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Date da mangiare ai miei amati cani Emma Richler
Traduzione di F. Valente
Fandango Euro 22
Fantasticare il mondo visto da una ragazzina. Dilatare un dettaglio fino a renderlo ossessivo. Registrare quel tipico fissarsi su alcuni particolari che abita la mente dei bambini. Costruire un mare di interrogativi e repliche sul nulla e sul tutto.
Identificare un linguaggio infantile credibile: quello che, a un certo grado sviluppato e creativo d’istruzione, si userebbe a sette, otto, nove anni. Riuscire a tessere, con questo materiale, l’involucro di un’opera letteraria per adulti e dunque adulta nel linguaggio (operazione virtuosistica nella sua contraddittorietà, visto che la voce narrante è quella di una bambina che si esprime come tale). E dare corso a una storia autoreferenziale e ricca di citazioni colte, ardita nel suggerire letture a più livelli, progressivamente densa di complessità e mistero, e capace di porsi senza timidezza obiettivi “alti”: mistica, filosofia, meditazioni e digressioni religiose, il senso dell’universo e della vita trasformato in un ludico enigma, un intrecciarsi di fisica e metafisica, una preziosa sciarada.
E’ l’originalità di Date da mangiare ai miei amati cani, sterminato resoconto di un’infanzia scandito lungo più di settecento pagine, a volte magnetiche nel fiume colloquiale del discorso, a volte soffocanti nel turbinio ostinato attorno al proprio oggetto, cioè il pensarsi, l’immaginare, il divagare e il guardarsi attorno, nel microcosmo famigliare, della protagonista Jem, ovvero Jemina Weiss, terza di cinque figli e identica, per connotati, parenti e destino, a Emma Richler, autrice del romanzo, che con quest’impresa ha voluto ricalcare (in ogni piega, sottigliezza, zona percettiva e intellettuale) la trama della propria biografia infantile.
Nata a Londra e cresciuta a Montreal, Emma è la figlia (per l’appunto terza di cinque figli) di quel campione d’irriverenza e ironia che è lo scrittore canadese Mordechai Richler, l’autore de La versione di Barney, geniale e intrepido (come il suo cinico e indolente personaggio Barney Panofsky) nel misurarsi in modo politicamente scorretto con la propria identità di ebreo. I Weiss, cioè i componenti della famiglia di Jem, sono una fotocopia dei Richler. Un padre brontolone, giornalista e scrittore, una mamma bellissima, irrinunciabile per la sopravvivenza di tutti (e in primo luogo del marito, che non la molla un istante) e dall’oscuro passato, e i figli Ben, Jude, jem, Harriet e Gus, estrosi e alimentati da solide letture.
La piccola Jem, motore di quest’ambizioso percorso letterario (c’è qualcosa di proustiano nell’idea della memoria ritrovata del ricordo portatore di verità, e c’è molto di sperimentale, nel senso più novecentesco del termine, nell’imponente misura del monologo e nell’inventiva del lessico), passa il tempo dialogando con gli astri, affondando lo sguardo nei buchi neri, conversando con fantasmi inaspettati e giganteschi: Oliver Twist, Parsifal, Gesù, Sherlock Holmes, Galileo, il Piccolo Principe, Emily Bronte, il dio imperativo della Torah, certi mitici cow-boy dei film western e molto altro. Spesso Jem si sofferma sull’assenza e la perdita: ricama severe parole della Bibbia, evoca il disintegrarsi della Tavola Rotonda di Re Artù, narra gli inarrivabili ghiacci dell’Antartide sfidati dall’esploratore Shackleton, dalle cui ultime parole ai compagni di spedizione, Date da mangiare ai miei amati cani, deriva il titolo di questo stravagante libro-autoritratto. In tal modo la bambina sembra offrire al lettore, come chiave del suo viaggio, la coscienza dell’irrecuperabilità dell’istante trascorso. Ma lo fa senza gravità: il tono non è mai serioso né nostalgico, e vi affiorano sprazzi comici ed esagerativi che hanno stimolato in un paio di autorevoli critici inglesi paragoni con Salinger.
Leonetta Bentivoglio
Almanacco Libri –
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