edificio turco che un tempo ospitava la Muqata, il quartier generale dell’Anp ripetutamente bombardato dagli israeliani, e oggi custodisce 172 detenuti. Divide la cella e l’unico bagno con 30 compagni, qualcuno dorme per terra, un altro cucina patate nel barbecue grande come una scatola di scarpe. Più avanti, sullo stesso corridoio, si affaccia la feritoia dei «traditori» accusati di «intelligenza con il nemico», un reato che comprende la vendita di terreni agli israeliani e riguarda il 18% dei detenuti palestinesi. Le donne abitano una sezione separata, coperte sulle finestre senza vetri, foto di bimbi sui letti, peluche rosa. Aisha Abu Ayyash ha ucciso per amore d’un altro il marito che non amava più e paga con l’annullamento del tempo il sogno dell’eternità. Alle sue spalle, oltre le grate arruginite su cui i ragazzini del campo profughi di al-Boureij tirano pietre contro l’Autorità che non riconoscono, la bandiera palestinese sfida il vento.
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