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Dialoghi sul male Johann Friedrich Herbart
A cura di Renato Pettoello
Morcelliana Euro 15
Una tranquilla chiacchierata tra amici, e per di più quasi all’ora di pranzo. Johann Friedrich Herbart sceglie un tono dimesso per affrontare il grande tema dell’origine del male. Ma non si può dire che questo under statement, datato 1817, risulti sgradito. Come confida bonariamente il filosofo, “si vede meglio a occhio nudo che attraverso un cannocchiale inservibile”. Quando compone la sua opereretta sul male, Herbart si è già conquistato un posto di tutto rispetto nell’Olimpo accademico tedesco. Ha iniziato la sua carriera come professore a Gottigen, ed è poi stato chiamato a Konisberg, a ricoprire la cattedra già tenuta niente meno che da Immanuel Kant.
In quegli anni, l’Europa, una volta di più, cerca se stessa. Si è in piena Restaurazione e il fantasma del “Corso”, come lo chiamava Herbart, si aggira ancora per il Vecchio continente. Da buon tedesco, il nostro autore non ha nessuna simpatia per Napoleone, ma non può fare a meno di registrare le inquietudini dei tempi nuovi, che si ribellano al tentativo di ripristinare sic et simpliciter l’antico ordine.
In Germania soffia il vento impetuoso dell’idealismo e la filosofia è la grande regina intellettuale del momento. Ma Herbart, che pure ha studiato con Fichte, è uno spirito inquieto, e ai magniloquenti sistemi teorici preferisce un approccio più duttile e pragmatico: “Non riconosco nessun sistema – scrive -, se non quello che comincia con la critica, senza sistema”. Diventerà con gli anni un innovatore nel campo della psicologia e della pedagogia, uno degli inventori del concetto di Bildung, “educazione”, come complesso di valori culturali e morali. Ed è in questa chiave pedagogica che va vista la sua discussione sulla teodicea, che ora appare in italiano con una bella introduzione di Renato Pettoello.
Quello del male non è infatti un terreno scelto a caso, bensì il fondamento di un’opzione educativa. Si tratta di decidere come si possa trasmettere alle generazioni future un criterio di scelta tra giusto e ingiusto, come si passi insomma da pure questioni di principio ai concreti rapporti politici e sociali. E’ per questo che l’atteggiamento di Herbart verso i mostri sacri della filosofia, e in particolare la triade Spinoza, Kant e Fichte, è così contradditorio, un misto di rispetto e canzonatura. Nessuno dei tre lo convince appieno. Cosa fare allora? Innanzitutto – ed è questo uno degli snodi più moderni del pamphlet – bisogna dirsi, contro le illusioni di Spinoza, che del male abbiamo bisogno, ovvero che non possiamo semplicemente nasconderlo sotto una coltre di buone intenzioni filosofiche. E poi, contro Kant e Fichte, dev’essere chiaro che male e bene si distinguono “dai loro effetti”: non sono cioè “concetti della conoscenza ma del giudizio”, che coesistono e si legano come avviene per i metalli, “i nobili, assieme a quelli che non sono nobili”.
Ecco che Herbart sfodera, infine, la propria autorevolezza professionale di pedagogo: imprendibile come principio astratto, il male va inseguito e afferrato per quello che è, una macchia oscura “nelle profondità misteriose del nostro proprio spirito”.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore |
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