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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Martin Buber Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba. 25/02/2008

Una terra e due popoli.

 

Sulla questione ebraico-araba

 

(testi scelti e introdotti da Paul Mendes-Flohr,

 

a cura di Irene Kajon e Paolo Piccolella)              

 

Giuntina                                                                      Euro 18

 

Martin Buber è il filosofo del dialogo. Centrale nel suo pensiero è il rapporto io-e-tu, secondo un principio dell’inclusione in cui, nell’incontro con l’altro, “l’io non nega la propria realtà, ma cerca di includere la realtà dell’altro”. Tale contesto è solo all’apparenza astratto, e trova invece una concretezza storica e attuale nella raccolta di saggi che la Giuntina manda in questi giorni in libreria: Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba.

 

Quest’antologia di scritti buberiani è quanto mai opportuna, e l’apparato critico aiuta il lettore a districarsi fra i dati storici che sono la cornice indispensabile di queste riflessioni. Perché Buber non solo scrisse di queste cose: furono la sua vita, e una militanza mai stanca, fino all’ultimo.

 

La questione fondamentale, che è anche lo spartiacque del pensiero sionista nelle sue due correnti fondamentali, si pone in questi termini: il ritorno del popolo d’Israele alla sua terra significa conquista di una “normalità” nazionale, ambizione a diventare un paese come ogni altro? Oppure questo risorgimento ebraico deve avere come presupposto una vocazione particolare, in continuità con l’”eccentrica” condizione del popolo d’Israele?

 

Se Theodor Herzl era mosso dall’urgenza di rendere gli ebrei uguali agli altri popoli, per farli sfuggire all’antisemitismo e alla limitatezza esistenziale della diaspora, Buber è dell’avviso opposto.

 

Per lui l’elezione d’Israele rappresenta la base del ritorno alla terra (che considera urgente e necessario), della costruzione di un ebraismo “produttivo”, che il filosofo sente come un’istanza di giustizia. Non solo per gli ebrei stessi, bensì per tutto l’Occidente. “Se in occidente – scrive nel 1929 – vi sono speranze di una intuizione perfetta di vita umana, allora questa fede nel futuro vive di ciò che è stato iniziato e interrotto a causa della fine della comunità ebraica”.

 

Ma che cosa è esattamente questa elezione, che ha inventato la speranza e il futuro? “Essa non intende affermare alcun sentimento di superiorità, bensì di determinazione: non deriva da alcun confronto di sé con gli altri, ma dalla necessaria dedizione al proprio compito, a quel compito ai cui primi tentativi di esecuzione il popolo crebbe come nazione”.

 

Nel rispetto di questa vocazione, di un principio di giustizia se non dettata per filo e per segno certo suggerita dal cielo, Buber fonda la sua idea di terra promessa. In nome di quel principio di giustizia egli ritiene fondamentale il presupposto della convivenza, il confronto con quell’altro da sé, quel tu che condivide questa terra: la popolazione araba con i suoi diritti. Tutto ciò accanto alla battaglia che il filosofo ingaggia per il ritorno alla terra degli ebrei, perché sia consentita loro l’immigrazione in quella terra. Per una nuova, produttiva dimensione della storia d’Israele. Le parole di Buber sono sempre ferme, lucide, a volte profetiche.

 

Elena Loewenthal

 

Tuttolibri – La Stampa


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